Speciale online

Semplicemente Scirea

Beppe Di Corrado

Ci sono nomi che vanno semplicemente lasciati in pace. E’ una settimana che si gira attorno a questo concetto, da quando a Torino si è scatenata la polemica tra un pezzo del tifo organizzato della Juventus e la moglie di Gaetano Scirea.

    Ci sono nomi che vanno semplicemente lasciati in pace. E’ una settimana che si gira attorno a questo concetto, da quando a Torino si è scatenata la polemica tra un pezzo del tifo organizzato della Juventus e la moglie di Gaetano Scirea. La storia si riassume così: la signora Mariella aveva detto di essere indignata per i cori razzisti che venivano cantati nella curva che porta il cognome di suo marito. I Drughi – gruppo storico del tifo della Juve – hanno risposto che la curva non è più intitolata a Scirea, poi hanno aggiunto il resto, chiedendo alla signora Mariella di non usare più il cognome del marito, ma di farsi chiamare con il suo cognome da nubile.

    Ma perché? Perché l’uso strumentale di un nome, di un uomo, di un morto? Perché rispondere così a una vedova? Perché addirittura rivendicare che la curva non si debba più chiamare Scirea? Semmai, il tifo della Juve si dovrebbe indignare per questo. Curva Scirea dovrebbe essere a prescindere dal luogo fisico in cui si trova. Curva Scirea è un’identità o così dovrebbe essere, per il club e per i suoi tifosi. Invece no. Strana storia questa, in un Paese imbevuto di retorica, che si arrovella l’anima con la banalità delle “bandiere” del calcio. Ecco, un Paese così, poi sputa sulla storia, sul ricordo, sulla memoria di Scirea. Capito? Di Scirea.

    Cioè dell’unico del quale si può parlare con quella retorica lì, perché solo con lui quella retorica è la chiave di lettura più onesta e vera che si sia. Perché lui non ha mai avuto problemi a parlare di cose che di scontato, ovvio e banale non avevano nulla. E così anche quando gli capitava di usare una frase fatta, sembrava molto più intelligente della stessa frase detta da qualcun altro. Quando qualcuno parla di carisma forse vuol dire questo: la capacità di essere interessanti dicendo una cosa che interessante non sembra essere. “Gaetano, per noi cronisti, fu spesso l'ultimo, confortante appiglio. Potevamo chiamarlo a qualsiasi ora del giorno e della notte, aveva per chiunque una risposta, mai dettata dal fastidio o dalla noia: alla fine, chiudeva l'intervista con un grazie”, ha scritto una volta Darwin Pastorin ricordandolo. Non c’è nessuno del mondo del pallone che abbia parlato male di lui. La morte tragica ha aiutato la conservazione del mito, ma non è stata quella a determinare il rispetto collettivo e traversale che Scirea ha oggi. Perché se chiedi a un tifoso del Toro di parlarti male di lui, scoprirai che, nonostante l’odio per la Juve, nonostante la rabbia, nonostante tutto, avrà riverenza nei suoi confronti. A prescindere dalla fede pallonara e dal conseguente rancore con altre squadre, esiste un codice non scritto per un giocatore di questo calibro.

    La cosa straordinaria è che s’è costruita una polemica attorno al suo nome, che Scirea probabilmente non avrebbe mai fatto. Se fosse vivo oggi, Scirea avrebbe censurato quei cosi, poi, di fronte alla banalizzazione del male da parte degli altri con frasi tipo “il calcio di oggi è un covo di violenti”, avrebbe detto quello che dice spesso Gigi Riva: non è cambiato nulla se non la società. Non è il calcio che s’è rovinato, s’è semplicemente adeguato al resto, come è ovvio che sia. Sarebbe il primo a demolire con garbo il luogo comune che gira e rigira: “Non ci sono più le bandiere”. Farebbe un sorriso, parlerebbe piano e racconterebbe che è normale che sia così: si vuole che i ragazzi vadano a studiare all’estero, che siano in grado di reggere il confronto con i giovani degli altri paesi, che le aziende vadano a produrre dove giustamente conviene di più e che però nello stesso tempo i calciatori restino legati a una squadra per sempre? Lui l’ha fatto, certo. Come si faceva una volta: si cresceva in una piccola, si arrivava in una grande e si rimaneva lì per incarnare lo spirito di quella squadra. Atalanta e Juventus, il suo percorso. Punto. Oggi non sarebbe così, ma Scirea sarebbe sempre Scirea. Avrebbe lo stesso carattere, la stessa forza, l’identico stile. Sarebbe quello che è stato, perché la sua forza non era la fedeltà a una squadra, ma la fedeltà a se stesso. Sì, rifiutò l’Inter a fine carriera. Non è questione di bandiere ammainate o di falsa retorica: è che non si sentirebbero loro altrove. E’ diverso, fa meno chic, perché è diventato un ritornello dire che non ci sono più uomini come quelli. Se il 3 settembre 1989 non fosse stato su quella strada polacca, Scirea smonterebbe i falsi miti del passato, annullerebbe il passatismo nostalgico che avvelena il pallone esattamente come fa la volgarità contemporanea. Non è la colonna dei trasferimenti a marchiare l’identità di questo calciatatore, ma altri numeri: 563 presenze nella Juventus, record superato soltanto da Del Piero; poi 32 gol giocando da libero, poi sette scudetti, una coppa Uefa, una coppa dei Campioni, una Intercontinentale, una coppa del Mondo. Poi quello zero, per due volte: zero espulsioni, zero squalifiche. Sedici anni di carriera e mai, da difensore, s’è fatto buttare fuori. Questo non c’entra con l’essere stato una bandiera, ma c’entra molto con l’essere stato un grande e moltissimo con l’essere stato un signore. Perché la differenza di Scirea è questa: aver fatto un percorso da fenomeno senza aver venduto l’anima non agli sponsor o ai soldi, ma semplicemente alla cattiveria. Lui non aveva neanche quella agonistica, a dimostrazione che tutto ciò che raccontano e raccontavano ai bambini, e cioè che per arrivare bisognava essere più aggressivi degli altri e nel caso più cattivi degli altri, è una esagerazione. Era difficile arrivare senza esserlo, certo. Però si poteva. A maggior ragione oggi che è meno difficile.

