Forza della parola

Perché le lezioni di Ratzinger non possono essere capite senza il confronto con il dottor Le Goff

Angiolo Bandinelli

Il Foglio ha (ri)pubblicato alcuni “grandi discorsi” di papa Benedetto XVI. Anche a me l’iniziativa piace, non vi è dubbio che Ratzinger abbia le stimmate del grande professore, ricco di una cultura profonda e intensa, da intellettuale capace – come si esprime Giuliano Ferrara – “di un concettualismo stilnovista fatto di intelletto e amore”. Ci insegna sempre qualcosa, anche nel (possibile nostro) dissenso. Il 4 aprile il giornale ha presentato il famoso discorso tenuto a Ratisbona nel settembre del 2006 che innescò un vivacissimo dibattito sul rapporto dell’islam con la “ragione”; l’11 aprile quello tenuto nel settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, “un luogo storico, edificato dai figli di San Bernardo di Clairvaux”.

Domani sul Foglio il discorso di Ratzinger al Bundestag di Berlino, "Sulle rovine d'Europa".

    Il Foglio ha (ri)pubblicato alcuni “grandi discorsi” di papa Benedetto XVI. Anche a me l’iniziativa piace, non vi è dubbio che Ratzinger abbia le stimmate del grande professore, ricco di una cultura profonda e intensa, da intellettuale capace – come si esprime Giuliano Ferrara – “di un concettualismo stilnovista fatto di intelletto e amore”. Ci insegna sempre qualcosa, anche nel (possibile nostro) dissenso. Il 4 aprile il giornale ha presentato il famoso discorso tenuto a Ratisbona nel settembre del 2006 che innescò un vivacissimo dibattito sul rapporto dell’islam con la “ragione”; l’11 aprile quello tenuto nel settembre 2008 al Collège des Bernardins di Parigi, “un luogo storico, edificato dai figli di San Bernardo di Clairvaux”. In questo intervento, Ratzinger ripercorre il cammino del “monachesimo occidentale”, delle “origini della teologia occidentale e delle radici della cultura europea”, ponendo alla fine una domanda scottante, drammatica: l’esperienza di quei lontani monaci “interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un mondo ormai passato”? Per dare risposta all’interrogativo, Ratzinger sviluppa una articolata, splendida riflessione sulla “natura” profonda di quel monachesimo. Per pura coincidenza, sto sfogliando un libro collettaneo, organizzato da uno studioso ed esperto di quel mondo e della intera cultura medievale, Jacques Le Goff, purtroppo venuto recentemente a mancare. In uno dei saggi, Giovanni Miccoli ci avverte che “monaci e monasteri hanno cessato da tempo di far parte della comune esperienza degli abitanti d’Europa”. “I monasteri e i priorati – cluniacensi, cistercensi, certosini, camaldolesi, vallombrosani – che nel XII secolo, all’apogeo dell’espansione monastica, popolavano le contrade d’Europa, si sono ridotti a poche centinaia in tutto il mondo” e “i loro diminuiti abitatori restano una presenza silenziosa e rara, spesso inavvertita per lo stesso popolo cristiano… Non figurano più tra gli incontri ordinari e ricorrenti del suo paesaggio storico”. E’ una fredda constatazione cui Ratzinger contrappone la tesi – in lui nutrita di profonda convinzione razionale oltreché spirituale – che quanto costituiva l’essenza di quel monachesimo, cioè la continua ricerca di Dio, non possa non essere anche oggi il fondamento della cultura: anche oggi come ieri, per Ratzinger, “l’assenza di Dio è tacitamente assillata dalla domanda che riguarda Lui”. Il rarefarsi dei monasteri non estingue, non significa la morte di tale esperienza. A questa tesi cercherò di agganciare alcune riflessioni, volenterose pur se non suffragate dalla profonda e intima cultura che rende smaglianti gli scritti di Ratzinger. Il monachesimo di cui il Papa emerito ci fa il ritratto fu una grande esperienza storica, innervatasi sulle radici della civiltà classica in una ibridazione che ha dello stupefacente: che il Dio della Bibbia, sostanzialmente antropomorfo e “creatore”, potesse fondersi nell’“Essere” della metafisica greca grazie alla mediazione del Cristo, cioè del “paradosso”, dell’“assurdo” di cui ci parla Tertulliano, fu una impresa culturale complessa e spericolata. Ce lo ricorda il prologo di Giovanni, “In principio era il Logos”, le cui radici affondano nel terreno del [**Video_box_2**]più puro ellenismo. Ma fu pur sempre una impresa culturale e intellettuale. La grande cultura monastica medievale arricchì quella operazione filosofico-teologica di una concreta esperienza esistenziale, fu il modello visibile, la forma terrestre, la struttura sia pur transeunte ma veridica che faceva intravedere all’uomo quella Città Celeste, il paradiso cristiano, cui doveva dunque tendere la sua vita, in tutte le forme che essa potesse assumere, quelle forme di cui ci parla Le Goff: il monaco, il cavaliere, il contadino, il cittadino, l’intellettuale, l’artista, il mercante, la donna, il santo o anche l’emarginato. Il Medioevo si riconosceva interamente, e assumeva come modello, l’esperienza “dell’uomo che, individualmente o collettivamente, si separa dalla massa sociale per vivere un rapporto privilegiato con Dio”. E’ il monaco di cui ci parla, con affetto e vicinanza, Ratzinger. Le Goff ci ricorda che quella fu una esperienza storica che ha avuto luogo in un tempo definito e irripetibile, di cui dobbiamo scavare le caratteristiche grazie a una laboriosa indagine documentaria e filologica. Per Ratzinger – dobbiamo dire “invece”? – è esperienza ancora viva se solo ci poniamo all’ascolto della sua maggiore eredità, l’attenzione alla “parola”. Che certo è un punto di riferimento, oggi però evanescente e vuoto perché privo di quel sistema strutturato che fu la società medievale – della quale la “parola”, il “logos” insegnato dalla chiesa rappresentava la giustificazione ultima e definitiva. C’è qualcosa di simile, che possa essere oggi presentato con efficacia e capacità di persuasione a un mondo globalizzato – non più europeocentrico – che ha nel web la sua “parola”, il suo “logos” esemplare?

    Domani sul Foglio il discorso di Ratzinger al Bundestag di Berlino, "Sulle rovine d'Europa".