Taxi a New York: quando la novità era una donna al volante (Betty Fishbein sul suo yellow cab negli anni Cinquanta)

Il rinculo di Uber

Era nata per rivoluzionare il mercato tradizionale dei taxi. Ora è un colosso che scruta con “l’occhio di Dio” le nostre vite. “God View” è il nome del programma che registra percorsi, carte di credito, preferenze, posizione degli utenti del servizio.

Non sappiamo se Uber è diventata cattiva il giorno in cui un manager di nome Emil Michael ha parlato a un pugno di giornalisti del progetto di creare un team di ricercatori (“oppo researcher” nel gergo elettorale) per spulciare la vita privata dei cronisti che parlano male dell’azienda. Michael era convinto che la conversazione fosse off the record, e probabilmente aveva ragione, ma tutti si sono scordati di mettere al corrente Ben Smith, il direttore di BuzzFeed, delle regole d’ingaggio. Oppure quando un altro manager di nome Josh Moher ha accolto con tempismo irrealmente perfetto una giornalista arrivata al quartier generale della compagnia per intervistarlo. Come faceva a sapere il momento esatto in cui sarei arrivata, scusi? Stavo tracciando il tuo percorso con la “God View”, fa quello. “God View” è il nome, evidentemente concepito nella fase acuta del delirio di onnipotenza, del programma che scruta percorsi, carte di credito, preferenze, posizione, tempi di percorrenza, tragitti ricorrenti e tutti gli altri dati degli utenti del servizio. Dicono che gli autisti – che stanno alla “God View” come lo schiavo egizio sta al dio Ra – non dispongono di queste informazioni, prerogativa dei dipendenti che distillano e vendono il prezioso nettare dei nostri comportamenti. L’amata Uber è passata ufficialmente dalla parte dei cattivi quando ha assunto un’orda di contractor per piazzare migliaia di chiamate fuorvianti da telefoni irrintracciabili verso gli autisti di Lyft, il competitor con i baffi rosa sul muso, oppure quando si è scoperto che molti autisti faticano a pagarsi le spese con le misere commissioni elargite?

 

Probabilmente non è stato un passaggio improvviso, un’istantanea perdita della verginità, ma qualcosa di più graduale, una specie di logoramento sottotraccia culminato nella presa di coscienza dell’ovvio: Uber è come tutti gli altri. Gioca duro come gli altri, fa il lavoro sporco come gli altri. Ha avversari da battere e critici da zittire, ogni tanto mette la polvere sotto il tappeto come tutti. Gli spin doctor di Uber hanno il loro onesto lavoro da fare per spiegare alle masse smartphonizzate che con quella app non stanno prendendo un taxi, stanno mandando in pensione un mondo. Un mondo lento, inefficiente, sindacalizzato, immobilista, corporativo, che non capisce le esigenze del mercato, un mondo dove si usano antichi ammennicoli tipo la radio o i contanti, per non parlare dei tassametri. Uber all’immagine di distruttore dell’industria paralizzata e paralizzante dei taxi ci tiene così tanto che per promuoverla a livello globale ha assunto David Plouffe, l’uomo che è riuscito a vendere Barack Obama come un grande leader sul mercato elettorale americano. Dopo un’impresa del genere promuovere il brand Uber sembra uno scherzo. E in effetti l’azienda che amministra i taxi con algoritmi intelligenti è nata con il credito naturale che spetta al rottamatore. Tutti sentono salire un moto di simpatia verso gli innovatori che con la sola forza dell’ingegno mettono in crisi l’ordine costituito, è il cuore della qualità “disruptive” delle aziende della Silicon Valley. Amiamo WhatsApp perché ha mandato in pensione gli sms, vogliamo Spotify perché ha soppiantato iTunes, il quale a sua volta ha messo in soffitta la musica su un supporto fisico, tessiamo le lodi di Amazon che ci ha liberato dal giogo degli acquisiti di Natale nelle vie fredde e affollate del centro, e poi il negozio sicuramente non ha più quello che stavamo cercando.

 

Detestare i taxi non è difficile. Generalmente offrono servizi mediocri a prezzi spropositati e non hanno nessun incentivo a migliorarsi, ché nella maggior parte dei casi la loro esistenza è regolata da un sistema di licenze amministrate da qualche polveroso e irriformabile ganglio della burocrazia pubblica, che certamente dipende da nomine politiche, a loro volta subordinate a conoscenze, favori, interessi stratificati eccetera. Nel sistema dei tassisti s’incistano e fioriscono alcune delle peggiori patologie della Pubblica amministrazione, tanto che la corporazione potrebbe essere presa come un caso di studio per individuare ciò che non va nella convivenza civile.