    Scirea è un ricordo che fa bene a tutti. E’ un paragone, come lo sono stati prima Facchetti e Beckenbauer e poi Baresi: difensori che giocavano, tutti capitani, tutti leader, ognuno a modo suo, ciascuno per le proprie caratteristiche. Non c’entra la moralità, ma la qualità: un calciatore bravo ha più possibilità di giocare più pulito. Scirea ha insegnato che ci poteva essere un difensore con i piedi di un regista: ve lo ricordate il colpo di tacco e poi l’assist su gol di Tardelli nella finale del Mundial 1982? La bellezza della semplicità di un gesto che per praticamente tutti gli altri è difficile: il tacco è considerato una finezza inutile, mentre lì fu maledettamente utile e maledettamente essenziale. Noi ci ricordiamo sempre il tiro di Tardelli e poi quell’esultanza incredibile: ecco, mentre il compagno si scatenava nella corsa verso la panchina, Scirea alzò semplicemente un braccio. Sobrio anche quello, come tutto il resto, come l’intervista che rilasciò solo poche settimane dopo il trionfo, in una spiaggia dove passava le vacanze: “al mondiale abbiamo imparato a non reagire ai falli, a dare la mano agli avversari e a non fare scene. Per questo il nostro campionato sarà ancora più bello”.

    Tutto quello che circonda il ricordo di Scirea è così: semplice, misurato, morigerato. Anche qui tutto quello che per altri sembra retorico, con lui sembra soltanto naturale. Come la storia della maturità presa a 34 anni, per un principio, oltre che per insegnare al figlio il valore dell’impegno. La prese all’istituto magistrale “Regina Margherita”, a Torino, quando era già campione di tutto. I giornali dell’epoca e degli anni successivi lo raccontarono così: “riservava le stesse emozioni e lo stesso impegno per il calcio e per la vita; spianava gradini e piedistalli: era la sua grandezza. Altra prova: il primo scudetto del '75. Festeggiò in discoteca con la squadra fino all'alba, rientrò e pensò di comprare i giornali, ma l'edicola davanti a casa era vicina alla fermata dell'autobus che portava gli operai in Fiat. ‘Mi vergognavo di farmi vedere vestito da sera alle 6 di mattina da gente che andava a lavorare'. Pensò ai genitori, operai della Pirelli e lasciò perdere i giornali che esaltavano la Juve. Alle 8 del 19-6-87, Gaetano Scirea si presentò al ‘Regina Margherita’, accompagnato dalla moglie Mariella, per la prova scritta d'Italiano. Consegnò per ultimo, dopo le 6 ore concesse. ‘Meglio rileggere bene, più di una volta’, spiegò alla fine. Scelse di commentare una frase di Norberto Bobbio: ‘Cultura significa misura, ponderatezza, circospezione’”.

    Nel mondo del pallone nessuno si meraviglia che ci siano ancora tante cose che portano il nome di Gaetano Scirea: c’è un torneo giovanile, una serie di memorial sparsi per l’Italia, c’era la curva dello stadio che però non c’è più (non si capisce che cosa aspetti la Juve a richiamarla così). E’ una devozione laica nei confronti di uno che è stato più di un simbolo della Juve. Non è possibile che tutti quelli che ricordano Scirea siano juventini. E’ questa la forza, questa la capacità di un capitano di essere contemporaneamente molto partigiano, ma molto amato anche dagli altri: ciò che vedevi in lui e quindi il legame, l’affetto, la serietà, è qualcosa che scavalca la barriera del tifo e fa pensare che sia un uomo che merita rispetto. Paradossi dello sport: tu magari sei fiorentino e odi la Juve, ma quando pensi a Scirea la invidi. E’ successo anche con gli interisti che ammiravano Franco Baresi. Succederà ancora. I capitani sono balaustre alle quali aggrapparsi. Ognuno ha il suo e chi ce l’ha si prende il rispetto degli altri.