Beirut Babilonia

Alberto Mucci

Secondo l’uomo in completo elegante, dritto in piedi dietro al tavolo della reception in forma bombata e colore argentato, Marcello Dell’Utri non ha mai alloggiato al Phoenicia di Beirut. L’ordine dai piani alti di uno dei più lussuosi hotel della capitale libanese, che era anche il preferito dall’ex presidente americano Lyndon B. Johnson, è probabilmente di non dire niente, di negare tutto anche davanti all’evidenza. Viene da domandarsi il motivo, dato che secondo la maggior parte della stampa libanese e di quella internazionale, Dell’Utri al Phoenicia ha alloggiato.

    Secondo l’uomo in completo elegante, dritto in piedi dietro al tavolo della reception in forma bombata e colore argentato, Marcello Dell’Utri non ha mai alloggiato al Phoenicia di Beirut. L’ordine dai piani alti di uno dei più lussuosi hotel della capitale libanese, che era anche il preferito dall’ex presidente americano Lyndon B. Johnson, è probabilmente di non dire niente, di negare tutto anche davanti all’evidenza. Viene da domandarsi il motivo, dato che secondo la maggior parte della stampa libanese e di quella internazionale, Dell’Utri al Phoenicia ha alloggiato. Sull’ampia terrazza in marmo grigio chiaro del primo piano dell’hotel, l’ex senatore deve aver osservato a lungo quel Mediterraneo che in arabo viene chiamato “mare bianco”, e guardando oltre la balaustra in colonnine stile liberty, deve aver notato l’hotel Saint-George, lo storico rivale del Phoenicia e centro, un tempo, di quella a cui ci si riferisce spesso come la swinging-Beirut, gli anni Sessanta della capitale, il simbolo di quella golden age che valse alla città il soprannome di “Parigi del medio oriente”. Anni non del tutto diversi da quelli nostrani della Hollywood sul Tevere, quando Roma, dai Cinquanta ai Sessanta, era il centro di una mondanità alla scoperta di Trastevere e di via Veneto. Così, mentre nella capitale italiana si affollavano le star del cinema americano, sul bordo piscina del Saint-George si radunavano le celebrità di quello arabo e a tratti anche di quello francese ed europeo. Era infatti il 1957 quando Georges Nasser presentò il primo film libanese al festival di Cannes, il ’59 quando Joseph Ghorayeb diresse “Giudizio divino”, il ’62 quando Kamal el Sheikh fece scalpore con “Inseguito dai cani”, il ’64 quando Jean Becker presentò il suo “Cutout” e il ’67 l’anno della “Grande cavalletta” di Georges Lautner. Erano anche gli anni in cui le cartoline acquistate dai turisti che a frotte arrivavano in Libano rappresentavano momenti di vita del Saint-George in acquarello colorato, e per alloggiarvi bisognava prenotare con largo anticipo e gran dispendio. Ma come a Roma è accaduto a via Veneto, strada di cui rimane solo una vaga idea nell’immaginario collettivo dei turisti e qualche triste ristorante dove quasi nessun romano si azzarda a mettere piede, anche del glorioso albergo oggi è rimasto poco o nulla: una piscina dove saltuari clienti prendono il sole e sale vuote dove un promotore locale, Johnny Assaf, organizza i PC party, il ritrovo ufficioso della comunità gay medio orientale.

    Mentre osservava la facciata in mattoni cotto rosso, Dell’Utri si sarà soffermato un istante a guardare il grosso cartellone con la scritta bianca su sfondo rosso: “Stop Solidere”. E si sarà interrogato sul suo significato. Un ammonimento lì da anni, irremovibile, volontà di Fadi el-Khoury, proprietario del Saint-George Hotel e Yacht Club e da tempo impegnato in una battaglia personale contro quella che definisce senza mezzi termini una società a delinquere. Solidere è la compagnia immobiliare della famiglia Hariri, di quel primo ministro Rafiq tornato in Libano dall’Arabia Saudita a inizio anni Novanta, dopo la fine della guerra civile, e diventato nel ’92 primo ministro del paese. Sua è stata la volontà di dimenticare e far dimenticare le 150 mila vittime di quindici anni di guerra civile e di spazzare tutto sotto un tappeto il più velocemente possibile, in modo da poter dichiarare al mondo che “il Libano è di nuovo aperto agli affari”. Nel centro di Beirut, a due passi dal Phoenicia, Solidere è proprietaria di quasi tutto perché non appena Hariri è entrato in carica ha fatto approvare una legge che ha costretto i proprietari degli edifici del centro a cedere le proprie abitazioni in cambio di azioni della stessa società. E’ difficile da provare con certezza, ma a Beirut si racconta che già a inizio anni Ottanta, in piena guerra civile, Hariri avesse commissionato il progetto per lo smantellamento e la ricostruzione del centro storico di Beirut. Lo avrebbe fatto tramite la società fondata durante i suoi anni in Arabia Saudita, la Saudi Oger, portando avanti, illegalmente, un piano di demolizioni in modo da far spazio a quello che un decennio dopo avrebbe cominciato a costruire. Una ferita che per molti libanesi è ancora aperta. Quando infatti si domanda a un qualunque beirutino di raccontare com’era downtown prima dell’inizio della guerra, la reazione è quasi sempre la stessa: occhi sognanti, sguardo rarefatto, una piccola esalazione prima dell’inizio di una storia di passione e sofferenza, della descrizione di come un tempo un vero centro città c’era, di come botteghe di piccoli artigiani aggiustavano scarpe, quelle dei falegnami intagliavano mobili e come ricchi e poveri trovavano lì in centro un punto di incontro. Esattamente l’opposto del downtown di oggi, diventato poco più di un’isola per ricchi e super-ricchi, in primis per i cosiddetti khaligi, gli abitanti del Golfo, i miliardari del petrolio in vacanza in Libano per godere di tutti quei piaceri e vizi repressi nel paese d’origine: alcol, prostituzione, gioco d’azzardo.

