Saturno divora i suoi figlia (Francisco Goya)

Il nemico siamo noi

Piero Vietti

Lunedì scorso il panel di esperti delle Nazioni Unite, l’Ipcc, ha pubblicato la seconda parte del suo quinto report sui cambiamenti climatici. Partendo dal presupposto che il clima cambia e si surriscalda per colpa delle attività umane, il report spiega che se non faremo al più presto qualcosa per interrompere questa spirale ci aspetta un secolo di guerre, carestie, migrazioni, povertà e crimini.

Lunedì scorso il panel di esperti delle Nazioni Unite, l’Ipcc, ha pubblicato la seconda parte del suo quinto report sui cambiamenti climatici. Partendo dal presupposto che il clima cambia e si surriscalda per colpa delle attività umane, il report spiega che se non faremo al più presto qualcosa per interrompere questa spirale ci aspetta un secolo di guerre, carestie, migrazioni, povertà e crimini. C’è poco da discutere: la scienza, ci dicono da anni commentatori e politici illuminati, non ha più dubbi sulle cause dei cambiamenti climatici. Se fa freddo, caldo, piove, c’è il sole, nevica, non nevica, soffia il vento o fischia la bufera, la colpa è dell’uomo, che con i suoi cattivi comportamenti sta ammalando e lentamente uccidendo la Madre Terra. Inascoltati, diversi scienziati ed esperti cercano di spiegare che non è esattamente così, che molte correlazioni che la vulgata corrente dà per certe (emissioni di CO2 prodotte dall’uomo=più uragani, per citarne una) non sono né statisticamente vere né tantomeno dimostrate. Negazionisti, nemici della verità, prezzolati dei produttori di petrolio, sono tra le definizioni più moderate che vengono cucite addosso a chi prova a sostenere tesi meno catastrofiste di quelle in voga. Ma come è possibile che opinione pubblica, giornali, film, salotti più o meno buoni abbiano mandato a memoria certe parole d’ordine? Se lo chiede il filosofo e polemista francese Pascal Bruckner nel suo ultimo libro, “Il fanatismo dell’apocalisse” (Guanda).

 

“Non c’è tempo da perdere. Non si tratta di dibattito scientifico o di dialogo politico. In definitiva si tratta di ciò che siamo come esseri umani. Si tratta della nostra capacità di trascendere i nostri limiti”. (Al Gore, 4 novembre 2005)

 

Il mondo contemporaneo ha abbandonato Dio e le religioni tradizionali per abbracciare la Madre Gea, l’uomo di oggi ha cancellato il peccato originale per preoccuparsi della propria impronta di carbonio, scrive Bruckner: “Unica forza originale nata negli ultimi cinquant’anni, l’ambientalismo ha rimesso in discussione le finalità del progresso e ha posto la questione dei limiti. Ha risvegliato la nostra sensibilità verso la natura, messo in rilievo gli effetti dello sconvolgimento climatico e constatato l’esaurimento delle risorse fossili. A partire da questo credo collettivo si è innestata una scenografia dell’apocalisse, già sperimentata col comunismo, che si ispira allo gnosticismo e ai messianismi medievali. Nel kit di base della critica verde, il cataclisma è d’obbligo e abbondano i profeti della decomposizione, che abusano dell’espediente allarmistico del panico, intimandoci di fare penitenza al più presto”.
Nutrendosi della nostra paura per il futuro, l’ambientalismo non ha avuto bisogno di salire ufficialmente al potere da nessuna parte, ma “ha vinto la battaglia delle idee”, insinuandosi tra i delegati delle Nazioni Unite, nel Parlamento europeo, in molti governi e nelle scuole, colmando il vuoto educativo con idee verdi messe in testa a maestre mediocri. “E’ la forza che dice sempre no”, annota Bruckner, che “eccelle nell’ostacolare più che nel proporre: chiudere fabbriche, bloccare progetti, impedire la costruzione di autostrade, aeroporti, linee ferroviarie”. In fretta è diventato pensiero dominante, l’unico discorso esponibile in pubblico senza subire critiche. Ben presto degenerato, l’ambientalismo osserva i danni inevitabili della civiltà industriale e ne deduce “la colpevolezza del genere umano, individuando nella natura nient’altro che un bastone per picchiare meglio l’umanità”. Per molti versi analogo al terzomondismo, che “incarna la vergogna per la storia coloniale e la penitenza nei confronti del presente, il catastrofismo non è che il rimorso anticipato per il futuro: poiché il senso della storia è svanito, qualsiasi cambiamento rappresenta un potenziale collasso e non può annunciare niente di buono”. Naturale quindi che la sua forma di espressione preferita sia l’accusa. La nostra colpa è tanto più grave quante più foreste vengono devastate, terre bruciate e quante più specie scompaiono. La statistica ha sostituito i Dieci Comandamenti, non superare un certo tetto di emissioni è il nuovo non avrai altro Dio all’infuori di me. E’ anche comodo, l’ambientalismo. Dire no e accusare è più facile di dire sì e provare ad affrontare i problemi. Indignarsi leggendo su Repubblica o sul Guardian il riassunto con toni catastrofisti dell’ultima ricerca sullo scioglimento dei ghiacci fa fine e non impegna. Anche perché l’apocalisse è ormai imminente, spiega ancora Bruckner, e “viene voglia di abbandonarsi a questo flusso tenebroso”. Non prima di avere chiuso il rubinetto mentre ci laviamo i denti e spento la luce uscendo dalla stanza, naturalmente.

