Nuovi crucci al G20

Domenico Lombardi

I ministri e i governatori delle Banche centrali del G20 si riuniranno a Sydney per il primo vertice sotto la neo presidenza australiana la prossima settimana, dal 22 al 23 febbraio. L’agenda che l’Australia proporrà al meeting internazionale è la “trasposizione” in chiave intergovernativa delle priorità domestiche cui il governo conservatore, guidato da Tony Abbott, sta lavorando dallo scorso settembre.

    I ministri e i governatori delle Banche centrali del G20 si riuniranno a Sydney per il primo vertice sotto la neo presidenza australiana la prossima settimana, dal 22 al 23 febbraio. L’agenda che l’Australia proporrà al meeting internazionale è la “trasposizione” in chiave intergovernativa delle priorità domestiche cui il governo conservatore, guidato da Tony Abbott, sta lavorando dallo scorso settembre.
    Tali priorità ruotano attorno all’imperativo di assicurare un contesto favorevole alla crescita del settore privato, per mezzo di infrastrutture adeguate, maggiori opportunità di scambi internazionali e un regime regolamentare più selettivo tale da non frustrare l’iniziativa privata. Non è un caso che il primo ministro abbia scelto la cornice del World Economic Forum di Davos per presentare ai leader dell’Industria e della Finanza mondiali la sua visione del G20. Senza troppe interlocuzioni, ha tenuto a precisare che la crisi finanziaria “è stata non una crisi dei mercati, bensì una crisi di governance”, riconoscendo al G20 un ruolo chiave nello stabilizzarne gli effetti potenzialmente dirompenti, precisando, tuttavia, che la “crisi dopotutto non ha cambiato le leggi fondamentali dell’economia” nel senso che “il progresso si costruisce sempre su fondamentali ben chiari”.

    Nella visione del primo ministro conservatore, formatosi nelle scuole gesuite del suo continente e poi specializzatosi al Queen’s College di Oxford, tali fondamentali riposano su una politica fiscale parsimoniosa e un mercato in continua espansione. E’ dal 1991 che l’economia australiana cresce ininterrottamente. Quando nel 2009 il complesso delle economie avanzate si contraeva del 3,4 per cento a causa della crisi, il pil australiano si limitava a rallentare la marcia segnando l’1,5. Proprio la scorsa settimana, la Banca centrale australiana ha rivisto al rialzo di mezzo punto le previsioni di crescita per l’anno in corso che dovrebbe attestarsi intorno al 2,75 per cento. Sospinto da tale crescita, il rapporto debito pil, pari al 30 per cento, dovrebbe essere abbattuto di 7 punti entro il 2018. Pertanto, non sorprende che, inserita nell’agenda del G20, la “dottrina Abbott” pone l’enfasi soprattutto sulla crescita. Tale enfasi piace agli americani dell’assopita Amministrazione Obama che lì individuano il mezzo per mantenere la pressione sulla Cina il cui modello di crescita è ritenuto troppo squilibrato verso le esportazioni rispetto alla domanda interna. Tale enfasi, però, piace pure a Pechino che intravede in quest’agenda lo strumento per schivare le pressioni di Washington, poiché l’eccesso d’investimenti nell’economia cinese sta creando una bolla che potrebbe smorzarne la crescita in assenza di una domanda mondiale che la sostenga.

    La “dottrina Abbott”, nella sua declinazione fiscale, piace anche al Canada e alla Germania, che insieme al paese che lo presiede sono gli unici membri del G20 a vantare il miglior rating (la tripla A) proprio per l’accento posto sulla necessità di ridurre il carico del debito e di moderare i disavanzi di bilancio. L’altro pilastro dell’agenda australiana è, naturalmente, la liberalizzazione del commercio internazionale. Come Abbott ha affermato “noi dovremmo tutti essere missionari del libero scambio”. Nei pochi mesi al governo, il primo ministro ha già finalizzato un accordo di libero scambio con la Corea del sud, tra breve dovrebbe completare l’accordo con il Giappone mentre sta negoziando con Cina, India e Indonesia. Del resto, la sua visione pragmatica di liberalizzare il regime commerciale tramite accordi bilaterali, plurilaterali e multilaterali è in piena sintonia con le maggiori economie mondiali come l’Ue e gli Stati Uniti che si stanno ormai muovendo in un’ottica di intese interregionali, in quanto l’afflato per un nuovo accordo globale si è consumato.

    Se Yellen frena e Lagarde migra a Bruxelles
    L’approccio di basso profilo, modestamente ambizioso ma potenzialmente efficace, formulato dal primo ministro, tutto centrato su conversazioni concrete riassunte da comunicati brevi, potrebbe, tuttavia, incagliarsi su qualche scoglio. Il primo riguarda gli effetti sull’economia globale delle politiche monetarie della Federal Reserve americana. Con la ripresa americana che va rafforzandosi, le prospettive di un graduale cambio di passo della Fed creano focolai di instabilità soprattutto nelle economie emergenti più vulnerabili ai flussi di capitale che guardano sempre più al mercato americano di cui prevedono un rialzo dei tassi. Una contrapposizione nel G20 di due schieramenti opposti tra economie avanzate ed emergenti potrebbe ulteriormente cristallizzarsi per l’inabilità dell’Amministrazione Obama di garantire il passaggio congressuale della riforma della governance del Fondo monetario internazionale che prevede maggior potere di voto proprio per le economie emergenti. Ma il colpo di scena potrebbe venire nei prossimi mesi dalle dimissioni a sorpresa del direttore generale del Fmi, Christine Lagarde, nel caso le riuscisse il trasferimento alla testa della nuova Commissione Ue il prossimo autunno. Se così fosse, l’Australia, che ha da sempre sostenuto l’esigenza di rompere la consuetudine di avere un europeo alla testa del Fmi e un americano alla Banca mondiale, potrebbe trovarsi in un ruolo assai delicato in cui sarebbe impossibile mediare tra la posizione americana ed europea favorevole allo status quo e quella degli altri paesi che richiedono un approccio più partecipativo e paritario nella nomina dei vertici delle istituzioni finanziarie internazionali.