Giovanni Paolo II

Matteo Matzuzzi

“Il Papa polacco risvegliò la Chiesa ma diede troppo spazio ai movimenti”, sostiene il progressista Menozzi

“Jesus Christ you are my life”, trasmette qualche maxischermo già piazzato in luoghi strategici di Roma per accompagnare i pellegrini verso San Pietro, dove domani, di primo mattino, il Papa proclamerà solennemente santi Giovanni XXIII e Giovanni Paolo II. “Jesus Christ you are my life”, l’inno immortale dell’adunata giovanile sulla piana di Tor Vergata, anno Duemila, anno del grande Giubileo. Su quelle note, testimoniano le immagini di allora, si vede un Karol Wojtyla infiacchito dalla malattia e seduto in poltrona agitare divertito le braccia a ritmo di musica, gaudente per quel “chiasso che ha colpito Roma e che Roma non dimenticherà mai”. Il Papa delle folle, dei raduni di massa, delle messe negli stadi e nelle immense spianate. Il Papa dei cinque milioni di ragazzi che l’accolsero a Manila nel 1995, della moltitudine incalcolabile di compatrioti che nel 1979 lo accompagnò nella sua Polonia. Un miracolo, dice qualcuno, se il contraltare di tale fervore è l’immagine sbiadita e triste della Chiesa pre-giovanpaolina, quella di un Paolo VI tramortito dalle reazioni per la Humanae Vitae, sua ultima enciclica (negli ultimi dieci anni di pontificato non ne avrebbe scritta più alcuna), stanco dalle lotte conciliari, avvilito per la fine tragica dell’amico Aldo Moro.

 

Daniele Menozzi, storico della Chiesa alla Scuola Normale di Pisa, allievo di Giuseppe Alberigo e Giovanni Miccoli, capostipiti della Scuola di Bologna, guarda tale contrasto e riconosce che “è indubbio che la Chiesa di Giovanni Paolo II sia una Chiesa che ha una presenza nella società contemporanea molto più rilevante e significativa di quella di Paolo VI. E’ palese che Karol Wojtyla abbia effettuato un rilancio della Chiesa, certamente dipeso dalla sua capacità personale, dalla sua forza, dal suo impatto mediatico”. Lui, l’ex arcivescovo di Cracovia, delfino del primate Stefan Wyszynski, “capì perfettamente il ruolo che poteva giocare la comunicazione in una società in cui proprio la comunicazione stava diventando sempre più centrale, e utilizzò questo strumento per rilanciare la Chiesa”. Certo, anche il contesto storico è diverso, rispetto alla tormentata stagione di Papa Montini: “Il pontificato di Giovanni Paolo II si dipanò in una realtà caratterizzata dal ritorno di Dio, dal ritorno del religioso e si dimostrò in grado di cavalcare e gestire quest’onda. Contesto ben diverso da quello in cui fu immerso Paolo VI, dove perfino la distinzione tra secolarizzazione e secolarismo era tutt’altro che facile”. Ecco perché – sostiene Menozzi – “in linea generale mi sento di dire che la Chiesa di Giovanni Paolo II è una Chiesa più presente, più efficace, che ha un ruolo molto più incisivo nella società rispetto a quella di Paolo VI”.
 

Questo però – e non si tratta di un aspetto non proprio insignificante – “non significa che ci sia stata una differenza di ‘qualità religiosa’ nella Chiesa di Wojtyla rispetto a quella di Montini. Il fatto che la Chiesa giovanpaolina sia più presente e conosciuta non vuol dire affatto che sia allo stesso tempo una Chiesa più capace di leggere i segni dei tempi alla luce dei valori evangelici. Anzi, ci si può chiedere se lo sforzo di Paolo VI non fosse più diretto a portare la Chiesa sul sentiero del Vangelo rispetto al tentativo di Giovanni Paolo II di traghettare la Chiesa sul terreno della realtà contemporanea”.

 