 

Agli albori di Uber, la cronista economica Megan McArdle, un tipo di schiette tendenze libertarie, ha raccontato con entusiasmo la comparsa di questo nuovo servizio che risolveva un “market failure” diffuso nella sua città, Washington, dove alla domanda di taxi non corrisponde un’offerta adeguata. Trovare un taxi nella capitale americana fuori dai percorsi turistici e politici classici può essere un’impresa disperata, tentare la prenotazione via telefono non aumenta le possibilità di successo. La morale era la solita, inoppugnabile: Uber fa bene e rapidamente quello che la vecchia burocrazia fa male e lentamente. Come non amare questi paladini dell’efficienza? Questa storia delle compagnie che sanano i “market failure” di cui è fatta la nostra vita è parte del motivo per cui tendiamo naturalmente a fare il tifo per questi player che distruggono il sistema a suon di alternative. E’ anche una storia di Davide contro Golia, della squadretta dell’oratorio contro la corazzata dell’oligarca russo, dell’etichetta indie che strapazza la major, quindi la simpatia concessa è spesso correlata alla grandezza e alle capacità dell’azienda. Dev’essere abbastanza sviluppata per essere “disruptive”, ma non gonfiata al punto da incubare gli stessi vizi delle aziende o dei cartelli che si propone di distruggere.

 

[**Video_box_2**]Uber ha superato una soglia psicologica, ha fatto il suo “breaking bad”. Non è chiaro se sia stato l’ultimo episodio controverso oppure l’accumulo di una serie di eventi degli ultimi anni e mesi ad averla fatta passare dalla parte dei cattivi, ma di certo è arrivato il momento in cui, come ha scritto il Washington Post, “Uber non riesce più a distinguere l’essere ‘disruptive’ dall’essere stronzo”. Essere un’impresa tentacolare diffusa in decine di città in tutto il mondo, con un valore stimato attorno ai 17 miliardi di dollari, non aiuta. Era lo strumento di redenzione dei peccati del mercato tradizionale, ora è un colosso nelle mani di un sedicente John Galt che scruta con “l’occhio di Dio” le nostre vite, tiene d’occhio i giornalisti fastidiosi e conserva i nostri dati anche dopo che abbiamo cancellato la app e richiesto formalmente di essere eliminati dal servizio. Non si esce mai definitivamente da Uber. Il documento sulla privacy dell’azienda recita: “Anche dopo che il vostro account è stato cancellato, conserveremo le vostre informazioni personali e i dati di utilizzo (inclusi la geolocalizzazione, la storia dei viaggi, le informazioni della carta di credito e l’elenco delle transazioni) per il tempo necessario per assolvere i nostri obblighi legali, risolvere dispute, concludere qualunque attività legata all’eliminazione dell’account, indagare o prevenire frodi e altre attività illecite, per far valere i nostri accordi e per altre ragioni di business”. Stabilire quanto è lungo il “tempo necessario” e quali siano esattamente le “altre ragioni di business” è uno dei molti misteri della fede di Uber. Ma qui non si tratta di un peccato circoscritto all’azienda che compete con i vecchi taxi. E’, piuttosto, un episodio della perdita dell’innocenza di un intero settore. L’intera Silicon Valley è cresciuta come una forza salvifica che avrebbe redento le malefatte di un mondo inefficiente e opaco, fornendo i più potenti mezzi di “empowerment” per il genere umano. Certo, in cambio di tutto questo avrebbe usato i nostri dati, ma li avrebbe usati a fin di bene, anzi in fondo li avrebbe usati per migliorare le nostre vite orientando le nostre miopi scelte commerciali, ottimizzando il rapporto fra domanda e offerta. La promessa dell’universo costruito attorno al “don’t do evil” non era quella di spiare i giornalisti non accondiscendenti: quelle erano le vecchie intimidazioni del vecchio mondo perso in vecchie logiche.

