I boiardi degli altri

Stefano Cingolani

E se avesse ragione Emanuele Macaluso, se l’accelerazione del piè veloce Renzi fosse dovuta alle nomine nelle società a partecipazione statale? Sono in ballo 500 e rotte poltrone, una cinquantina delle quali davvero eccellenti, altre eccellentissime: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna e giù giù discendendo. Lì per lì le dichiarazioni rilasciate a Formi-che.net dall’ex senatore comunista, il vecchio compagno d’armi di Giorgio Napolitano, sembrano paradossali a meno di non pensare a un ritorno del materialismo dialettico, tipo “Gli affari del signor Giulio Cesare” di Bertolt Brecht.

    E se avesse ragione Emanuele Macaluso, se l’accelerazione del piè veloce Renzi fosse dovuta alle nomine nelle società a partecipazione statale? Sono in ballo 500 e rotte poltrone, una cinquantina delle quali davvero eccellenti, altre eccellentissime: Eni, Enel, Finmeccanica, Poste, Ferrovie, Terna e giù giù discendendo. Lì per lì le dichiarazioni rilasciate a Formi-che.net dall’ex senatore comunista, il vecchio compagno d’armi di Giorgio Napolitano, sembrano paradossali a meno di non pensare a un ritorno del materialismo dialettico, tipo “Gli affari del signor Giulio Cesare” di Bertolt Brecht. Forse Macaluso aveva in mente il corteggiamento di tanti “poteri forti” nei confronti di Matteo Renzi, da Carlo De Benedetti a Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria. Oppure ricordava le paginate della Repubblica sul “nuovo valzer dei boiardi”, lanciate il 25 gennaio scorso. Una inchiesta a freddo con il sapore aspro dell’avvertimento.

    Fatto sta che, con la puntualità di un cambio di stagione, ecco rispuntare la politica che “mette le mani” nel sancta sanctorum dell’impresa, la spartizione, il manuale Cencelli e soprattutto l’eccezione italiana. Non è vero che così fan tutti, lo facciamo solo noi. E’ l’Italian job (cioè un imbroglio, un colpo gobbo) come ironizzava con disprezzo il Financial Times. E ancora una volta la vulgata è una pallida parvenza della realtà. Basta raccontare chi sono i potenti manager delle imprese pubbliche in Francia, in Spagna, in Germania, in Inghilterra per avere un’idea di come funziona altrove il rapporto tra politica e affari. E se scopriamo che lo spoils system esiste ovunque, in forme più o meno trasparenti, non creiamo un alibi alla lottizzazione “selvaggia”, ma facciamo un passo per uscire dalla caricatura della casta.

    Volendo schematizzare, potremmo dire che esistono i boiardi di partito, i boiardi di stato e i boiardi di sistema. I primi sono più diffusi in Italia, i secondi in Francia e i terzi in Germania. Tutti gli altri paesi, a cominciare dalla Spagna, si barcamenano tra i tre modelli. Fanno eccezione gli Stati Uniti dove la divisione delle spoglie negli uffici pubblici è chiara e senza falsi pudori. La Gran Bretagna ha cercato di risolvere il problema alle radici, riducendo al minimo le aziende di stato, quindi l’onere delle nomine. La crisi del 2008 ha spinto a rinazionalizzare alcune banche. E il collasso di Lehman Brothers racconta come il Tesoro di sua maestà ha bloccato la Barclays verso la quale Hank Paulson e Ben Bernanke stavano indirizzando Lehman. Ma restano tutto sommato vicende da stato d’eccezione. La regola è la Bbc che ha un ruolo fondamentale nell’influenzare l’opinione pubblica e, quindi, la politica. Il governo e il Parlamento controllano, però il direttore generale passa attraverso una selezione di mercato, con una pioggia di curricula. Ciò non toglie che l’ultima scelta, dopo tanto consultare cacciatori di teste, sia caduta su una soluzione interna: George Entwistle già capo di Bbc Vision. La decisione è stata presa dal Trust di 12 membri nominati dalla regina su indicazione insindacabile del governo. Honi soit qui mal y pense, come è scritto nella reale giarrettiera.

