Il vecchiume di Letta

Salvatore Merlo

Non commenta, non difende, chiuso a Palazzo Chigi tace e la vita agra del suo partito – quel Pd sospeso tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, tra vecchio e nuovo, tra botte e dimissioni, ipotesi scissioniste e tormenti – lo interessa solo nella misura in cui questo contundente tramestìo possa lambire ciò che più gli sta a cuore, la stabilità. Ma il silenzio di Enrico Letta, la sua neghittosità all’azione, comincia a diventare un problema per le forze che sostengono il governo, e persino per Giorgio Napolitano che – dicono – lo vorrebbe più tosto questo suo giovane presidente del Consiglio.

    Non commenta, non difende, chiuso a Palazzo Chigi tace e la vita agra del suo partito – quel Pd sospeso tra Matteo Renzi e Gianni Cuperlo, tra vecchio e nuovo, tra botte e dimissioni, ipotesi scissioniste e tormenti – lo interessa solo nella misura in cui questo contundente tramestìo possa lambire ciò che più gli sta a cuore, la stabilità. Ma il silenzio di Enrico Letta, la sua neghittosità all’azione, comincia a diventare un problema per le forze che sostengono il governo, e persino per Giorgio Napolitano che – dicono – lo vorrebbe più tosto questo suo giovane presidente del Consiglio. Anche il presidente della Repubblica è rimasto colpito dal mutismo di Letta, che giovedì scorso, mentre Renzi criticava il governo, si è reso latitante, come se non fosse stato lui stesso l’oggetto del sarcasmo del segretario, come se la cosa non lo riguardasse direttamente (il governo? “Dieci mesi buttati”). Adesso persino Angelino Alfano, con la vivacità di un rubinetto che perde, lo spinge e lo strattona, “devi avere coraggio”, gli dice. Ma è solo la parola “rimpasto” a scintillare agli occhi di Letta come una promessa di felicità, che per lui equivale ovviamente alla quiete, alla potenza d’una ossessione: durare, durare e ancora durare. “Ma un rimpasto di governo non serve a niente”, esplode Roberto Formigoni, vecchio conoscitore della palude. “Come minimo bisogna aprire la crisi e ottenere un reincarico”, dice. E Linda Lanzillotta, energica: “Napolitano si è messo rispettosamente un po’ in disparte dopo la vittoria di Renzi. E adesso Letta la forza se la deve dare da solo. Ci vuole un nuovo governo, ma ci vuole soprattutto azione politica”.

    Ma se uno il coraggio non ce l’ha, non se lo può dare. E così in mancanza di politica e di movimento, Letta si rifugia nelle parole morte della Prima Repubblica, “rimpasto”, appunto, espressione che rimanda al precario e vischioso equilibrio tra crisi e continuità, al desiderio d’un voluttuoso immobilismo. E a Palazzo Chigi, tra i suoi collaboratori economici, c’è chi mormora che “saper stare a tavola con la Merkel è molto utile, ma non basta”. Pure lì. E insomma tutti, da Napolitano in giù, sanno cosa rischia di diventare – o forse è già – Letta: il capo di un governo socialmente e politicamente esautorato che riesce ad attestare e giustificare un’illusione d’esistenza solo nel richiamo sonnolento a parole, e istituzioni politiche, che si credevano morte per sempre. E per non dire “rimpasto”, anche a Palazzo Chigi, come a Firenze, a casa Renzi, adesso si mastica l’inglese. Così il “rimpasto” lo chiamano “reshuffling”, una cosmesi della cosmesi. Così come hanno dato un altro nome alla vecchia verifica.

    Il presidente del Consiglio vorrebbe evitare un reincarico, sfuggire alle dimissioni e all’incognita d’una crisi di governo. E’ vero, c’è Napolitano. Ma perché rischiare? Dunque Letta si rivolge a Renzi, al quale non ha mai replicato, malgrado il segretario con il suo fare spiccio lo abbia trasformato in un oggetto di bullesca ironia (“Enrico stai sereno”, “i novanta giorni buttati del governo”). “Renzi mi deve indicare i nomi dei nuovi ministri”, sussurra Letta, mentre l’altro, la sua nemesi, cioè il segretario iperattivo, malgrado molti dei suoi lo implorino di farli entrare al governo, non ci pensa nemmeno. Renzi non ha interesse a presidiare un’immobile catastrofe, piuttosto lo fa lui il presidente del Consiglio. E dunque in Scelta civica e nel Nuovo centrodestra, tra i lettiani del Pd, come al Quirinale, sono tutti molto preoccupati. “Letta deve diventare un moltiplicatore rispetto all’accelerazione di Renzi”, dice Linda Lanzillotta. “Deve riformare la squadra di governo, che non ha tante punte di diamante capaci.

    Per esempio Zanonato, Alfano, D’Alia… Ma deve anche agire, sennò finisce male. Se dà l’impressione di ristagnare, ristagna anche l’economia. E invece dei segnali di ripresa ci sarebbero. Ma bisogna avere coraggio, anche sulla questione fiscale: ridurre l’Irap e finanziarla con i sussidi alle imprese, dare sostegno alle riforme del mercato del lavoro, al contratto di sperimentazione. Letta può intestarsi un’agenda politica tostissima, composta di riforme economiche e sociali per rilanciare la crescita, di sostegno agli investimenti, di lotta alla burocrazia a cominciare dagli alti vertici dello stato. Dovrebbe diventare il leader che spinge il suo paese verso la crescita con grandi riforme, adesso, ora che andiamo alla guida del semestre europeo”. E dunque loro vorrebbero un presidente del Consiglio insolito, elegante, paziente, fantasioso, instancabile, con qualche astuta concessione alla platea e qualche forse inevitabile abbaglio. Cose che in parte Enrico Letta è già. Ma soprattutto lo vorrebbero uomo d’azione. Il Merkel italiano, insomma. Solo che Letta non è temprato nel ferro della Germania dell’est, ma è stato educato, sin dall’inizio, dagli albori con Andreatta, a una presenza scenica sempre, studiatamente vicaria e morbidamente, torpidamente trasversale. “Interpreta gli incarichi come fossero una rendita”, dice chi lo conosce bene. Ed è pure quello che comincia a sospettare l’inquieto Napolitano, rispettoso del nuovo corso di Renzi, e sempre meno guida del giovane premier (si vede).

    Fu Napolitano a tirare i fili del voto di fiducia che sancì la scissione del mondo berlusconiano. L’unico grande successo politico di Letta. Successo che il presidente del Consiglio non è riuscito nemmeno a rivendicare un po’ per sé, di fronte alla ribalderia di Renzi, giovedì scorso, alla direzione nazionale del Pd (è lo stesso mutismo esibito intorno allo spread calante). Letta sembra voler immobilizzare tutto attorno a sé, tempo e spazio, storia e paesaggio; vuole pietrificare. Dicono che la sua sia una fuga, un modo per rimanere sereni nelle sventure, organizzando quel tanto di vita che è possibile metter su continuando a deperire. Attorno a lui cambia il vocabolario della civiltà, l’ascesa dell'irregolare Renzi incide sugli equilibri tra politica ed estetica, nella sinistra e in Italia, ma Letta non appare attrezzato, né forse interessato a reagire o partecipare in un ruolo che non sia a rimorchio, subalterno. Dunque guarda con sospetto torpido, con inerte preoccupazione alle acquisizioni della nuova sinistra renziana. E intanto si rifugia nell’antico e defunto rimpasto.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.