Ombre, reticenze e omertà dell'antimafia chiodata raccontate da Macaluso

Salvatore Merlo

Individua “tre omertà” nel fronte dell’antimafia militante, tre omertà che fanno affiorare torbido l’inestinguibile sospetto che le intercettazioni di Totò Riina siano l’ultima delle patacche sulla trattativa, la spia allarmante del solito cortocircuito tra politica, informazione e giustizia. Poi Emanuele Macaluso dice che “adesso non so se debba occuparsene il Parlamento, la magistratura, il ministero della Giustizia o la commissione Antimafia”.

    Individua “tre omertà” nel fronte dell’antimafia militante, tre omertà che fanno affiorare torbido l’inestinguibile sospetto che le intercettazioni di Totò Riina siano l’ultima delle patacche sulla trattativa, la spia allarmante del solito cortocircuito tra politica, informazione e giustizia. Poi Emanuele Macaluso dice che “adesso non so se debba occuparsene il Parlamento, la magistratura, il ministero della Giustizia o la commissione Antimafia. Ma poiché è ormai evidente che questo signor Lorusso, il detenuto che parlava con Riina, lavora per qualche apparato dello stato (eventualità che nessuno nega ma tutti affermano), ebbene qualcuno ci deve dire per quale apparato lavora Lorusso. La procura? I servizi? Chi? Quando avremo questa risposta, capiremo anche le vere intenzioni di chi ha messo in scena questa operazione. Una cosa è andare da Riina pensando, ‘vediamo cosa possiamo fargli dire’, un’altra è ‘vediamo che cosa dice’”.

    Le tre omertà. 1) “Il giornale il Fatto non ha scritto una parola sulla storia di cui oggi leggo su Repubblica e che riguarda il noto ex pm Antonio Ingroia, che fu inquirente assieme al dottor Nino Di Matteo nel processo sulla trattativa prima di candidarsi alle elezioni, e che oggi fa il dirigente di una società controllata dalla regione Sicilia. Ingroia, scrive Repubblica, ha assunto parenti di Totò Cuffaro e anche del defunto boss mafioso Stefano Bontade. L’ex magistrato si è difeso spiegando che le colpe dei padri non debbono ricadere sui figli. Ed è giusto, finalmente lo riconosce. Mi chiedo soltanto cosa avrebbe detto Ingroia, e cosa avrebbe scritto il Fatto, se ad assumere i parenti di Cuffaro e Bontade fosse stato un altro. Ora tacciono, e tutto va bene.

    2) Sul Corriere della Sera ho letto della deposizione di Ilda Boccassini al processo sulla strage di Via d’Amelio. Boccassini ha raccontato che il supertestimone, il pentito Vincenzo Scarantino (oggi screditato e indicato come depistatore e falso pentito), era già considerato sin dal 1994 un testimone equivoco a Caltanissetta, dove lei lavorava e indagava sulla strage. Ci fu una responsabilità dell’allora questore Arnaldo La Barbera, ma quelli che non hanno agito e si sono bevuti tutto sono un gruppo di magistrati ancora oggi impegnati nelle indagini sulla trattativa e, specificatamente, come racconta la Boccassini, Nino Di Matteo. Anche su questa storia, come la precedente, silenzio. Come nulla fosse.

    3) Grande è il clamore, giustificato, per le minacce a Di Matteo da parte di Riina, anziano e isolato capomafia costretto al 41 bis. Molto meno si parla, negli ambienti dell’antimafia militante, delle minacce di Matteo Messina Denaro, cioè il capo attivo e latitante della mafia, ai magistrati di Palermo e a Teresa Principato, pm della Dda di Trapani. La dottoressa Principato ha assestato alcuni colpi durissimi al gruppo di Messina Denaro, mettendo molti affiliati in carcere. Eppure questa storia è meno rumorosa delle minacce di Riina”.

    E qui Macaluso arriva al caso delle intercettazioni del vecchio capo della cupola. “Riina non ha nessun motivo di doversi vendicare su Di Matteo. E’ già in carcere, ha cinque o sei ergastoli, averne un sesto o settimo gli cambia poco. Riina la sua vendetta l’ha già consumata su chi lo ha incastrato, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Non mi pare che l’indagine sulla trattativa e l’odierna procura di Palermo c’entrino niente. E’ tuttavia doveroso e giusto difendere e tutelare con grande rigore il magistrato, perché non si sa mai. Ma la domanda resta: cosa teme Riina? Di sicuro non teme il processo sulla trattativa. Forse teme che possa venir fuori qualcosa sul suo rapporto con la polizia, magari una sua vecchia soffiata. Teme di perdere l’immagine di mafioso integrale”.

    Infine la questione Lorusso. “Come dice Bruno Tinti, sul Fatto, è ovvio che si tratta di un agente provocatore. Non lo nega nessuno, nemmeno lo stesso Lorusso. Perché inalberarsi? Ma vogliamo sapere a servizio di chi, per chi lavora Lorusso? Chi ha organizzato questa operazione nella quale Riina dice cose sconnesse, tenta di coinvolgere personaggi politici e figure istituzionali, di mascariare secondo un tipico codice da mafioso incarcerato. Tinti dice: perché vi meravigliate? E’ normale che ci siano agenti provocatori. Benissimo. Allora qualcuno però deve dirci qual è la fonte, chi ha istruito Lorusso e perché. Sarebbe opportuno che la magistratura stessa, o forse il ministero della Giustizia, o il Parlamento si attivassero per fare chiarezza. Lo ripeto: Riina non ha nulla da temere dalla procura di Palermo, dai processi o da altre indagini. Non gli basterebbero sei vite per estinguere la pena cui è stato già condannato”.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.