Il vintage dell'utopia

Guido Vitiello

Ai nostalgici della Guerra fredda culturale, o anche solo ai ritardatari, restano ben poche occasioni di rivalsa e non è raro che a offrirle sia la diaspora cubana. Meglio quindi non lasciarsi sfuggire “El comunista manifiesto”, l’ultimo libro di Iván de la Nuez, saggista nato all’Avana che da vent’anni vive a Barcellona. La sua premessa – inoppugnabile al lume delle scienze occulte – è che lo spettro del comunismo abbia cominciato ad aggirarsi per l’Europa non già nel 1848 ma solo dopo il 1989, perché è proprio dei fantasmi manifestarsi post mortem. Oltrepassate la tragedia e la farsa saremmo diretti al terzo stadio dell’estetica, dove si va, al galoppo, a saccheggiare le regioni degli sconfitti per riportarne qualche trofeo grazioso.

    Ai nostalgici della Guerra fredda culturale, o anche solo ai ritardatari, restano ben poche occasioni di rivalsa e non è raro che a offrirle sia la diaspora cubana. Meglio quindi non lasciarsi sfuggire “El comunista manifiesto”, l’ultimo libro di Iván de la Nuez, saggista nato all’Avana che da vent’anni vive a Barcellona. La sua premessa – inoppugnabile al lume delle scienze occulte – è che lo spettro del comunismo abbia cominciato ad aggirarsi per l’Europa non già nel 1848 ma solo dopo il 1989, perché è proprio dei fantasmi manifestarsi post mortem. Oltrepassate la tragedia e la farsa saremmo diretti al terzo stadio dell’estetica, dove si va, al galoppo, a saccheggiare le regioni degli sconfitti per riportarne qualche trofeo grazioso. E’ un’impresa che De la Nuez battezza Eastern, rovescio del Western, nel corso della quale i simboli e i cimeli rivoluzionari finiscono trasformati in feticci nostalgici, in paccottiglia vintage, in “bondieuserie” devota, in una parola: in kitsch. E tuttavia, checché ne dicano i nuovi cowboy, il nesso tra kitsch e utopia è assai più antico e profondo.

    Me lo ha ricordato, forse suo malgrado, Errico Buonanno in una bella pagina del suo nuovo romanzo “Lotta di classe al terzo piano” (Rizzoli), dove Karl Marx, chiuso in una stanzuccia londinese a tentare di scrivere il “Capitale”, torna ancora una volta a essere spettro. Non appare mai sulla scena, ma intorno al suo misterioso libro in gestazione, come attratte da un invisibile vortice, si addensano le più confuse aspettative di palingenesi del sottomondo rivoluzionario londinese, le più audaci fantasie politiche, letterarie, religiose, esoteriche. Il guaio è che il povero Marx patisce il blocco dello scrittore. Ed ecco come Buonanno descrive la sua stanza: “Alle pareti, regnava una carta da parati a fiori, un dagherrotipo con un volto sereno (era la moglie? Bella donna). E un acquarello, una veduta di Venezia, lo scarto di qualche rigattiere. Su un lato stava una credenza, ma gli sportelli, con i vetri sporchi, mostravano poco, quasi niente; piatti spaiati, tazzine sbeccate, e un fantoccino, di quelli in palio ai tiri a segno; un bambolotto, un po’ pelato, con cui forse un tempo aveva giocato la figlia più grande e che adesso restava conservato come un reperto del tempo che fu. Nell’aria, un odore dolciastro di cotto, di polvere, di fumo di sigari, stantìo. Che tenerezza, quale pena!”.

    [**Video_box_2**]E’ un interno gozzaniano, diciamo pure la versione squattrinata del salotto di Nonna Speranza, evocato perfino nei dettagli (“Venezia ritratta a mosaici, gli acquerelli un po’ scialbi…”). E in effetti non è raro che i grandi utopisti, per lo più artisti mancati, abbiano un’inclinazione al kitsch. Quando si tratta di presentare la “pars destruens” delle loro teorie, i rivoluzionari si atteggiano di solito a spiriti rigorosi, asciutti, alieni alle mollezze sentimentali; ma quando si avventurano a descrivere il mondo dei balocchi che seguirebbe alla demolizione, ecco che le loro fantasie si rivelano puerili, smancerose, e l’immagine della società perfetta non si distingue molto dai panorametti innevati racchiusi nelle campane di vetro (Marx, si è suggerito, fu prudente a lasciare nel vago i dettagli del comunismo realizzato). Che l’utopia sia kitsch per essenza? A mia memoria, l’unico ad aver affrontato la questione alla radice è il filosofo Ludwig Giesz in un libro di quarant’anni fa, “Phänomenologie des Kitsches”. Vi si diceva che i dogmatici socialisti, i fanatici religiosi e anche (accostamento geniale) i collezionisti di souvenir e gli edificatori di villaggi turistici sono figure antropologicamente affini. Quando si vuol portare il paradiso in terra, è sempre lì che si finisce: al kitsch.

    E allora faremmo bene, da ultimi giapponesi della Guerra fredda, a guardare con indulgenza al comunismo trasformato in souvenir, e ad augurarci che tale resti a lungo. Di che allarmarsi, di che dispiacersi se l’utopia torna alla sua casa natale, tra le buone cose di pessimo gusto?