Le avventure della rottamazione

Rinnovamento sì, ma senza gettare il sasso dove lo fanno tutti

Salvatore Merlo

Un giorno Gianfranco Piazzesi, che era un giornalista come dev’essere un giornalista, cioè fantasioso e un po’ insolente, chiese a Franco Evangelisti, che era l’ombra rozza ed eterna di Giulio Andreotti, quali fossero mai le ragioni d’un avvicendamento all’interno d’una grande azienda pubblica, forse l’Enel, forse l’Eni, chissà. Ed Evangelisti, romano di scarse letture, uomo grave e greve il cui fascino risiedeva in quella che si potrebbe chiamare la caratterizzazione della schiettezza, gli rispose così: “Lo abbiamo sostituito perché stasa”.

    Un giorno Gianfranco Piazzesi, che era un giornalista come dev’essere un giornalista, cioè fantasioso e un po’ insolente, chiese a Franco Evangelisti, che era l’ombra rozza ed eterna di Giulio Andreotti, quali fossero mai le ragioni d’un avvicendamento all’interno d’una grande azienda pubblica, forse l’Enel, forse l’Eni, chissà. Ed Evangelisti, romano di scarse letture, uomo grave e greve il cui fascino risiedeva in quella che si potrebbe chiamare la caratterizzazione della schiettezza, gli rispose così: “Lo abbiamo sostituito perché stasa”. E Piazzesi, canzonatorio, riportò la risposta così come l’aveva sentita: “Stasa”, appunto, cioè stura. E insomma Evangelisti esprimeva in termini grossolani un concetto essenziale per il buon funzionamento della politica, come di ogni catena di comando: il ricambio è auspicabile, necessario. Ma diceva “stasa”, ne faceva cioè una questione di tubi di scarico, la politica e il potere come meccanica di rubinetteria, la società e gli incarichi come una faccenda d’ingorghi, roba di vasi, acque reflue, vasche e pozzi neri. Oggi invece Matteo Renzi dice “rottamazione”, e se c’è una parola che sarà ricordata del periodo che stiamo vivendo è proprio questa, “rottamazione”, dunque, con la lingua che s’impunta sulle diverse vibrazioni delle consonanti quasi anticipando il gusto contundente della conquista giovanile, del ricambio generazionale in un paese in cui prevalgono l’angustia, la dissipazione burocratica, la polvere di casta.

    Ma la rottamazione di Renzi, che in politica è stata una liberazione tra sangue e consenso, si proietta nella società italiana per storpiature e allitterazioni bislacche suggerite da un senso di rancorosa simmetria. E più che al ricambio allude alla rivoluzione culturale, “prendiamo i vecchi e gli mettiamo un bel cappello da asini”, cioè quel sistema, già sperimentato, con cui di solito le nazioni non si rilanciano ma si sfasciano al canto di “giovinezza giovinezza” e “schiaffeggiamo Toscanini”. E dunque Diego Della Valle, per la verità non giovanissimo nemmeno lui (a proposito: chi stabilisce l’età della rottamazione?), strattona i “vecchietti arzilli” come Giovanni Bazoli – “se quelli come lui rimarranno al loro posto sarà una grande sconfitta per tutti quelli che vogliono che il paese cambi e si modernizzi” – e Beppe Grillo, nemmeno lui freschissimo, insolentisce il vegliardo Giorgio Napolitano, mentre Gasparri invita Renzo Piano ad andare all’ospizio, proprio come Rita Levi Montalcini, secondo Storace, doveva indossare le stampelle.

    Ed è chiaro che il monumento ingombra, occupa spazio e fa ombra, ma forse i monumenti servono pure, e in Francia a nessuno sarebbe mai venuto in mente d’invocare la rottamazione di Claude Lévi-Strauss, che morì quasi centenario. Tutti vorremmo un capo dello stato cinquantenne dalla vita normale, ma rottamazione non vuol dire ricambio, è piuttosto una fialetta puzzolente lanciata negli uffici e nelle redazioni dei giornali, esprime la vaghezza d’una giusta esigenza, ma è anche la miseria dei peggiori contro i migliori, un impasto micidiale di tutte queste cose insieme. Così i suoni di parole motivate (“rinnovamento”) s’incidono sulla certezza, squallida e tranquilla, che c’è comunque qualcosa di sbagliato nella lettera pubblicata da Dagospia (fasulla?) con la quale dei giovani giornalisti di Repubblica hanno invitato il vecchio Alberto Statera a ritirarsi e fare largo, “noi siamo quattro cronistacci da strada e nel 1971, quando Statera già furoreggiava sull’Espresso di Scalfari contro i ‘padroni del vapore’, non eravamo neppure nati… qui a Repubblica gli anziani li trattiamo bene. Cioè li prepensioniamo e poi li rimettiamo a lavorare come prima in collaborazione ‘esterna’”. La fiamma del desiderio e la fiamma della frustrazione ardono unite. Ma va così, con gambe larghe e facce accese, la pancia gonfia e gli occhi avidi, mentre la parola rottamazione, da cui Renzi ha preso le distanze, e che lui ha usato in una guerra vera, idee sorgive contro apparati esausti, intanto rifluisce dalla politica fin dentro la società italiana per onde un po’ fatue e un po’ fameliche.

    E se la tracotanza di Renzi è sbocciata con la sua fortuna, il livore degli epigoni fiorisce appassito nell’insuccesso professionale, che non dipende dall’età ma dalla personalità, dalle capacità di ciascuno, perché diceva Leo Longanesi che giovani non si nasce ma si diventa, mentre Benedetto Croce sosteneva che l’unico dovere del giovane è invecchiare. Ma il livore e l’interesse si sfogano come possono, dunque l’eta è scagliata su Napolitano come un sanpietrino o uno sputo schiumoso per ragioni molto lontane dall’opportunità del rinnovamento, ed è usata da Grillo contro Rodotà (“sbrinato di fresco dal mausoleo”) non appena Rodotà si permette di criticarlo, da Della Valle contro Bazoli – senza grande successo – per conquistare uno spazio nel salotto finanziario d’Italia. Così la rottamazione nel giornalismo scoppia con le lettere anonime a Dagospia, per regolamenti di conti interni, piccinerie, invidie, e trova riparo nel tepore oscuro delle amicizie di Twitter, dove la sera in cui Renzi ha vinto le primarie non pochi giornalisti, giovani e social, hanno spinto la propria inesausta condizione di desiderio fino a marchiare con avidità infantile di “improvvisamente invecchiati” tutti i colleghi, più e meno prestigiosi, che in quegli istanti, in televisione, erano chiamati a commentare la vittoria del sindaco ragazzino. La piccolezza confortevole di gettare un sassolino lì dove lo buttano tanti altri. E nel buco di Twitter i giovani cantati da Catherine Spaak – “Ma che cosa c’è / Ma che cosa c’è / balla insieme a me” – (ir)ridono di quel riso semplice, frequente, un pochino sciocco e senza fatica. Ecco il tuìt di un’ansimante giornalista quarantenne: “‘Il rinnovamento generazionale deve riguardare tutti’, dice Bianca Berlinguer, 55 anni”. E si svela il vertice del desiderio, forse uno strazio sottile: ci fossi io al posto suo.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.