Un ruolo cruciale, spesso tollerato a malapena in ambienti non marginali dell’episcopato mondiale, è stato quello che hanno avuto i movimenti durante tutta la lunga èra wojtyliana. “E’ presto per dare un giudizio circa l’impatto dei movimenti in quel pontificato”, osserva Menozzi. Per capirne un po’ di più, “anche in questo caso è opportuno cogliere gli elementi di continuità e discontinuità con il predecessore. Paolo VI, negli anni finali del suo pontificato, ha manifestato un’apertura ai movimenti, ritenendo che questi fossero un utile strumento di mobilitazione della compagine ecclesiale dinanzi a un pericolo di orizzontalizzazione del cattolicesimo, che si appiattisse cioè sul mondo. Montini riteneva che le strutture tradizionali della Chiesa, in particolare le parrocchie, non fossero più capaci di mobilitare un cattolicesimo che s’adagiava sulla realtà circostante, anziché di assecondarla con i valori cristiani. Giovanni Paolo II ha ripreso ed esasperato questo tipo di valutazione, al punto che il timore già presente in Paolo VI che le strutture di organizzazione territoriale della Chiesa non fossero più in grado di mobilitare i fedeli per farli strumenti di apostolato, è diventato uno degli elementi che ha portato Karol Wojtyla a guardare con fiducia ai movimenti. Con una differenza fondamentale, però, rispetto al predecessore: con Paolo VI, i movimenti erano sì incoraggiati ad agire come canali di mobilitazione di una Chiesa che tendeva ad addormentarsi, ma senza che fosse concessa loro alcuna influenza nel governo della Chiesa”. Tutt’altro discorso in Giovanni Paolo II: qui “c’è stata la volontà di recepire gli esponenti dei movimenti nel governo della Chiesa. E questo ha dato luogo a una situazione nuova, nel senso che i movimenti – avendo una visione molto più particolaristica – hanno propiziato la frantumazione della realtà ecclesiale, con la conseguenza che si è creata una situazione di grave difficoltà nel governo della Chiesa universale. Gravità di cui il governo di Benedetto XVI ne è stato l’esempio macroscopico, tanto da aver condotto alla rinuncia dello stesso Papa”.

 

Una difficoltà dovuta al fatto che Giovanni Paolo II ha sempre privilegiato più l’aspetto spirituale, la preghiera e il contatto con il popolo fedele, rispetto alle beghe burocratiche di curia, ai faldoni depositati dagli officiali della segreteria di stato sui tavoli di lavoro. Ecco la ragione, forse, di alcune nomine episcopali che potrebbero apparire contraddittorie. “Gli anni iniziali del pontificato di Wojtyla sono stati anni in cui la scelta del Papa appare libera. Le nomine rispecchiano scelte personali, derivanti dal suo giudizio e dalle sue conoscenze personali. Le scelte del Pontefice erano dettate dalla volontà di far ricoprire i ruoli di governo episcopale alle personalità giudicate più idonee attraverso un giudizio personalmente molto convinto. Nella seconda parte del pontificato, invece, questa personalizzazione delle scelte è venuta sempre più a cadere, e Wojtyla s’è affidato alle indicazioni che gli venivano dagli organi burocratici di governo della Chiesa. Il Papa, probabilmente, ormai si fidava di una struttura di governo che riteneva collaudata, efficace, fedele, e non dedicava la sua personale attenzione ad aspetti che riteneva meno bisognosi della sua cura”. La conseguenze di ciò? “Gli elementi di conservazione e autoperpetuazione dell’istituzione hanno finito per prevalere sulle aperture”.

 

Un pontificato politico volto nella sua prima parte ad abbattere il Muro e la cortina di ferro e che poi, complice anche il declino fisico del Papa, non ha saputo trovare nuove strade? “Non credo che il pontificato romano possa prescindere da un discorso di tipo politico”, nota Menozzi. “La Chiesa è una istituzione che vive nel tempo e se vuole essere presente nel tempo non può prescindere dalla politica. Certo, dipende dal modo e da come si interpreta la politica. A me pare che, rispetto alle modalità con cui la Chiesa aveva cercato di individuare un suo ruolo politico con Giovanni XXIII e con alcuni documenti del Vaticano II, Giovanni Paolo II abbia proceduto a una chiusura”. Wojtyla che si smarca dalla linea di Roncalli e Montini?

 

“No, è evidente che Giovanni Paolo II si richiama già nel nome al Papa che il Concilio l’ha voluto, annunciato e inaugurato, e che si rifà alle deliberazioni di quell’assise ecumenica. Non c’è alcuna contrapposizione. E’ anche vero, però, che rispetto allo schema giovanneo, il Pontefice polacco ha proceduto a una chiusura. A mio avviso, il limite dell’azione politica di Giovanni Paolo II sta nel non aver riattivato nel suo insieme quel modello di rapporto con la società contemporanea che si poteva ricavare dall’epoca giovannea e conciliare. Si prenda, ad esempio, la questione della rivendicazione della libertà religiosa, che Wojtyla rese uno dei cardini della presenza della Chiesa sulla scena politica internazionale. Qui c’è un ancoraggio molto preciso e forte alle scelte giovannee e conciliari. Giovanni Paolo II, però affianca alla rivendicazione della libertà religiosa anche altri temi per i quali la Chiesa si fa promotrice a livello internazionale, come l’affermazione riguardo i diritti naturali”.