    Ma ciò che fa più male ai libanesi è che con l’edificazione del nuovo centro “Solidere ha calpestato la memoria della città” e parte delle sue radici ottomane e fenicie, come ha evidenziato nel libro “Beirut” (pubblicato in Italia da Einaudi) lo scrittore e giornalista libanese Samir Kassir, ucciso nel 2005 da una bomba piazzata sotto la sua automobile. Un recente progetto del fotografo Sébastian Dahl ha messo bene in mostra questa realtà. Le immagini catturate dal franco-norvegese raccontano un centro città diventato uno spazio che il filosofo francese Marc Augé avrebbe con ogni probabilità definito un “non luogo” (qualcosa per esempio come un McDonald’s, invariato dovunque si trovi nel mondo). Nel caso di Beirut un centro commerciale in cui si susseguono negozi di Prada, Canali e Dior e che dell’identità araba ha tenuto, per macabra ironia, soltanto il nome: Suqs.

    Al Phoenicia Dell’Utri deve essersi anche concesso qualche minuto per passeggiare sull’ampia terrazza dell’hotel e godere del sole caldo, quasi estivo di quei giorni. Deve aver camminato lentamente lungo la balaustra e, giunto sul suo limite destro, tra il bar e la fine del colonnato, essersi voltato per far ritorno al tavolo. In quel momento al suo occhio sarà risaltato, appena dietro al Phoenicia, l’Holiday Inn, l’altro storico hotel della capitale libanese: un’immensa struttura in cemento armato, sventrata di qualsiasi ornamento e sul cui lato sinistro risalta un enorme buco lasciato da un colpo di mortaio sparato nel 2006 durante la guerra tra Israele ed Hezbollah, il partito sciita estremista guidato da Hassan Nasrallah e descritto spesso dagli analisti della regione come “uno stato nello stato”. Trentadue giorni consecutivi in cui parti del sud del Libano e di Beirut, soprattutto Dahieh, la zona controllata da Hezbollah dove l’esercito libanese quasi non si azzarda ad entrare, sono state bombardate dalle forze israeliane. Nonostante i danni causati dalla “guerra d’estate”, come la chiamano i libanesi, l’hotel ha resistito, insensibile forse proprio perché abituato a subire violenze. Già nel 1975 infatti, pochi mesi dopo che un gruppo di militanti armati di Kataeb, il partito cristiano estremista, aveva aperto il fuoco su un pullman in cui viaggiava un gruppo di palestinesi affiliati all’Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp) nella zona di Ain el-Remmaneh, est della città, dando così inizio a quindici anni di guerra civile, all’Holiday Inn si consumò quella che il più famoso corrispondente di stanza a Beirut, l’inglese Robert Fisk dell’Independent, chiama nel suo libro “Pity the Nation” la “battaglia degli hotel”. Nell’ottobre di quell’anno per cinque giorni consecutivi il braccio armato del Movimento nazionale libanese (Mnl) e quello del’Olp, a prevalenza musulmano-sunnita, si sono scontrati con i falangisti cristiani per il controllo dell’Holiday Inn, del Phoenicia e del Saint-George. Il leader dei falangisti in quel tempo, coincidenza, era proprio Bachir Gemayel, fratello dell’ex presidente Amine Gemayel, l’uomo che Dell’Utri avrebbe dovuto aiutare nei preparativi dell’imminente e delicata campagna presidenziale. Gli scontri continuarono a sprazzi tra cessate il fuoco, evacuazioni, tradimenti e ripresa delle sparatorie, alleanze incomprensibili tra partiti, partitini, fazioni, fino all’anno successivo, il 1976, quando entrambi gli schieramenti sgombrarono il campo lasciandosi alle spalle una situazione di stallo e oltre cinquecento morti.