 

“L’uomo è il tumore della Terra […] una specie usa e getta, come la civiltà che ha inventato”. (Yves Paccalet)

 

Sconfitto il comunismo nel 1989, l’occidente capitalista si è ritrovato senza nemici, spiega Bruckner. Ma un nemico è necessario, “un’assicurazione sul futuro”, rappresenta la “garanzia assoluta della nostra esistenza e ci permette di sapere chi siamo”. A inizio millennio sembrava che il terrorismo di matrice islamica potesse reggere questa parte sul palcoscenico della storia, ma – annota ancora il filosofo francese – “è difficile che un avversario risulti credibile, se è disperso per il mondo e può assumere un’infinità di volti”. Bisognava andare oltre: crollati marxismo, terzomondismo e in qualche modo anche il movimento no global, che avevano individuato rispettivamente nel capitalismo, nell’occidente e nella fusione di entrambi il nemico da combattere, ecco che l’ambientalismo compie il salto decisivo e “sale di livello”: il nemico siamo noi. “Il colpevole è l’uomo stesso, con la sua volontà di dominare la Terra, di imporsi su di essa”. Il nostro pianeta diventa così un organismo animato in cui gli esseri umani “si comportano come metastasi cancerose, proliferando a scapito dell’insieme, che le rifiuta”, per usare i termini di quello che è considerato il fondatore dell’ambientalismo contemporaneo, James Lovelock. Nasce il mito di Gaia, la cultura del lamento prende piede, muore l’idea di progresso e si passa “dall’epoca delle rivoluzioni all’epoca delle catastrofi”. La Terra soffre per colpa nostra, noi sentiamo un’improvvisa nostalgia per paesaggi bucolici soltanto immaginati e cerchiamo di preservarli.

 

Tentativi vani, però, poiché i più avveduti già ci hanno avvertiti che “l’umanità corre verso la sua fine”, e siamo costretti a vivere il paradosso per cui la morte del pianeta è inesorabile ma noi siamo esortati a ritardarla con tutte le forze.

 

“La prosecuzione dell’attuale dinamica di crescita ci pone di fronte alla prospettiva di una scomparsa della civiltà in cui viviamo, non tra milioni di anni o millenni, ma entro la fine di questo secolo”. (Peter Barrett, direttore del Centro di ricerca per l’Antartico all’Università Victoria in Nuova Zelanda)

 