 

Negli anni Ottanta, il Papa polacco ha combattuto con forza e durezza la Teologia della liberazione. Per dirla con Joseph Ratzinger, da un lato smascherò una falsa idea di liberazione, dall’altro espose l’autentica vocazione della Chiesa alla liberazione dell’uomo. Ha fatto chiarezza, dunque, rispetto alle tensioni degli anni Sessanta e Settanta? “Certamente c’è una differenza di atteggiamento rispetto alla Teologia della liberazione tra Paolo VI e Giovanni Paolo II. Montini non aveva mai espresso delle condanne esplicite né formali, anche se aveva espresso richiami e moniti. Però non era affatto giunto a posizioni di censura. Con Karol Wojtyla le cose cambiano, non ci si limita a dei richiami, ma si arriva a delle forme di condanna formale e di censura. Quindi si tratta di una differenza di posizione che va registrata. Ci si potrebbe chiedere se tra la stagione di Paolo VI e quella di Giovanni Paolo II si siano registrati salti qualitativi nella Teologia della liberazione, che quindi hanno portato Roma ad assumere una posizione più rigida in proposito. Penso – sottolinea Menozzi – che più che un mutamento qualitativo nell’ambito della Teologia della liberazione, ci sia stato in Wojtyla il timore di un ingigantimento della presenza dell’elemento marxista all’interno di quella corrente, il che contraddiceva con la visione del Papa polacco di netta contrapposizione al comunismo. Negli anni del pontificato giovanpaolino non è stata presa sul serio la tesi dei teologi legati alla Teologia della liberazione che si limitavano a considerare nelle loro riflessioni l’aspetto sociale. Direi, quindi, che la preoccupazione di uno scontro con il comunismo abbia causato tale situazione”.

 

Qualcuno rileva che il pugno di ferro di Wojtyla, messo nero su bianco con le due Istruzioni della congregazione per la Dottrina della fede, abbiano fatto perdere a Roma l’America latina. Giudizio troppo drastico? “E’ un’esagerazione. Però è vero che la linea di condotta di Giovanni Paolo II ha portato alla perdita di alcuni sentieri di sviluppo della Chiesa dell’America latina, riconfigurata all’interno di un perimetro che non si poteva oltrepassare”.

 

Quanto all’atteggiamento dinanzi alla guerra, Karol Wojtyla ha alternato la condanna radicale della guerra all’invocazione dei bombardamenti umanitari. “Oggi la portata e l’orrore della guerra moderna, sia essa nucleare o convenzionale, rendono questa guerra totalmente inaccettabile come mezzo per comporre dispute e vertenze tra le nazioni”, disse a Coventry, nel 1982. “La coscienza dell’umanità domanda ormai che sia resa obbligatoria l’ingerenza umanitaria nelle situazioni che compromettono gravemente la sopravvivenza di interi popoli e di gruppi etnici”, avrebbe affermato invece dieci anni più tardi, intervenendo alla Conferenza internazionale sulla nutrizione alla Fao” in piena guerra dei Balcani, il 5 dicembre 1992. E ancora, nel 2002, pochi mesi dopo gli attentati negli Stati Uniti dell’11 settembre, scandirà durante un viaggio in Azerbaigian il suo “basta con la guerra in nome di Dio! Basta con la profanazione del suo nome santo!”. Una contraddizione?

 

Il professor Menozzi, che del tema è uno specialista – assai documentato è il suo “Chiesa, pace e guerra nel Novecento. Verso una delegittimazione religiosa dei conflitti” (il Mulino, 2008) –, si mostra perplesso. “Si è troppo sottolineata questa contraddizione, questa ambiguità. Il Papa ha una sua personale volontà di evitare in ogni modo i conflitti. Quando però si passa alla definizione ufficiale della posizione della Santa Sede circa le guerre esistenti, non è che si notino grandi scarti tra i diversi interventi di Giovanni Paolo II. La sua linea, fin dal principio, è quella della guerra giusta, seppur limitata rispetto alla casistica precedente e tradizionale. Per lui, si tratta di moralizzare i conflitti, nella convinzione che una guerra per essere moralmente lecita debba rispondere a condizioni che in epoca contemporanea sono molto più ridotte e circostanziate rispetto al passato. L’idea dell’intervento umanitario, per sostenere i fondamentali diritti dell’uomo come giustificazione etica della guerra, rappresenta il sottofondo costante della linea di condotta giovanpaolina. Insomma, in certi momenti può anche aver lanciato un’invettiva contro la guerra, ma nel momento in cui ha formulato la posizione ufficiale della Santa Sede, si richiama senza dubbio alla moralizzazione della guerra, che va definita entro limiti ben precisi.

  • Matteo Matzuzzi
  • Friulsardo, è nato nel 1986. Laureato in politica internazionale e diplomazia a Padova con tesi su turchi e americani, è stato arbitro di calcio. Al Foglio dal 2011, si occupa di Chiesa, Papi, religioni e libri. Scrittore prediletto: Joseph Roth (ma va bene qualunque cosa relativa alla finis Austriae). È caporedattore dal 2020.