L'anello di Bach

Giorgio Israel

Cosa c’è di più evidente della relazione tra musica e matematica? La musica è una successione di suoni di diversa “altezza” (più o meno bassi o acuti) e di diversa durata. Entrambi questi aspetti si rappresentano con numeri. Le durate dei suoni sono frazioni di una quantità data. Il suono di una corda pizzicata dipende dalla lunghezza del tratto di corda e se un tratto è il doppio dell’altro i due suoni sembrano confondersi: è la consonanza perfetta. L’esperienza insegna che si ottengono altre combinazioni armoniose di suoni da due tratti di corda le cui lunghezze stanno tra di loro come numeri interi: non solo 2:1, come nel caso della consonanza perfetta ma, per esempio, 3:2. Quindi, dappertutto frazioni, rapporti, matematica.

    Cosa c’è di più evidente della relazione tra musica e matematica? La musica è una successione di suoni di diversa “altezza” (più o meno bassi o acuti) e di diversa durata. Entrambi questi aspetti si rappresentano con numeri. Le durate dei suoni sono frazioni di una quantità data. Il suono di una corda pizzicata dipende dalla lunghezza del tratto di corda e se un tratto è il doppio dell’altro i due suoni sembrano confondersi: è la consonanza perfetta. L’esperienza insegna che si ottengono altre combinazioni armoniose di suoni da due tratti di corda le cui lunghezze stanno tra di loro come numeri interi: non solo 2:1, come nel caso della consonanza perfetta ma, per esempio, 3:2. Quindi, dappertutto frazioni, rapporti, matematica.

    Dovremmo concludere che la musica suscita sentimenti di piacere solo perché trasmette al corpo sensazioni armoniose e gradevoli? Che dire allora della musica non armoniosa, che pure suscita entusiasmo in molti? Comunque sia, è difficile credere che il contenuto emotivo trasmesso dalla musica sia un mero riflesso di fatti formali. Chi sosterrebbe che il piacere (estetico, intellettuale, emotivo) suscitato dalla “Divina Commedia” sia un mero riflesso della struttura sintattica dell’opera? A qualcosa del genere non ha mai creduto nessuno, neppure nei tanti secoli in cui si è pensato che la musica fosse soltanto un dipartimento della matematica, perché si riteneva che essa fosse il canale di trasmissione di qualcosa di molto più profondo e universale. Soltanto la miseria del materialismo contemporaneo può affannarsi a spiegare musica e matematica come una faccenda di neuroni.
    E’ celebre la formula di sant’Agostino: “Musica est scientia bene modulandi”. Quindi, la musica è una scienza che consiste nel saper “modulare” i suoni in modo armonioso. Dirla una “scienza” esprime la convinzione che essa coinvolga la ragione più che la sfera emotiva. Ma sarebbe sbagliato credere che la visione agostiniana riduca la musica a una tecnica formale. Cosa trasmette questa “scienza” mediante la buona modulazione dei suoni? Qui sant’Agostino è erede di una tradizione che risale alla mistica pitagorica: la musica trasmette all’anima l’immagine dell’ordine celeste. Il “bene modulandi” riflette un ordine cosmico basato su movimenti regolari accessibili alla ragione, fondati su rapporti di proporzionalità. “Bene modulandi” è entrare in consonanza con l’armonia celeste, che per sant’Agostino non è solo un fatto materiale ma anche spirituale.

    La visione del mondo che ha queste caratteristiche di armonia ha dominato almeno due millenni di storia – un tempo assai più lungo di quello in cui ha dominato la visione moderna dell’universo: è la visione di un cosmo chiuso, finito, sferico; formato da un sistema di sfere concentriche rotanti attorno alla Terra, ciascuna delle quali trasporta un corpo celeste, e avente come primo motore la sfera esterna, l’Ottava sfera, che porta su di sé, inchiodate come punti luminosi, le stelle fisse. I pitagorici videro questi atomi luminosi come immagini dei numeri: il singolo punto isolato è l’unità; la coppia di punti (o di stelle) è il due, la “diade”; la configurazione triangolare è il tre, la “triade”; e così via, fino alla configurazione del dieci, formato da sei triadi sovrapposte a triangolo, la “tetraktys”, il numero mistico, essenza di tutte le cose. A noi, abituati a scrivere i numeri nella notazione indiana-araba, è difficile pensarli in questa maniera geometrica. Per i pitagorici, invece, i numeri erano configurazioni di punti, un segmento era l’aggregato di un numero finito di questi atomi elementari. Di conseguenza ogni grandezza naturale poteva essere espressa mediante numeri interi e i rapporti tra grandezze erano rapporti tra numeri interi, cioè frazioni. “Tutto è numero” era la suprema credenza dei pitagorici.