    Ricordando quegli anni di guerra intestina e cruenta in un saggio apparso sulla London Review of Books, il filosofo Edward Said, palestinese di origine ma libanese di adozione, scrive: “Ho quasi rinunciato a tracciare i cambiamenti, i voltagabbana, ognuno più denso e complicato del precedente, e ognuno un ricordo dell’incredibile propensione dei libanesi di agire soltanto per soldi, cospirare e uccidere. Ma nonostante tutto ciò i cosiddetti leader tradizionali e la loro mediocre progenie non è cambiata e queste stesse persone continuano a creare e quasi immediatamente a dissolvere alleanze tra di loro, con i siriani, i palestinesi gli iraniani, gli americani, gli israeliani e i sauditi”. Era il luglio del 1985 quando Said scriveva queste parole, cinque anni prima del termine del conflitto, ma oggi, quindici anni dopo la sua fine, lo stato di guerra civile sembra comunque essere soltanto nascosto sotto una sottile superficie di apparente calma. Negli ultimi mesi gli attentati nella capitale come in altre parti del Libano, soprattutto nella valle della Bekaa controllata per lo più da Hezbollah, sono stati più di una decina, inclusa la doppia esplosione del novembre scorso all’ambasciata iraniana di Beirut dove sono morte 23 persone. Una tensione politica legata a filo doppio al conflitto tra il presidente siriano Basher el Assad e i gruppi ribelli e che dal 2011, secondo le stime dell’Unhcr, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati, ha portato ben un milione di siriani in Libano.

    Ma i problemi non finiscono qui. Come racconta Alberto Stabile di Repubblica, ci sono persone che per paura di essere riconosciute per atti commessi durante gli anni della guerra non escono dalla zona in cui vivono. E non solo. A parte lo storico quartiere di Hamra, l’unico in cui cristiani e musulmani si mischiano in maniera per lo più pacifica, le altre zone della città rimangono compartimentalizzate tra le diverse religioni. E anche tra le generazioni più giovani, quelle nate dopo la guerra, i tratti di questo odio settario sono talvolta percepibili. E’ comune sentirsi raccontare una storia d’amore tra ragazzi di diverse confessioni lasciata a metà a causa delle pressioni dei genitori e degli amici. Episodi che sono un monito di come il Libano di oggi non sia poi tanto diverso da quello di due decenni fa.

    Forse tutto questo Dell’Utri già lo sapeva e ci ragionava sopra quando voltatosi per tornare verso il suo tavolo si è trovato davanti uno squarcio dell’ovest della città, l’area di Beirut a maggioranza musulmana. Guardando da quella parte deve aver notato i numerosi grattacieli in via di costruzione e la miriade di gru al lavoro. Le stesse gru che in un murale dipinto durante una manifestazione per salvare una scalinata storica del quartiere di Mar Mikhael da un progetto di ristrutturazione urbana, Imad Habbab, artista siriano scappato da Damasco tre anni fa e rifugiatosi a Beirut, ha trasformato in croci a presidio di una tomba: “Il sepolcro di una città che sembra aver deciso si sotterrare la propria identità sotto il peso della speculazione immobiliare”, spiega.

    Chissà poi se Dell’Utri, la sera, stanco del Phoenicia, è uscito e si è avventurato per le strade di Beirut, tra gli intrighi della sua vita notturna senza sosta e piena di vizi e che soprattutto, con un’energia davvero unica, affascina e trascina al suo interno. Ogni articolo che si rispetti sul Libano e la sua capitale a un certo punto inizia a spiegare l’apparente contraddizione tra una situazione politica instabile, gli attentati a cadenza quasi regolare e le feste, le discoteche, i dj, la cocaina onnipresente. La verità è che non c’è però nulla di incoerente in tutto ciò, se non a un primo livello superficiale: perché in una situazione in cui si vive sempre aspettando la prossima esplosione, l’edonismo diventa la cosa più vicina al sentirsi vivi. Anche, altra faccia della medaglia esposta di recente in una mostra organizzata dall’associazione Embrace: il Libano è uno dei paesi che soffre più di problemi mentali perché una volta finita la guerra è come se il nuovo governo (presieduto per lo più dai capi delle milizie durante gli anni del conflitto) avesse chiesto alla popolazione di dimenticare quanto accaduto e di tirare avanti come se nulla fosse accaduto. Il curatore della mostra, Ara Azad, racconta che il problema è serio e va affrontato il prima possibile. “Ti ricordi le esplosioni di Boston? – chiede – Io ero lì. Il giorno dopo sul luogo dell’attentato il comune ha deciso di portare dei cani in modo che la popolazione di Boston, traumatizzata, potesse accarezzarli e calmarsi. Qui in Libano, dopo quindici anni di giornate come quella di Boston, il governo non ha fatto assolutamente nulla. E’ ovvio quindi che ci troviamo in questo stato e l’unica cosa che vogliamo fare è dimenticare”.

    Sulla stessa questione, in un bel libro intitolato “Beirut, I love you” (Donzelli l’editore italiano) l’autrice, Zena el-Khalil, racconta delle sue esperienze post guerra, dell’alcol, del sesso in macchina sulla corniche, il lungomare della città, dei rave nelle montagne sopra Beirut, dell’hashish fumato a ogni possibile occasione. Episodi contestualizzati e giustificati a causa di un periodo in cui “i libanesi erano così umiliati dalla guerra che l’unica cosa che potevano fare era dimenticare e, per fortuna, ci sono almeno un milione di modi per dimenticare a Beirut”.