E’ la paura, dice Bruckner, il grande collante con cui il potere da sempre tiene insieme gli uomini di tutto il mondo: avere un capro espiatorio unisce e induce a consegnare il proprio destino nelle mani di un terzo. L’ambientalismo non fa eccezione: affligge, spaventa, ci fa sentire in colpa per gli abituali gesti quotidiani come mangiare, lavarsi, viaggiare, scaldare la propria casa, facendoci credere che tali atti abbiano ripercussioni incalcolabili sul clima e l’ecosistema. Dopo averci spaventati a dovere, ci assicura redenzione attraverso gesti ancora più banali (prendere la bicicletta al posto dell’auto, fare la doccia invece che il bagno…) a patto che ci fidiamo ciecamente di chi predica la Verde Novella, a cui si può credere irrazionalmente senza doversi sentire in colpa: “La bravura in questo campo – annota Bruckner – sta nell’invertire l’onere della prova. Anziché chiedere, ad esempio, ai climatologi di dimostrare che effettivamente è in corso un mutamento climatico, esigiamo dai climascettici che ci dimostrino che il disastro non si produrrà”. Siamo passati dall’elogio dello scetticismo come indice di saggezza al suo disprezzo come sintomo di cecità.

 

“L’umanità è seduta su una bomba a orologeria. Gli scienziati di tutto il mondo concordano nel dire che ci restano solo dieci anni per evitare una catastrofe planetaria […]. Solo noi possiamo ancora evitarla”. (Al Gore, “Una scomoda verità”, 2006)

 

“Vorrebbero allarmarci – scrive ancora Bruckner – ma riescono solo a disarmarci”. I sacerdoti del catastrofismo ci danno scadenze abbastanza brevi (i “dieci anni” di cui parla Al Gore) per farci credere, quando arrivano, di essere riusciti a posticipare la tragedia, e contemporaneamente altre così lontane da risultare insulse: “Nel 2011 alcuni informatici canadesi hanno predetto, attraverso una simulazione, che la Terra, per semplice inerzia, impiegherà più di mille anni per smaltire le emissioni di CO2 prodotte nel Ventunesimo secolo. Anche se fosse, e allora? Chi ci sarà tra mille anni per dirci come è andata?”. Ecco perché, in fondo, il discorso ambientalista mobilita le parole più delle azioni. Lo sguardo a un futuro lontano, osserva il polemista francese, permette di non occuparsi davvero del presente: “Gli ecologisti, con la loro fantascienza etica, si preoccupano più dei nostri misfatti ipotetici che delle ingiustizie reali”.  E in nome della lotta ai cambiamenti climatici ci si oppone alla crescita delle economie fino a poco tempo fa più arretrate come quelle brasiliana, indiana e cinese: se anche loro cominciano a produrre CO2 il mondo brucerà, che si fermino! “Serve l’imminenza di una catastrofe sconfinata per redimere l’avventura umana”, scrive Bruckner.

 

Nell’epoca dell’ambientalismo anche il profeta è una creatura nuova: non più il tramite tra Dio e l’uomo, ma il possessore di una certezza morale perennemente indignato. “Il profeta non è un animo nobile che ci mette in guardia, ma un ometto cattivo che ci augura un’infinità di disgrazie se abbiamo la tracotanza di non starlo a sentire”. La fine, però, è già scritta. Ed è imminente, ma anche continuamente procrastinata. “L’ambientalismo radicale – osserva ancora Bruckner – non cade nell’errore del marxismo, promettere il paradiso in Terra. Si limita a denunciare l’inferno delle nostre società. Non essendo vincolato a un calendario preciso, sfugge alla prova della verifica”.

 

“Il sonno della coscienza genera mostri. Le bombe a orologeria – nucleari, climatiche, chimiche – cominciano a esplodere. Ci siamo”. (Agnès Sinaï, marzo 2011)

 

Nella seconda parte del suo volume, Bruckner nota come da una ventina d’anni almeno non ci sono più catastrofi naturali, ma solo fenomeni di origine umana: inondazioni, estati molto calde, inverni rigidi, persino terremoti e tsunami sono ineluttabili conseguenze dei nostri comportamenti. “In ogni calamità naturale vediamo la conferma di un disastro futuro: ogni minimo cambiamento di temperatura, ogni smottamento ci predice un evento tragico”. Gran parte del trucco, ammonisce Bruckner, sta nell’uso di precise forzature semantiche, come quella “tipica della nuova ideologia che spiega tutti i fenomeni con un’ipotesi: ‘Nessuno può dire…’, ma noi lo diciamo”. Il passo successivo è dimostrare tutto a partire dalla stessa ipotesi, anche che fa più freddo per colpa del riscaldamento globale. A questo punto è naturale arrivare a quella che Bruckner definisce “teoria delle causalità deliranti”, per cui ad esempio nessuno si oppone al teorico della decrescita felice Serge Latouche, quando attribuisce “al traffico dei camion sulle autostrade i quindicimila decessi dell’ondata di caldo del 2003 in Francia”.

