Tintinnio di bilance

Guido Vitiello

L’iconografia giudiziaria è disseminata di tranelli. Scriveva Francesco Carnelutti (“Le miserie del processo penale”, 1957) che anche le manette sono un emblema del diritto; “forse, a pensarci, il più autentico dei suoi emblemi, ancora più espressivo della bilancia e della spada. Bisogna che il diritto ci leghi le mani”. La belva aggiogata torna allora ad apparirci uomo, risvegliando la nostra compassione.

    L’iconografia giudiziaria è disseminata di tranelli. Scriveva Francesco Carnelutti (“Le miserie del processo penale”, 1957) che anche le manette sono un emblema del diritto; “forse, a pensarci, il più autentico dei suoi emblemi, ancora più espressivo della bilancia e della spada. Bisogna che il diritto ci leghi le mani”. La belva aggiogata torna allora ad apparirci uomo, risvegliando la nostra compassione.

    Dubito che il grande giurista sarebbe riuscito a ripetere senza tremare queste parole, pur così ispirate ed evangeliche, davanti alle miserie delle nostre cronache, al deputato grillino che sorride con ferocia ebete mimando i ferri ai polsi, ai sadomasochisti giudiziari del Fatto quotidiano che per la retata dell’Expo tornano a mettere le manette in prima pagina (le stesse che avevano usato, cinque anni fa, per la bocciatura del lodo Alfano: neppure si sono sprecati a disegnarne di nuove) sotto quel titolo francamente ributtante, “Vanno a prenderli uno per uno”. La nausea è tale che quanti hanno ancora a cuore i princìpi elementari della civiltà giuridica – ormai un “piccolo resto”, per dirla biblicamente – devono pescare dal mobiletto dei farmaci la pagina in cui Sciascia avvertiva che se al simbolo della bilancia si sostituisse quello delle manette saremmo perduti senza rimedio. Per un istante il discrimine torna ad apparire nitido: di là le manette, di qua la bilancia; di là la muta ringhiosa dei linciatori, di qua la sobria invocazione della legge uguale per tutti. Ma l’iconografia giudiziaria è insidiosa come un cattivo sogno, le linee si annebbiano, e ti ritrovi a pensare, trasalendo, che oggi dobbiamo aver paura soprattutto della bilancia.

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    Il tintinnio di manette è per le persone civili come il campanello di Pavlov, induce i più sani e automatici riflessi di ripulsa, e si diventa simili a quei benemeriti cagnolini vittime di una ingiusta diffamazione. Ma è imprudente fermarsi alle prime reazioni. Certo, fanno orrore i videomessaggi squadristi di Beppe Grillo, che esorta la polizia, la guardia di finanza, l’esercito, la marina e i sommergibili (sic) a catturare Genovese (“andatelo a prendere!”) o che suona il corno di caccia ai linciatori (“cercatelo sul web, cercatelo per le strade… Non deve scappare”). E fa spavento il commento di Alessia Morani, responsabile Giustizia del Pd, che rivendica di aver gettato alla belva un lembo di carne fresca: “Abbiamo votato la richiesta d’arresto di Genovese. Ora Grillo si asciughi la bava alla bocca”. Allo stesso modo, il cane di Pavlov che è in noi è istigato alla pena per quei deputati che invece di tener alta la bandiera della civiltà (che suggeriva di votare fuori dalla campagna elettorale, e a scrutinio segreto, sulla libertà di un uomo) gareggiano nel mostrarsi più arcigni di Grillo. Tutto questo è sano; ma dovremmo allenarci a reagire con la stessa prontezza ad altri campanelli, per esempio al cinguettio di Matteo Renzi: “Il Pd crede che la legge sia uguale per tutti. E la applica, sempre. Anche quando si tratta dei propri deputati”.

    Si può pensare tutto il male del mondo di Genovese, è superfluo dirlo, ma quel che è accaduto neppure un cieco potrebbe non vederlo: della vita e della libertà di un uomo hanno fatto carne da campagna elettorale. Solo che gli uni lo hanno fatto agitando le manette; gli altri agitando la bilancia. Nella frase di Renzi, grondante ipocrisia, risuona l’esortazione maliziosa di Bruto nel secondo atto del “Giulio Cesare” di Shakespeare, che raccomanda ai congiurati di compiere il delitto rispettando le apparenze della civiltà: “Dobbiamo essere sacrificatori, ma non macellai”. Si tratta di farsi furbi, e dissimulare la bava alla bocca: “Questo farà apparire il nostro proposito necessario ma non odioso: se tale sembrerà agli occhi comuni, saremo chiamati purificatori, non assassini”. O anche: saremo chiamati legalitari, non forcaioli.

    Al tintinnio di manette abbiamo fatto l’orecchio; ora, compagni del canile garantista, addestriamoci a reagire al tintinnio di bilance.