Il nuovo establishment (che non si vede) e il coraggio delle scelte di sistema

Lodovico Festa

Il governino Letta è così in agonia che non solo non sa fare le cose ma neanche sa dirle: così il pasticcio della privatizzazione delle Poste o l’afasia sullo strategico sistema delle telecomunicazioni  o la rinuncia a difendere con l’Ilva la siderurgia nazionale. Sulle linee aeree forse farà la cosa giusta – l’alleanza tra Alitalia ed emiri – ma dopo avere detto la cosa sbagliata aprendo al nostro concorrente strutturale, Air France, che per fortuna non aveva abbastanza soldi.

    Il governino Letta è così in agonia che non solo non sa fare le cose ma neanche sa dirle: così il pasticcio della privatizzazione delle Poste o l’afasia sullo strategico sistema delle telecomunicazioni  o la rinuncia a difendere con l’Ilva la siderurgia nazionale. Sulle linee aeree forse farà la cosa giusta – l’alleanza tra Alitalia ed emiri – ma dopo avere detto la cosa sbagliata aprendo al nostro concorrente strutturale, Air France, che per fortuna non aveva abbastanza soldi. Anche sulla questione nazionale fondamentale – la ristrutturazione della grande finanza – senza la quale ogni discorso di politica industriale è solo vuoto chiacchiericcio, il governino fa una cosina furba (e forse utile) ma senza dirla e quindi pensarla strategicamente: così la rivalutazione delle quote di Bankitalia.

    Ma al di là dell’attuale compagine governativa, ci sono fattori di fondo che determinano questo stato di cose. Concentrarsi solo sul ruolo dei governi prepara il terreno per nuove delusioni. E così se si pensa che automatismi di mercato incrementati da riforme “generali” – su lavoro, ricerca, fisco, vincoli burocratici-giudiziari – bastino per rimetterci in carreggiata. Naturalmente buon governo e buone riforme sono utilissimi ma non bastano. Le scelte sistemiche di cui c’è bisogno non nascono solo dall’azione politico-istituzionale o dal mercato così com’è. Serve uno sforzo paracostituente come quello di Silvio Berlusconi e Matteo Renzi in difesa del bipolarismo ma sostenuto non tanto dalla politica quanto da un establishment che oggi non c’è e va reinventato proprio a questo fine.

    Oggi si è in qualche modo esaurita l’antica funzione di istituzioni come Mediobanca, Imi, Commerciale, Credito Italiano nel sostenere a pieno le nostre grandi imprese in Italia e all’estero. E così le Cariplo, i Sanpaolo, i Monte dei Paschi e tante altre realtà territoriali nel sorreggere il diffuso mondo delle piccole imprese: in questo campo le pur rilevanti popolari e banche cooperative non bastano. L’intreccio tra fondazioni bancarie e grandi istituti ha creato problemi strategici sia alle grandi come alle piccole imprese. Non è questione di qualità dei quadri delle fondazioni: spesso il meglio del personale politico-amministrativo dc che tanto ha dato nel campo del credito al nostro paese. Quando ad esempio a un Giuseppe Guzzetti si affidano ruoli adeguati al suo profilo come nella Cassa depositi e prestiti, offre ottime prestazioni. Ma il legame tra politica locale, ineludibile per una fondazione, e grande banca crea un’impasse di fondo: o ci si invischia nei vari sistemi di potere come con Intesa o Monte dei Paschi, o si tende ad astrarsi dalle questioni strategiche industriali, cercando nella pura funzione tecnica riparo da commistioni altrimenti paralizzanti. Così con l’Unicredito, poi con le Generali (legate al meccanismo fondazioni per via derivata dal rapporto con la a sua volta derivata Mediobanca), infine con la stessa piazzetta Cuccia che pure aveva nel suo Dna l’occuparsi di grandi strategie industriali.

    Il guasto combinato da due responsabili della crisi del ventennio come Giuliano Amato e Carlo Azeglio Ciampi (ma l’emergenza spinse anche il geniale Guido Carli a contribuire alla scelta delle fondazioni) fa sì che le grandi istituzioni finanziarie nostrane siano costrette  o a un (relativo) intrigo o a una (relativa) impotenza sul piano strategico, con uno spiazzamento rispetto ai concorrenti francesi, inglesi, tedeschi e spagnoli. E chi prova a cambiare il “sistema” – così Vincenzo Visco nel 2000, Giulio Tremonti nel 2001 e Antonio Fazio nel 2004 – è brutalmente messo da parte. E anche grandi imprenditori come  ad esempio Gaetano Caltagirone o Lorenzo Del Vecchio quando finiscono nel sistema si arrendono alla sua logica.

    Cambiare significa mettere mano a equilibri decisivi: si consideri quanto sia legata la vicenda Intesa ai destini degli Agnelli post Detroit e quindi a Rcs, quanto pesi Monte dei Paschi nella realtà toscana dei Letta e dei Renzi. Quanto minimi spostamenti in Generali provochino reazioni feroci. Eppure senza ristrutturare il sistema finanziario, senza separare beneficenza e attività bancaria, attività commerciale e investimenti a medio termine, e così via “distinguendo”, è difficile parlare di politiche industriali. Ma dove trovare la forza di un Mussolini che chiama i Beneduce e i Mattioli,  di un De Gasperi che si accorda con gli Agnelli e i Mattioli? L’energia dei Dell’Amore a sostegno del boom economico?  Sotto la pelle della realtà italiana si intravedono processi transnazionali come quello Fiat-Chrysler che riguardano i Berlusconi, i De Benedetti, di nuovo gli Agnelli, ma anche i tanti “liquidi” della nostra Italia: senza un nuovo sistema finanziario questi progetti saranno irrealizzabili o comunque svirilizzati, così come soffrirà la geniale piccola e media impresa senza adeguati capitali. Ma cambiare radicalmente significa modificare poteri tali che senza reinventarsi un establishment sarà impossibile.