 

“L’uomo bianco tratta Madre Terra e fratello Cielo come cose da comprare, rubare o vendere. Il suo appetito divorerà la Terra e lascerà dietro di lui il deserto”. (Capo indiano Seattle, 1855)

 

Spingendo l’ambientalismo più in là, non si può non giungere a una posizione schizofrenica, per cui il discorso “oscilla costantemente tra megalomania e umiltà”: l’uomo è colui che con i suoi gesti quotidiani sconvolge l’ordine delle cose, ma è anche l’essere che “viene rimesso al suo posto da un’entità furiosa per essere stata violentata”. Si arriva ad eccessi come quello di pensare che la Terra abbia bisogno di essere protetta da una sorta di Dichiarazione dei diritti, che gli animali abbiano la stessa dignità dell’uomo. La giusta volontà di rispettare il nostro habitat ci conduce a idolatrare la natura.

 

L’eccessiva fiducia nella scienza è poi entrata in cortocircuito con il sospetto, una delle anime del nostro tempo: analizziamo ogni cibo che ingeriamo, arrivando a scoprire che nulla è puro e in teoria tutto potrebbe avvelenarci. Mettiamo l’etichetta “bio” per dissipare i nostri dubbi, che però tornano più forti di prima quando scopriamo che nelle colture biologiche si annidano batteri mortali come nel caso del “cetriolo killer” in Germania tre anni fa. Eppure trattiamo i ristoranti bio come “templi di rigenerazione”, dice Bruckner. “E’ come essere a messa, si mastica con cura, ci si percepisce come superstiti del grande sistema industriale”. La scienza perde il suo primato, annota ancora lo scrittore francese, ma l’umanità si affida a schiere di esperti sempre più numerose, ong a cui non si sa chi ha dato la patente di moralità, in opposizione alle multinazionali che invece per definizione sono fredde, indifferenti alla vita umana e pronte a tutto pur di arricchirsi.

 

“Gli scienziati ci dicono che…” è l’incipit di quasi tutti i moniti ecologisti. La scienza moderna, alla base di quel progresso che starebbe uccidendo il pianeta, è però al contempo fonte di autorevolezza per qualunque discorso catastrofista.

 

“Da cosa si riconosce un ambientalista?”, si chiede Bruckner verso la fine del volume. “Dal fatto che è contrario a tutto, al carbone, al gas naturale, al gas di scisto, all’etanolo, al carburante pesante, al nucleare, al petrolio, alle dighe, ai camion, al Tgv, alla macchina, all’aereo. Il vero desiderio di questo movimento non è salvaguardare la natura, ma punire l’uomo”. Decrescita triste, quella che hanno in mente: spegnere la luce, non viaggiare, non telefonare, diventare vegetariani. “L’ambientalismo è inquietante poiché si insinua negli aspetti più intimi della vita, nelle scelte alimentari, di abbigliamento, energetiche, per controllarle meglio”.

 

Bisogna “salvare il pianeta da quelli  che si autoproclamano suoi salvatori e che minacciano il caos generale per imporre i loro impulsi letali”, conclude Bruckner. “Dietro ai loro clamori, dobbiamo leggere la volontà di demoralizzarci per soggiogarci meglio”. E ancora: “Abbiamo bisogno di pionieri. L’umanità si emanciperà solo puntando in alto”. Certamente non coltivando il nostro orto biologico sul terrazzo di casa, una mossa che sa molto di fuga più che di voglia di scoperta.

  • Piero Vietti
  • Torinese, è al Foglio dal 2007. Prima di inventarsi e curare l’inserto settimanale sportivo ha scritto (e ancora scrive) un po’ di tutto e ha seguito lo sviluppo digitale del giornale. Parafrasando José Mourinho, pensa che chi sa solo di sport non sa niente di sport. Sposato, ha tre figli. Non ha scritto nemmeno un libro.