    La Francia della tecnocrazia pubblica allevata nelle Grandes Ecoles, resta sempre terribilmente vicina all’Italia. Basta leggere la cronaca di questi giorni sulla caduta di Serge Dassault. Un industriale, uno dei più famosi, che cresce grazie allo stato (producendo aerei da guerra per molti versi è inevitabile) e si butta sui giornali (il Figaro). Così fan tutti: Bouygues costruttore edile, patron della prima rete televisiva Tf1, ottenuta quando Jacques Chirac divide in tre parti la tv di stato, o Lagardère che mette insieme aerei, armi e media (Hachette-Filipacchi). Marcel Dassault, nato Bloch, ebreo scampato a Buchenwald, fa da supporto ai gollisti. Jean-Luc Lagardère apre ai socialisti, soprattutto moderati come Dominique Strauss-Kahn: a lui l’erede Arnaud, che ama soprattutto l’editoria, deve la sistemazione del settore aeronautico-militare nel colosso franco-tedesco-spagnolo EADS (quello di Airbus).

    Pur intrecciati con la politica, Dassault, Lagardère, Bouygues sono capitalisti privati, non boiardi di stato; questi ultimi nascono direttamente nei gabinetti dei ministri e di qui vengono proiettati verso l’industria (anche privata) o verso le banche che sono anche qui i pilastri della terra. Gli alti funzionari hanno coloritura di partito, sia chiaro: ci sono i gollisti e i socialisti e anche i comunisti, almeno quando il Pcf era il secondo partito del paese. Ma il loro giuramento di fedeltà è innanzitutto alla République.
    Prendiamo Michel Pébereau che ha lasciato un’impronta forte nella haute finance. Figlio di un dirigente statale, si laurea all’Ena, la scuola nazionale di pubblica amministrazione, e s’avvicina a Valéry Giscard d’Estaing. A 28 anni, nel 1970, ne diventa consigliere tecnico al ministero dell’Economia e delle finanze. Capita che il suo mentore venga addirittura eletto presidente della Repubblica, ma Pébereau ha lo sguardo lungo, all’Eliseo preferisce la direzione generale del Tesoro sotto il ministro Monory con il quale scrive le nuove regole del gran gioco azionario. Nel 1982 è maturo per entrare in banca. Dieci anni dopo, cominciando con la privatizzazione della Banque Nationale de Paris crea il più internazionale dei gruppi bancari francesi: Bnp-Paribas che in Italia ha acquistato la Banca Nazionale del Lavoro.

    Un percorso parallelo è quello di Daniel Bouton: passa per il gabinetto di Maurice Papon, ministro del Bilancio del liberale Raymond Barre, prima di fare il banchiere e salire la scala che porta alla presidenza della Société Générale. L’elenco è lunghissimo e riguarda uomini che si lanceranno poi in grandi disavventure private come Jean-Marie Messier con Vivendi o un funzionario tutto d’un pezzo come Henri Proglio lo zar dell’energia elettrica, pupillo di Chirac e di Nicolas Sarkozy; mentre Louis Schweitzer l’uomo che ha rilanciato Renault, imparentato con il celebre dottor Schweitzer e con Jean-Paul Sartre, è stato vicino a Laurent Fabius e ai socialisti dell’èra Mitterrand.

    D’accordo, si parte funzionari e si finisce grand patron, ma almeno in Francia non si ripete sempre uguale a se stesso il mercato delle vacche all’italiana. Vero, finché non si pestano piedi eccellenti, il posto e la carriera sono salvi. Ma attenzione, quando il gioco si fa duro, la politica entra di nuovo in gioco a gamba tesa. E il mondo degli affari viene spinto a quel che i francesi chiamano un riallineamento. Ne sa qualcosa Pierre Suard: nominato da Edouard Balladur nel 1986 per privatizzare Cge che diventerà Alcatel, viene messo alla gogna dai giudici per false fatturazioni. Siamo nel 1995, deve lasciare il posto, ma l’intera sua carriera è distrutta. Undici anni dopo beneficia di un non luogo a procedere per tutte le accuse. Questa è la Francia, chiamata non a caso cugina d’oltralpe.

