Due come loro

Salvatore Merlo

“Ho un rapporto consolidato e leale con il presidente Napolitano. Lo sanno tutti”, diceva Silvio Berlusconi il 31 agosto 2012, un anno dopo le sue dimissioni, dopo che aveva votato la fiducia al governo “golpista” di Mario Monti, un anno prima di salire al Quirinale per pregare Giorgio Napolitano di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica. Dice Giovanni Orsina, politologo, professore di Storia alla Luiss: “I rapporti tra Berlusconi e Napolitano sono stati, diciamo così, ambigui sin dall’inizio dei tempi”. E in principio fu una stretta di mano.

    “Ho un rapporto consolidato e leale con il presidente Napolitano. Lo sanno tutti”, diceva Silvio Berlusconi il 31 agosto 2012, un anno dopo le sue dimissioni, dopo che aveva votato la fiducia al governo “golpista” di Mario Monti, un anno prima di salire al Quirinale per pregare Giorgio Napolitano di ricandidarsi alla presidenza della Repubblica. Dice Giovanni Orsina, politologo, professore di Storia alla Luiss: “I rapporti tra Berlusconi e Napolitano sono stati, diciamo così, ambigui sin dall’inizio dei tempi”. E in principio fu una stretta di mano. Non era mai successo, e non è mai più accaduto dopo il 1994, che un capo di governo lasciasse il banco dell’esecutivo alla Camera, dopo aver ascoltato il discorso del capo degli oppositori, per stringergli la mano e complimentarsi con lui. Il Cavaliere così si comportò dopo che Napolitano aveva finito di parlare, all’indomani della vittoria napoleonica di Forza Italia nel ’94. Il gesto era e fu percepito come clamoroso. Perché alla base del berlusconismo, radicato nelle sue origini, c’è molto impeto, come sempre succede quando si infrange un muro di potere costituito con un elemento forte di novità, e anche molta umoralità personale, ma il tratto caratteristico è un’ottimistica pretesa di fair play. Sembra strano affermarlo in un paese in cui suona esotica, strampalata, la sequela di affermazioni impeccabili di Renzi sul Cavaliere e sul suo popolo, “voglio mandarlo in pensione, non in galera”, “voglio cambiare l’Italia, non gli italiani”, “Forza Italia è necessaria per le riforme”, ma è proprio così. “Berlusconi, da padroncino brianzolo che era, ha sempre cercato la legittimazione. E dunque è stato sempre sospinto anche verso Napolitano”, dice Orsina. “E Napolitano, iperpolitico, infastidito persino fisicamente dal bauscia lombardo, ha sempre rispettato gli equilibri di potere, la forza elettorale espressa da quell’uomo così lontano da lui per carattere e cultura”. E insomma, dice il professore: “Il loro è sempre stato un rapporto per così dire ‘strano’”. Eppure il Cav. ha ormai assegnato un ruolo espiatorio al capo dello stato. “Sì ma non fino in fondo”.

    Alcuni mesi fa, ancora prima delle decotte rivelazioni contenute nel libro di Alan Friedman, Berlusconi, in una registrazione rubata e diffusa da “PiazzaPulita”, definiva il presidente Napolitano “il mio più acerrimo nemico”. Adesso i mastini del Cavaliere gridano al golpe, “come se non fosse stato Berlusconi a dimettersi con lo spread oltre i 500 punti”, ricorda Orsina. “Come se non fosse stato lui a rifiutare le elezioni anticipate a dicembre del 2011, come se non fosse stato lui a votare la fiducia al governo tecnico di Monti, come se non fosse stato lui a sostenere quell’esecutivo quasi fino alla fine, fino alla scadenza naturale di quella legislatura”. E forse ci vorrebbe uno psicologo, o un profondo conoscitore dell’animo umano per spiegare le oscillazioni umorali del Cavaliere nei confronti del presidente. “Ma anche la storia recente, e una certa logica di vantaggio, un calcolo intelligente del Cavaliere, ci può aiutare a capire”, dice Orsina. Dunque, ipotizza il professore: “Napolitano gli ha dato dei dispiaceri. Sul lodo Alfano, ad Arcore si aspettavano che il presidente premesse sulla Corte costituzionale. Poi credevano anche che Napolitano avrebbe concesso al Cavaliere la grazia. Senza contare che, negli ultimi giorni dell’ultimo governo Berlusconi, Napolitano inclinò molto a fidarsi di Giulio Tremonti che forse – lui sì – qualche ambizione in proprio la coltivava”. Fantasie, dunque, speranze e vaghezze coltivate forse anche in quella zona grigia, mediana, diplomatica, che nel mondo del Cavaliere è sempre stato il giannilettismo. Aspettative che sempre si sono infrante contro il senso iperprotocollare di Napolitano per le istituzioni, contro la sua celebre pignoleria, il suo famoso ossequio alla forma che, in questi anni, in Italia è stato il contraltare naturale di un focoso imprenditore di prima generazione che si buttava in politica con idee e modi incandescenti. “Tutto vero”, dice Orsina. “Ma ben occultato, dietro l’ultimo attacco del Cavaliere al presidente, c’è forse di più. Non è un caso che Forza Italia non abbia spinto sulla storia dell’impeachment”. E il professore spiega: “Ricorrere all’idea che nel 2011 ci fu una specie di golpe, di grande complotto, oggi serve al Cavaliere. Gli serve a nascondere le vere ragioni che portarono a quella crisi. E’ un’operazione cosmetica. Io me li ricordo bene gli ultimi mesi del governo Berlusconi: le quattro finanziarie, il marasma interno, la baruffa senza senso con Fini. Ma se tu racconti che ci fu un complotto, allontani l’idea del fallimento. Semplice”. E insomma, sostiene Orsina, a dividere Berlusconi da Napolitano ci sono, sì, i caratteri così diversi e quasi incompatibili di due uomini che intendono in maniera diametralmente opposta la politica. Ma c’è anche, dice il professore, “l’ultimo straordinario lifting del Cavaliere”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.