    Anche il mondo dei suoni era assoggettato al mondo dei numeri. Il fatto che le altezze dei suoni siano in relazione frazionaria non deriva solo dall’ascolto di una corda pizzicata, ma anche da un’altra semplice esperienza. Prendiamo un corpo, per esempio una sfera, e appendiamolo a una corda. Se si fa ruotare il corpo attorno alla corda tesa esso emetterà un suono ed è facile verificare che il suono cambia secondo la velocità di rotazione e la lunghezza della corda. Allora perché non ammettere che i corpi celesti, quando ruotano attorno alla Terra, emettono suoni diversi secondo la distanza dal centro e la velocità di rotazione? L’intero cosmo emette un complesso di accordi armoniosi, l’“armonia delle sfere celesti”. Ecco il ruolo della musica: trasmettere all’anima l’armonia dell’ordine celeste – ordine naturale secondo la visione pitagorica, ordine divino secondo la reinterpretazione del pitagorismo da parte della mistica cristiana.

    Di qui il carattere razionale, ontologico della musica, che non è espressione delle emozioni umane, ma le fa entrare in consonanza con l’armonia di un cosmo chiuso e finito, dominato dalla figura perfetta della geometria: il cerchio.

    Finché ha dominato l’idea di un cosmo chiuso, finito, retto dalla circolarità e in cui tutto è espresso da rapporti tra numeri interi, la musica è rimasta una “scienza” strettamente legata alla matematica. Nella rappresentazione del sapere mediante le sette arti liberali, la musica è parte del Quadrivium, accanto all’aritmetica, all’astronomia e alla geometria. E la situazione si è radicalizzata con Cartesio, che contrappone alla matematica “volgare” del suo tempo una matematica universale – Mathesis Universalis – intesa come la scienza generale dell’ordine e della misura, in cui rientrano tutti i fenomeni astronomici, meccanici, musicali. Anche Leibniz vede un legame strettissimo tra musica e matematica: “Musica est exercitium arithmeticae occultum nescientis se numerari animi” (la musica è un esercizio occulto di aritmetica dello spirito ignaro del proprio numerare).

    Ma già ai tempi di Leibniz questa visione fa acqua da ogni parte. Non a caso egli parla di un’attività dello spirito più che dell’armonia universale. Era inevitabile che il rapporto tra musica e armonia del mondo dovesse crollare con la visione del cosmo chiuso, finito e sferico. La chiave è l’irruzione dell’infinito. Nel cosmo antico non c’è posto per l’infinito: in un ambiente sferico non sono possibili rette infinite ma solo segmenti finiti. Già Galileo e Cartesio, enunciando il principio di inerzia – secondo cui un corpo non soggetto a forze resta in quiete o si muove di moto uniforme su una retta – avevano posto le premesse per scardinare la sfericità del mondo: in un mondo sferico non è possibile un moto rettilineo indefinito. Ma l’attaccamento alla visione antica e al primato della sfericità aveva resistito, in un equilibrio difficile con le nuove visioni. Nel procedere razionale della scienza non c’era posto per le intuizioni visionarie di Giordano Bruno di un universo infinito, illimitato e abitato disordinatamente da un’infinità di corpi celesti.
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    V’era qualcosa di non meno difficile da abbandonare: l’idea che tutto sia esprimibile come rapporti di numeri interi. Che questo fosse falso lo sapevano già i pitagorici. Quando scoprirono – proprio in conseguenza del teorema di Pitagora – che esistevano segmenti “incommensurabili”, i cui rapporti potevano essere ricondotti a una comune unità di misura ed espressi come frazioni, fu la catastrofe dell’idea che “tutto è numero”. L’orrenda scoperta venne occultata. Ovviamente, i grandi matematici greci, come Eudosso ed Euclide, ne erano ben consapevoli, ma fecero una scelta radicale: trascurare il mondo impervio e pericoloso dei numeri, tenersi alla larga dall’infinito e dai suoi paradossi, per attenersi alla geometria, intesa come scienza delle grandezze e dei rapporti tra grandezze, da esaminare in modo puramente sintetico, senza numeri: un exploit concettuale incredibile che ha influenzato la storia della matematica e della scienza fino al Seicento. Poi, quando s’impose, anche per ragioni pratiche, l’esigenza di calcolare numericamente i processi fisici, si riaprì l’interesse per il mondo dei numeri, anche quelli che non si esprimono con frazioni, e per le grandezze infinitamente grandi e infinitamente piccole. Mentre il cosmo finito e circolare esplodeva in un universo infinito, crollava anche l’idea, che neppure Galileo e Cartesio avevano abbandonato, che l’unica matematica possibile fosse quella dei rapporti finiti, la teoria delle proporzioni.
    In questo contesto anche l’idea della musica come espressione ontologica dell’armonia universale del cosmo era destinata a crollare.

