Analisi particolareggiata e maliziosa di quel che fa l'amico amerikano

Lodovico Festa

Al contrario dei solidi imperialisti britannici d’antan con propri uomini nelle aree strategiche del mondo, l’approccio degli Stati Uniti alle varie questioni nazionali è tipico di una potenza che si pensa anticolonialistica: naturalmente da “leader globale” vuole guidare gli alleati ma più con amici che agenti. Con risultati brillantissimi – così il post Seconda guerra mondiale – quando i binari politici sono definiti. Con pasticci nelle fasi più complesse: così per certi versi sud America o Vietnam negli anni Sessanta.

    Al contrario dei solidi imperialisti britannici d’antan con propri uomini nelle aree strategiche del mondo, l’approccio degli Stati Uniti alle varie questioni nazionali è tipico di una potenza che si pensa anticolonialistica: naturalmente da “leader globale” vuole guidare gli alleati ma più con amici che agenti. Con risultati brillantissimi – così il post Seconda guerra mondiale – quando i binari politici sono definiti. Con pasticci nelle fasi più complesse: così per certi versi sud America o Vietnam negli anni Sessanta.

    Oggi con tante turbolenze si alternano a scelte fortunate (Tunisia o Messico) non poche mal calibrate: Libia, Egitto, Siria, Turchia. A questo scenario si guarda qui da noi cercando di capire dove si indirizzi il sistema di relazioni con l’Italia di una grande nazione “amica” in una fase così delicata. Una delle preoccupazioni di questo “sistema” è per i legami energetici tra Roma e Mosca: una costante dai tempi di Enrico Mattei. Un’altra è quella per un’egemonia tedesca sul continente articolata su una linea di austerità denunciata come pericolosa da Washington. Un’altra ancora nasce dai pericoli che gli sbandamenti di una delle grandi economie del mondo possono provocare su equilibri globali non solidissimi. C’è poi la costante spinta ad aprire i mercati nazionali (non sempre con adeguata reciprocità) e a seguire con attenzione la nostra industria non priva di grandi qualità e uno dei risparmi privati più consistenti al mondo. Se queste, oltre al naturale ruolo che giochiamo nel Mediterraneo e quindi sul nord Africa e il medio oriente, sono le preoccupazioni di fondo di una Washington che pur avendo una solida visione globale a prescindere dalle specifiche amministrazioni politiche, è naturalmente assai articolata (con conflitti anche infragovernativi), quali sono i migliori amici italiani con cui si può interloquire?

    Senza dubbio c’è Matteo Renzi – un osservatore fa notare che quando un nostro politico parla di vendere l’Eni ha sempre una sponda oltreatlantico – che con il suo vento di rinnovamento piace agli ambienti politici e non solo democratici (magari anche per qualche ideina sulle Generali tanto curate dal sindaco fiorentino). Si è addirittura consolidato lo storico rapporto con la Fiat che reggeva via Jp Morgan anche durante il fascismo. Anche in questo caso con gli ambienti democratici ma non solo: si consideri la mezza idea (sostenuta anche da Sergio Marchionne) di vendere Rcs a Rupert Murdoch.

    Saldo è il legame – non privo di risvolti business – di Carlo De Benedetti con George Soros, influente sul clan obamiano. C’è chi ha notato, poi, le affettuosità tra Villa Taverna e Beppe Grillo e ha malignato sul fatto che lasciando interpretare la protesta negli inizi anni Novanta a un Umberto Bossi filotedesco si fece poi vincere Berlusconi. Altri notano come il Vaticano da Joseph Ratzinger a Jorge Mario Bergoglio, al di là delle specifiche posizioni discusse da parte di settori cattolici statunitensi, è divenuto comunque meno “europeo”.

    Da registrare l’appannarsi di tradizionali interlocutori come Enrico Letta, Emma Bonino, lo stesso Mario Monti e in parte il pur “indispensabile” Giorgio Napolitano, segnati da un ammuffito europeismo che li paralizza. L’unica vera stella resta il magico Mario Draghi. Tramontati i best friend di destra: quelli di ieri, da Gianfranco Fini a Franco Frattini, quelli di oggi Angelino Alfano e Gaetano Quagliariello. Tutti abatini. A destra vale la pena di considerare qualche chance di Roberto Maroni, ottimo interlocutore dell’Fbi (e dei suoi amici italiani) quand’era al Viminale e di Daniele Capezzone, un quadro naturalmente amico degli americani come tutti quelli di formazione pannelliana ma rivelatosi più solido dell’evanescente Bonino.

    E Silvio Berlusconi? Come si comprende leggendo le porcheriole di Wikileaks non ha avuto grandi sponde nell’Amministrazione Obama che però esprimendo una visione globale è sempre pronta a cambiare linea di fronte a suoi input strategici. Il Cairo docet.