Le lolite del Dr. Mengele

Guido Vitiello

Adolf Eichmann fu il più laconico stroncatore di “Lolita”. “Decisamente un libro sgradevole”, disse all’agente di polizia che gli aveva dato da leggere il romanzo di Nabokov per passatempo, quand’era sotto processo a Gerusalemme. La recensione del tenente colonnello al film di Kubrick non la leggeremo mai (“Lolita” debuttò a New York pochi giorni dopo la sua impiccagione), ma non c’è motivo di immaginarla più generosa. Cos’hanno da spartire, in fin dei conti, un alto burocrate dello sterminio e un cacciatore incantato di ninfette? Nulla, se non la necessità di inventarsi una difesa davanti a una Corte, e c’è pure chi ha suggerito che Humbert Humbert usa gli stessi espedienti retorici dei gerarchi nazisti a Norimberga.

    Adolf Eichmann fu il più laconico stroncatore di “Lolita”. “Decisamente un libro sgradevole”, disse all’agente di polizia che gli aveva dato da leggere il romanzo di Nabokov per passatempo, quand’era sotto processo a Gerusalemme. La recensione del tenente colonnello al film di Kubrick non la leggeremo mai (“Lolita” debuttò a New York pochi giorni dopo la sua impiccagione), ma non c’è motivo di immaginarla più generosa. Cos’hanno da spartire, in fin dei conti, un alto burocrate dello sterminio e un cacciatore incantato di ninfette? Nulla, se non la necessità di inventarsi una difesa davanti a una Corte, e c’è pure chi ha suggerito che Humbert Humbert usa gli stessi espedienti retorici dei gerarchi nazisti a Norimberga.

    Una nuova coppia di romanzo e film rischia di ingarbugliare un po’ le cose. Dell’uno e dell’altro è autrice l’argentina Lucía Puenzo. “Il medico tedesco” (Guanda) fa di Josef Mengele uno Humbert Humbert nazista, oscuramente attratto da una dodicenne che si chiama, guarda caso, Lilith. Con una premessa come questa, capite bene che la voragine del kitsch più sgomentevole sta lì spalancata, famelica, e Puenzo – che come regista non è Kubrick e soprattutto come scrittrice non è Nabokov – fa quel che può per non finirne inghiottita. All’inizio del film, “The German Doctor”, l’ex nazista fuggiasco in Patagonia è ammaliato da due gambette avvolte in calze di lana che si dibattono per intrufolarsi in un furgoncino. Il romanzo fa di peggio, e la piccola Lilith appare subito come “un personaggio mitologico, a metà fra ninfa e folletto”, a cui Mengele, grigio e intristito (l’autrice gli imprime anche un tocco dello Aschenbach di “Morte a Venezia”), vuol mettere le mani addosso – ma per misurarle il cranio.

    [**Video_box_2**]Non solo è un tripudio del kitsch, è anche un raduno mondiale di temi circondati da tabù – la Shoah, gli esperimenti medici sui bambini, l’erotismo della pubertà, la pedofilia, sia pure sublimata in vocazione a perfezionare il corpo di una ninfetta. C’era da attendersi controversie infinite e arroventate, come ai tempi del “Portiere di notte” della Cavani. E invece, poco o nulla. Fece più rumore, anni fa, Kate Winslet nuda in “The Reader”, il film di Stephen Daldry dal romanzo di Schlink, dove una ex guardiana delle SS seduceva un adolescente; per tacere dell’incendio polemico appiccato dalle ragazze un po’ troppo attraenti e strillanti sotto le docce di “Schindler’s List”. A quanto pare, davanti al Mengele adescatore di ninfette non battiamo ciglio, e questa è una piccola notizia. Certo, il vento del dibattito soffia dove vuole; ma è pure evidente che il connubio di erotismo e Shoah – che ha una storia lunga e appassionante, per larga parte sotterranea e per larghissima parte italiana – si avvia a trovar posto tra le forme “legittime” della memoria di Auschwitz. Sotto questo aspetto, l’antecedente più diretto di “The German Doctor” è “L’allievo”, il film che Bryan Singer trasse nel 1998 da un racconto di Stephen King.
    Gli ingredienti erano in parte gli stessi, in dosi ben più massicce e grossolane – un adolescente alimentava le sue fantasie erotiche ascoltando le memorie dell’ex comandante di un Lager – ma Singer poté presentarlo al Simon Wiesenthal Center di Los Angeles senza che volasse una mosca. La cosa si può interpretare in tanti modi, e al solito il più sciocco è quello moralistico. Basterà dire, in una formula, che l’erotizzazione della Shoah segue la sua sacralizzazione come un’ombra, inseparabile. Ma per Mengele – per quanto garbo e understatement possa averci messo Lucía Puenzo, preoccupata di fare dell’erotismo un sottotesto – è quasi un debutto. Finora la cultura pop ne aveva fatto uno scienziato pazzo da B-movie, e la sua vita sessuale era affidata a qualche film quasi clandestino di fine anni Settanta. Adesso è un antieroe nabokoviano.

    Che avrebbe detto il nostro critico nazista di fiducia, Adolf Eichmann, nel vedere il suo vecchio complice così conciato? Si sarebbe scandalizzato di nuovo? Non credo. Anche il tenente colonnello non è più quello di un tempo, e l’ultima volta che l’ho visto, nel film che Robert Young gli dedicò nel 2007, ansimava come un maniaco telefonico recitando le cifre dei deportati uccisi, mentre la sua amante, nuda, si strusciava contro la sua impeccabile uniforme nera. Decisamente sgradevole.