    Certo, l’idea che il mondo è matematico era tutt’altro che ripudiata. Al contrario. Il pensiero rinascimentale e la rivoluzione scientifica si accompagnavano a una scoperta entusiasta delle tradizioni platonica e pitagorica. Ma queste tradizioni erano rilette in modo completamente nuovo, nel contesto di una passione per la tematica dell’infinito e dell’infinitamente piccolo, che impone di parlare di “neoplatonismo” e “neopitagorismo”. L’idea che “tutto è numero” ora si misura con un contesto assai più complicato e misterioso, in cui è impossibile identificare un ordine cosmico rappresentabile mediante l’armonia delle proporzioni. Se seguiamo quel che accade nel mondo della musica, mentre si passa dalla visione del cosmo chiuso e sferico a quella dell’universo infinito, constatiamo che sia la musica religiosa (volta alla pura trasmissione di un’atmosfera celestiale), sia la musica profana (volta a stimolare un mero senso di piacere, diciamo pure fisiologico), cedono il posto a forme espressive più sviluppate per la loro audacia tecnica e che privilegiano la rappresentazione della vita spirituale soggettiva. La musica diventa man mano un’esplorazione della dimensione spirituale che, come l’alchimia nel mondo naturale, mira a decrittare il senso profondo dei moti dell’animo umano. Il centro è sempre più occupato dall’uomo, dalle sue sensazioni, dalle sue emozioni di fronte al mondo naturale e spirituale.

    L’eroe eponimo di questo passaggio è Johann Sebastian Bach che, come Isaac Newton nella fisica-matematica, è l’ultimo degli antichi e il primo dei moderni. Come Newton era cultore di mistica kabbalistica e di alchimia, così Bach era influenzato dalla mistica neopitagorica e neoplatonica. Non a caso, nel 1747 egli aderì a una società di corrispondenza per le scienze musicali di matrice neopitagorica, fondata da un suo allievo, Lorenz Cristoph von Mizler. Ne erano soci anche Georg Friedrich Händel e Georg Philipp Telemann, all’epoca assai più famoso di Bach per le sue composizioni semplici, gradevoli e adatte all’intrattenimento nelle più svariate circostanze. Mizler riproponeva con insistenza la tematica della musica come specchio dell’armonia cosmica e insisteva sulla natura matematica della musica. Ma il neopitagorismo di Bach e il suo dominio supremo della dimensione matematica della musica travolge i confini ristretti del pitagorismo classico. In primo luogo, perché Bach spinge l’esplorazione delle potenzialità tecniche della musica enormemente al di là del ripetitivo formalismo di un Telemann, fino a livelli di audacia mai più superati. La sua arte della fuga e la sua arte canonica esplorano tutte le possibili modalità espressive di queste tecniche, in cui l’esigenza “eufonica” è persino secondaria e non ci si arresta di fronte alle dissonanze. Queste opere sono state ampiamente studiate dai musicologi, alcuni dei quali hanno esplorato la fitta rete numerologica che le sosterebbe e che le identificherebbe come opere prevalentemente “scientifiche” destinate alle attività della società di Mizler. Ma esse vanno molto oltre l’ingenua visione pitagorica di Mizler. Secondo il musicologo Hans-Eberhard Dentler il canone perpetuo bachiano sarebbe il simbolo del movimento circolare delle stelle. Non è così, perché Bach non esita a rompere la circolarità nel modo più audace. In un celebre canone dell’“Offerta musicale” BWV 1079 dedicata a Federico II di Prussia, dopo sei ritornelli la melodia non si chiude circolarmente ma torna un’ottava sopra. Il canone ripetuto continua a salire indefinitamente: in linea di principio, romperebbe i confini dell’audibile. La dedica a Federico II recitava: “Ascendente modulatione ascendat Gloria Regis” (la gloria del Re ascenda come ascende la melodia). E’ un’ascensione che non conosce limiti e, data la centralità della visione religiosa in Bach, è naturale chiedersi se la Gloria del Re sia la gloria di Federico II o la gloria di Dio che sola ascende all’infinito.