    Il meccanismo è più indiretto in Germania dove domina il boiardo di sistema che attraversa governo, banche, industrie, consigli di sorveglianza o la guida delle regioni: il presidente della Bassa Sassonia siede anche nel consiglio della Volkswagen e mette il veto sulla scelta di chi deve guidare il terzo produttore mondiale di automobili. Ma per capire chi sono e che cosa fanno i Bojaren, bisogna raccontare un personaggio che nel suo paese viene ritenuto potentissimo, una sorta di cancelliere ombra, ma è poco noto in Italia. Si tratta di Ulrich Schröder, dal 2008 capo dell’Istituto di credito per la ricostruzione, il Kreditanstalt für Wiederaufbau, acronimo KfW, spesso citato come la Cassa depositi e prestiti tedesca. Nato per gestire i fondi del piano Marshall è diventato il braccio armato del Tesoro al quale sono state trasferite le partecipazioni in gruppi importanti, come Deutsche Telekom, Deutsche Post. A mano a mano che anche la Germania privatizza le sue imprese statali, KfW assume una funzione chiave, di cane da guardia degli interessi nazionali e ammortizzatore pubblico quando è necessario.

    Schröder è un cristiano democratico di lungo corso, fin da quando nel 1974, frequenta l’Università di Münster. Ma il suo destino è la banca, quella pubblica WestLB (Westdeutsche Landesbank) che fa capo al Land del Nord Reno-Vestfalia e poi la Kfw, dove diventa il “Banker der Nation”, definizione che la dice lunga sul ruolo dell’istituto. In Italia viene spesso criticato l’espansionismo neostatalista della Cassa depositi e prestiti dai tempi di Giulio Tremonti in poi. Obiezione fondata, ma non fa i conti con il peso della sorella tedesca e della cugina francese, la Caisse des dépôts et consignations. Non che le polemiche non fiocchino anche in Germania. Con la crisi le banche sistemiche e i fondi sovrani diventano cruciali e si riaccendono i riflettori anche sul peso della politica nell’indirizzare gli uomini e le loro scelte.

    Schröder, un “Cdu-Mann”, è protetto da Thomas de Maizière (il consigliere di Angela Merkel per le politiche europee, amico fin dai tempi della Rcds, la gioventù studentesca democristiana) e dall’ex presidente della Repubblica Christian Wulff. Naturalmente, gode della fiducia di Wolfgang Schaüble che lo ha spinto a prendere parte attiva nel salvataggio della Grecia e delle banche spagnole. Senza rinnegare nulla, Schröder ha saputo costruire buone relazioni con il socialdemocratico Peer Steinbrück, ministro delle Finanze nel primo governo di coalizione guidato dalla Merkel, che firmò la sua nomina.
    Il settimanale Spiegel si è chiesto fino a che punto le lotte di potere non logoreranno anche il potentissimo banchiere della nazione. KfW ha visto raddoppiare il proprio bilancio dal 2000, cioè dall’introduzione dell’euro, con una accelerazione a partire dalla crisi del 2008 quando Schröder ha preso il comando. L’anno scorso è arrivato a oltre mezzo miliardo di euro. L’Antitrust, che è in mano ai liberali, lo ha più volte bacchettato, ma Schröder contrattacca: “Ho guadagnato più della Deutsche Bank, con una base patrimoniale doppia, il 15 per cento rispetto all’8 per cento”. Gli investimenti sono fuori dal bilancio pubblico e gli utili se li tiene in casa, senza versarli nelle casse federali, almeno fino alla fine dell’anno. Evviva la nuova economia sociale di mercato.

    Chi sono gli uomini i cui destini in qualche modo da lui dipendono? A Deutsche Telekom è stata fatta una scelta interna e tutta manageriale con René Obermann che viene dall’industria e l’anno scorso si è scelto il successore con Timotheus Höttges già capo della finanza. Lo stesso vale per il gigante postale diventato una multinazionale dopo aver assorbito l’americana Dhl: Frank Appel è un McKinsey boy poi maturato all’interno. Da McKinsey proviene lo stesso big boss della Commerzbank, Martin Blessing, anche se si può definire un figlio d’arte visto che sia il nonno sia il padre erano banchieri.
    La seconda banca tedesca è stata salvata nel 2008 dal governo con una iniezione di 18 miliardi di euro e il governo detiene ancora il 17 per cento delle azioni attraverso il fondo salva banche SoFFin. La soluzione professionale non garantisce l’autonomia dal governo, anche se aiuta; a meno che non si decida di buttarsi in politica direttamente come Corrado Passera o di diventare uno sponsor di un partito come ha fatto, sia pur da privato cittadino, Alessandro Profumo con il Partito democratico. Tuttavia, scendendo dal mondo gelido dell’utopica purezza per entrare in quello storto dell’umanità, non resta che un continuo equilibrio dei poteri, come in fondo hanno sempre immaginato i padri fondatori degli Stati Uniti.

