Papa Gustavo

Guido Vitiello

Ho letto la nuova enciclica di Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sulla cultura”, e ne sono uscito riconfortato. Il professore mi aveva fatto stare in pensiero, ultimamente. Mi ero imbattuto nella sua postfazione a un libro di Sandra Bonsanti, un’intemerata contro il culto del denaro così fiammeggiante che pareva un libello di Lutero, e temevo che dopo averla conclusa Zagrebelsky avesse scagliato pure lui un calamaio contro Satana. Ma alcuni segnali erano perfino più inquietanti.

    Ho letto la nuova enciclica di Gustavo Zagrebelsky, “Fondata sulla cultura”, e ne sono uscito riconfortato. Il professore mi aveva fatto stare in pensiero, ultimamente. Mi ero imbattuto nella sua postfazione a un libro di Sandra Bonsanti, un’intemerata contro il culto del denaro così fiammeggiante che pareva un libello di Lutero, e temevo che dopo averla conclusa Zagrebelsky avesse scagliato pure lui un calamaio contro Satana. Ma alcuni segnali erano perfino più inquietanti. Il nesso potere-denaro era paragonato all’uroboro, “il mitico serpente che si nutre di se stesso, con la bocca incollata alla coda o all’ano”, ma già che non si capisce bene se è la bocca del denaro ad attaccarsi all’ano del potere o viceversa, “non sapresti dire, in questo caso, qual è l’orifizio che dà e quale quello che riceve”. Ecco, mi sono detto, il professore è a un bivio: una via porta a Julius Evola, l’altra al pitone di Ilona Staller. Meno male che “Fondata sulla cultura” ha rimesso le cose a posto, e Zagrebelsky è tornato alla sua prosa consueta, che è quella di un neotomista di provincia in abiti laicali. Non per nulla l’enciclica è data in Torino, Einaudi, il 28 gennaio: san Tommaso d’Aquino.

    Il riferimento scritturale è la Costituzione, capitolo 33, versetto 1 (perché degradarli ad articoli e commi?): “L’arte e la scienza sono libere”. Zagrebelsky invita a meditare sul verbo all’indicativo, e in questo è spalleggiato da una tradizione esegetica che risale almeno ai commenti all’Ego sum qui sum di Esodo 3, 14. I Padri costituenti hanno voluto definire l’essenza eterna dell’arte, la sua quiddità, che è quella di una creazione libera dai vincoli della politica e dell’economia. Noi moderni potremmo penare un poco nell’applicare una tale definizione all’arte nell’epoca del cinematografo e del grammofono, ma Zagrebelsky ci toglie d’impaccio precisando, con filosofema da rettore di seminario, che essa “non è arte nella componente priva di libertà, esecutiva del volere del committente”. Anche Carosello, anche le réclame commerciali hanno un aspetto creativo, ma “non sono esse stesse espressione della libertà della cultura; sono invece funzione dell’economia”. Ed è importante distinguere gli ambiti, perché la società “bene ordinata” si fonda su una trinità consacrata dalla tradizione: l’economia, che suscita bassi appetiti e rivalità; la politica, che genera lotte per il potere; e in cima a tutto la cultura come religione secolare, che compone le discordie e impedisce alla società di scompaginarsi. Guai quando la santa tripartizione è messa a soqquadro, quando la harmonia mundi è turbata da una commistione tra i diversi ordini, giacché (e qui gli accenti sono quasi pitagorici) “ciò che è giusto in una sfera, può diventare corruzione delle altre sfere”.

    Il chierico, o diciamo pure l’intellettuale contemplativo che non si mescola alle sfere inferiori, vive tempi difficili. La cultura si è fatta specialistica, e questo ci rende ciechi di fronte a ciò che più conta, il “bene comune” (il bonum commune della Summa). Inoltre la comunicazione, che vive dell’istante e che si esprime in rete, prevale oggi sulla formazione, che vive della durata e ha la sua dimora nei libri. Bisogna collegare gli istanti “in un senso che crea comunanza”, ed è questa la funzione costituzionale della cultura, “che dà sostanza spirituale e garanzia alla vita sociale”, la sperandarum substantia rerum del Dottore Angelico. Al chierico è data però in premio la gioia delle idee, perché “la mente tende alle idee e in esse trova il suo compimento” (la frase è scritta in italiano, ma si capisce lontano un miglio che è stata pensata in latino). Esse, le idee, “trasformano il ‘senso’ (facoltà passiva) in pensiero (facoltà attiva)”, variazione sulla dottrina dell’intelletto agente e dell’intelletto possibile.

    Il lettore di “Arte e scolastica” di Maritain o di “La società di massa e la sua cultura” di Gilson respirerà aria di casa, sebbene non delle più pure. Ma il libro del rettore del seminario Libertà e giustizia si raccomanda soprattutto ai posteri, che si stupiranno di come un piccolo scolastico potesse, nell’Italia del Ventunesimo secolo, guadagnarsi la fama di philosophe laicista e giacobino.