L'apocrifo di Sciascia

Guido Vitiello

C’è una frase che ricorre come un mantra nella pubblicistica sulla trattativa, attribuita a Leonardo Sciascia: “Lo stato non può processare sé stesso”. Finalmente, dicono i fiancheggiatori dell’accusa, ecco un drappello di magistrati coraggiosi che tenta di smentire l’assioma; donde la portata storica, epocale del processo palermitano. Davvero Sciascia pronunciò quella frase? Difficile a dirsi, perché i tanti che la citano tra virgolette, un clan endogamico che avrebbe fatto la gioia di Lévi-Strauss – Marco Travaglio, Saverio Lodato, Maurizio Torrealta, Salvatore Borsellino, Sandra Rizza, Beppe Grillo – se la passano di bocca in bocca senza mai menzionarne la fonte.

    C’è una frase che ricorre come un mantra nella pubblicistica sulla trattativa, attribuita a Leonardo Sciascia: “Lo stato non può processare sé stesso”. Finalmente, dicono i fiancheggiatori dell’accusa, ecco un drappello di magistrati coraggiosi che tenta di smentire l’assioma; donde la portata storica, epocale del processo palermitano. Davvero Sciascia pronunciò quella frase? Difficile a dirsi, perché i tanti che la citano tra virgolette, un clan endogamico che avrebbe fatto la gioia di Lévi-Strauss – Marco Travaglio, Saverio Lodato, Maurizio Torrealta, Salvatore Borsellino, Sandra Rizza, Beppe Grillo – se la passano di bocca in bocca senza mai menzionarne la fonte. Ho fatto un modesto esercizio di filologia in pantofole, e la più antica occorrenza di cui abbia trovato notizia è un intervento di Antonio Ingroia su un MicroMega del 2001. Negli scritti di Sciascia, almeno in quelli in cui era ragionevole attendersela, la frase non c’è (la si trova invece nella commedia “Oplà, maresciallo” di Giovanni Arpino, che fu il mentore del giovane Travaglio presso Montanelli: frugate, segugi!). Tendo a pensare che sia una parafrasi, non per forza infedele, di qualcosa che Sciascia potrebbe aver detto ai tempi dell’affaire Moro, forse alludendo al sogno pasoliniano di un “processo al Palazzo”. Ma c’è il caso che mi sbagli. Poco male: il punto non è la frase in sé, che fuori contesto vuol dir poco o niente, è l’uso che ne fanno gli apologisti del processo trattativa, e il significato che le attribuiscono. Questione che si lega a filo doppio a un’altra, ossia che cosa intendano tutti costoro per stato.

    Ci si è soffermato lo storico Salvatore Lupo nel libro scritto con Giovanni Fiandaca, “La mafia non ha vinto”, commentando una dichiarazione di Rita Borsellino scettica sull’assoluzione di Mori: “Io voglio credere fermamente che si arriverà alla verità, altrimenti non potrei credere più nello stato”. Qual è, si domanda Lupo, la concezione dello stato implicita in questa frase? E’ qualcosa che sembra aleggiare in “un luogo intermedio, non esattamente localizzabile, tra un’idea di equità, legalità e ordine e un insieme di apparati, ognuno dei quali di fatto può essere molto, poco o in nulla impegnato nella tutela di quei valori”. Più grossolani e sbrigativi, i militanti delle Agende rosse contestarono l’assoluzione gridando in aula: “Questa sentenza è la dimostrazione che lo stato non processa sé stesso. Speravamo che potesse accadere, invece no, nemmeno stavolta”. Detto altrimenti, il processo dello stato allo stato non prevede assoluzioni. Se ne ricava questo semplice schema: a incarnare pienamente i valori dello stato è la pubblica accusa; la magistratura giudicante è stato se condanna, anti stato se assolve; gli uomini delle istituzioni sono stato se tifano per l’accusa, anti-stato se non mandano bigliettini d’amore ai pubblici ministeri.

    Ed è qui che la frase di Sciascia, se anche per avventura fosse vera, si rivela, nell’uso, crudelmente apocrifa. Nessuno, beninteso, può sapere cosa Sciascia avrebbe scritto del processo palermitano, si può solo scommettere. Per parte mia, dubito fortemente che avrebbe riattualizzato lo schema trattativa-fermezza dell’affaire Moro, e mi piace pensare che ne avrebbe dato un quadro più vicino a “Il cavaliere e la morte”, una guerra per bande nei sotterranei del potere italiano. Sono congetture abusive, ma mai quanto il capovolgimento beffardo compiuto dalle tifoserie della procura. Quella frase circolare, “lo stato non può processare sé stesso”, è annodata a farne un terribile cappio inquisitorio, simile a quello del presidente della Corte suprema Riches, il personaggio del “Contesto” per il quale l’errore giudiziario è una contraddizione in termini: già che è il processo a costituire il colpevole come tale, la Giustizia è infallibile. Il sillogismo degli adepti della trattativa è altrettanto sbilenco, e non meno feroce: se il tribunale condanna, lo stato ha finalmente processato sé stesso; se assolve, è la prova che rifiuta di processarsi.

    Testa vinco io, croce perdi tu. O anche: “L’antimafia non può processare sé stessa”, frase che Sciascia non disse mai, ma che gli metto in bocca volentieri.