    L’aggiustamento pragmatico è quel che ha cercato di perseguire la Spagna post-franchista. Nata con forti impronte italiane, tra le quali il gemello dell’Iri, chiamato Ini (Instituto Nacional de Industria), che controllava anche la principale azienda automobilistica, la Seat finita poi alla Fiat e da questa ceduta alla Volkswagen, ha attraversato un lungo periodo di modernizzazione e privatizzazione, dal quale è emerso un ceto manageriale con forte cultura internazionale e grande sensibilità per la politica interna. Quel che sta accadendo nel mondo dell’editoria lo dimostra.

    Il direttore e fondatore del Mundo, Pedro J. Ramírez, è stato rimosso dalla Rcs che possiede il quotidiano perché aveva svelato un giro di mazzette nel Partito popolare del primo ministro Rajoy (lo dice lo stesso Ramírez). Il Mundo è sempre stato vicino alla destra. Ma lo stesso accade al País, suo avversario sinistrorso: oberato da tre miliardi di debiti, in crisi di lettori, piega la testa alle proteste e cambia il direttore Javier Moreno sgradito al governo.

    La vera plutocrazia in Spagna resta quella dei banchieri. La famiglia Botìn possiede il Banco de Santander da un secolo (Emilio ha già istruito la figlia Ana per la successione). Francisco González ha creato l’attuale Bbva (Banco Bilbao Vizcaya Argentaria) nato a fine Ottocento per sostenere l’industria dell’acciaio, e da ormai vent’anni guida il secondo gruppo bancario di Spagna. A differenza da Emilio Botín che viene da un milieu cattolico conservatore (lo danno come alto esponente dell’Opus Dei, ma senza alcuna conferma ufficiale), l’ambiente che ruota attorno alla banca basca è tradizionalmente legato alla massoneria. Finanza laica e finanza cattolica l’un contro l’altra armate?

    Con la recessione si sono alleate per non farsi travolgere dal crollo del mercato immobiliare e anche il loro schieramento politico appare molto più trasversale. Prima lo stomaco poi l’ideale. Basta guardare alla cassa di risparmio di Barcellona, la Caixa, alla quale fanno capo molti grandi gruppi spagnoli: Repsol (petrolio), Gas Natural, Abertis (infrastrutture), Telefónica. Per evitare il più grande crac della storia iberica, nel 2012 il governo la fonde con Banca Civica. Ormai troppo grande per fallire, viene salvata insieme all’intero sistema bancario dall’intervento dell’Unione europea. Politique d’abord con tanti saluti al mercato.

    E’ chiaro che la crisi cambia, per molti versi in peggio, i termini del confronto tra politica ed economia. Ma soprattutto impone di guardare alle cose senza paraocchi. Il nostro lungo percorso ci dice che anche le vicende italiane vanno lette con un approccio meno provinciale e meno partigiano. I boiardi veri e propri, gli uomini prelevati dalle fila dei partiti e collocati alla testa di banche o industrie pubbliche, sono scomparsi negli anni Novanta, con la fine del vecchio sistema politico. Non che le nomine seguano criteri impeccabili di professionalità e indipendenza: le relazioni, le multiple parentele, le affiliazioni lobbistiche e politiche incidono in modo determinante. Ma il mondo che esce dal collasso economico richiede tante e tali scelte strategiche da sconsigliare i vecchi metodi. Renzi non potrà inventarsi un capo dell’Eni che non sappia affrontare la rivoluzione energetica che parte dall’America con il gas e il petrolio da scisti, tanto per fare un esempio concreto. Enel e Finmeccanica sono ormai multinazionali. Nelle poste e nelle ferrovie è cominciata la liberalizzazione.

    Anche in Italia, insomma, i manager possono essere giudicati dai risultati e non dalla tessera. Ed è possibile seguire la strada sulla quale si sono avviati i tedeschi: esaminare se prima ci sono energie interne da far crescere e portare sulla plancia di comando. Non per un primato autoreferenziale, ma per un principio normale di solidità e permanenza che in grandi gruppi industriali o finanziari diventa un valore da tutelare: ci sono conoscenze ed esperienze che non si apprendono in un attimo o per scienza infusa. Vedremo cosa verrà fuori nelle prossime settimane. Forse un’analisi comparata delle esperienze internazionali può dare una mano ora che l’era dei boiardi, per quanto eroica a suo modo, sta tramontando.