    Questo canone è talmente sorprendente che Douglas R. Hofstadter ne ha fatto un tema centrale del suo noto libro “Gödel, Escher, Bach”: esso sarebbe l’esempio tipico di quel che egli chiama uno “strano anello”, un circuito apparentemente chiuso e che elevandosi verso qualcosa di nuovo spiegherebbe l’emergere del pensiero creativo. Lasciamo Hofstadter alle sue ossessioni riduzioniste e pensiamo piuttosto a quel che implicano le straordinarie esplorazioni tecniche di Bach: l’introduzione nella musica della dimensione dell’infinito che travolge il parallelismo con l’armonia della teoria matematica delle proporzioni.

    Ma l’aspetto più rivoluzionario dell’opera di Bach è il modo con cui l’audacia tecnica è funzionale a una dimensione espressiva inedita in cui la scena è occupata dalle emozioni del soggetto nella dimensione religiosa. Il passaggio dalla dimensione naturalistica-oggettivistica della musica alla dimensione spirituale non è centrale solo nelle Passioni, ma soprattutto in quel monumento dell’opera di Bach che è rappresentato dalle circa duecento Cantate. Sono opere che esprimono la religiosità popolare, quella che Bach viveva giorno dopo giorno nella sua funzione di Kapellmeister, e in cui le infinite sfaccettature delle vicende spirituali del credente, i turbamenti, i timori, le gioie trascinanti nel rapporto con la dimensione divina, sono il nuovo inedito protagonista della musica. La maestria tecnica è ormai soltanto il veicolo entro cui passa un mondo spirituale infinitamente complesso e infinitamente vario.
    Non a caso il mondo romantico, che ha spinto in pieno la musica sul terreno dell’esplorazione dei moti dell’animo, ha riconosciuto in Bach il suo primo ascendente. Non a caso colui che ha avuto il merito di sottrarre Bach dall’oblio è stato un grande rappresentante della musicalità romantica, Felix Mendelssohn.

    Ormai, pur continuando a camminare sulle spalle del formalismo matematico, la musica è andata molto oltre il compito di scienza del ben modulare: entrando in pieno nella dimensione dell’infinito, ha assunto il ruolo di esploratrice dell’animo umano. Per esprimere nel modo più chiaro questa transizione lasciamo la parola a un brano magistrale della “Recherche du temps perdu” di Marcel Proust. Charles Swann, nell’ascoltare la “petite phrase” della sonata per violino e pianoforte di Vinteuil si rende conto che essa è composta soltanto di cinque note, ma che è decisivo il richiamo costante di due di esse e la loro debole distanza. “Il campo aperto davanti al musicista non è una meschina gamma di sette note, ma una gamma incommensurabile, quasi tutta sconosciuta per intero, dove soltanto, qua e là, separati da spesse tenebre inesplorate, alcuni dei milioni di accenti di tenerezza, di passione, di coraggio, di serenità che la compongono, ciascuno altrettanto diverso dagli altri di quanto lo è un universo da un altro universo, sono stati scoperti da alcuni grandi artisti che ci rendono il servizio, risvegliando in noi ciò che corrisponde al tema che hanno trovato, di mostrarci quale ricchezza, quale varietà, nasconde a nostra insaputa questa grande notte impenetrata e scoraggiante della nostra anima che scambiamo con del vuoto e con del nulla”.