 

Soprattutto non era previsto che se ne compiacessero in modo crasso davanti a una tavolata di colleghi.
Jay Stanley, analista dell’associazione Aclu, osserva che la vera stranezza di questa storia non è il modo disinvolto con cui maneggiano i dati, ma l’ingenuità di vantarsene: “Il comportamento è proprio di una start up giovane che non ha ancora iniziato a capire la potenza e l’importanza dei dati che raccoglie, e della fiducia di cui ha bisogno per maneggiare quelle informazioni. In sintesi, non prendono sul serio la privacy. Se i manager di Uber sembrano senza scrupoli, da un’altra prospettiva danno l’idea di essere più che altro ingenui, per il modo esplicito con cui millantano i loro piani”. Stanley dice che “nessun’altra grande azienda della Silicon Valley farebbe una cosa del genere”: certamente per una maggiore esperienza nella gestione della comunicazione, ma forse anche perché hanno già perso la verginità. Hanno già mostrato il loro lato oscuro, hanno già svelato le loro infinite capacità di manipolazione, le loro truffaldine regole della privacy e via dicendo. Nel racconto popolare Google, Amazon, Facebook, Apple, Twitter e gli altri sono compagnie illuminate ma macchiate da una gestione orwelliana delle informazioni, oppure da nuove e più sofisticate forme di taylorismo. Sono associate più spesso alla National Security Agency che a Edward Snowden. Il tempo dell’entusiasmo incondizionato per questi giganti dove si produce il futuro mangiando cibo biologico nel campus delle distrazioni creative è finito da tempo. Non si è spento del tutto, ma è velato da una patina di scetticismo o disillusione. Uber è forse soltanto l’ultima azienda a entrare nel club. A ben vedere, poi, nelle recenti controversie di Uber gli altri attori – quelli scritturati per la parte delle vittime sacrificali – non sono esattamente agnellini disinteressati. L’azienda ha dimostrato particolare interesse nel tenere d’occhio la giornalista Sarah Lacy, feroce critica del ceo, Travis Kalanick, e in generale della cultura aziendale di Uber, che a quanto pare è tremendamente sessista e pericolosa. Secondo Lacy, la compagnia non soltanto scruta indebitamente i giornalisti ma chiude uno o anche tutti e due gli occhi quando succede che un autista allunga le mani dove non dovrebbe, secondo una procedura di insabbiamento ormai eretta a sistema. Lacy è un’affermata giornalista tecnologica che ha fondato il sito PandoDaily anche grazie ai milioni di Marc Andreessen, mitico inventore di Netscape che oggi assieme al socio Ben Horowitz elargisce fondi alle start-up più promettenti. Si dà il caso che Andreessen-Horowitz abbiano investito 60 milioni su Lyft, compagnia minore che aspira a mettere i bastoni tra le ruote di Uber con prezzi più vantaggiosi e servizi tecnologicamente più avanzati. Gli stessi angel investor hanno messo 50 milioni di dollari su BuzzFeed, il contenitore online che ha pubblicato il doppio colpo che ha stordito Uber: prima è arrivata la storia della “God View” e poi quella del team per controllare i giornalisti.

 

[**Video_box_2**]Non c’è alcun complotto, ovviamente. Ma non ci sono nemmeno player completamente neutri in questa disputa, e tutto ciò fa parte del normale andamento delle cose, è un “tutto il mondo è paese” che non deve stupire. Non stupisce nemmeno che, in fondo, il management di Uber come di tutte le altre compagnie finite sotto i riflettori della critica per qualche ragione (uno dei fondatori di Tinder è stato denunciato per molestie sessuali, tanto per citare un’altra controversia) non dia troppo peso alle chiacchiere online e alle campagne di boicottaggio. Il giorno dopo la scoperta che Uber minacciava di sputtanare una giornalista svelando segreti sulla sua vita privata che aveva appreso chissà come, non solo il manager in questione non si è dimesso (Kalanick ha confermato la fiducia via Twitter) ma la app è passata dal 37esimo al 35esimo posto nella classifica dei prodotti più popolari. Gli investitori non hanno fiatato. Nessuno ha chiesto un’epurazione, un taglio di teste esemplare. Perché molto probabilmente gli affari di Uber non saranno danneggiati.

 

C’è una regola non scritta nella Silicon Valley secondo cui, entro certi limiti, qualunque comportamento o dichiarazione eticamente discutibile non ha conseguenze sugli affari se il prodotto funziona. L’eccezione che conferma la regola è quella di Brendan Eich, colpevole di aver infranto un tabù inaccettabile: dichiararsi a favore della famiglia tradizionale. Per tutto il resto gli utenti giudicano in base all’efficienza del servizio, non alle qualità morali di chi lo offre. La Silicon Valley è diventata cattiva, ma non è cambiato poi molto.

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