Scissione o correntone?

A sinistra di Renzi c'è un partito in piena crisi di rigetto: il Pd

Salvatore Merlo

Presenta una bozza del suo documento sul lavoro battezzato all’americana “Job act”, e come Silvio Berlusconi chiede di sforare il limite del 3 per cento nel rapporto tra defici e pil (“non lo sforeremo mai”, dice invece Enrico Letta), poi salta in groppa al ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, gli tira due scudisciate, censura il “pasticcio” sulla scuola, e poiché è di un’impazienza meticolosa, spinge il suo disincanto per la dissipata vita di partito fino a confessare agli amici che, “se vogliono, quelli del governo possono anche tenersi le poltrone ma non devono rompermi le scatole se faccio politica per conto mio”.

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    Presenta una bozza del suo documento sul lavoro battezzato all’americana “Job act”, e come Silvio Berlusconi chiede di sforare il limite del 3 per cento nel rapporto tra defici e pil (“non lo sforeremo mai”, dice invece Enrico Letta), poi salta in groppa al ministro dell’Economia Fabrizio Saccomanni, gli tira due scudisciate, censura il “pasticcio” sulla scuola, e poiché è di un’impazienza meticolosa, spinge il suo disincanto per la dissipata vita di partito fino a confessare agli amici che, “se vogliono, quelli del governo possono anche tenersi le poltrone ma non devono rompermi le scatole se faccio politica per conto mio”. E insomma Matteo Renzi si rappresenta come poeta assoluto in balìa della mediocrità polverosa della partitocrazia ministeriale (“non diventerò mai un grigio burocrate”) ma la cui voce sarà – è già – vittoriosa nel tempo.

    Gli stupori e i riti della vita del Pd, di cui pure è il segretario, non lo incantano, hanno su di lui un effetto repulsivo proporzionale alla loro lontananza dai tempi rapidi e funzionali d’una battuta a effetto (“Fassina chi?”), dal lampo d’un tuìt: “Rispondo solo al popolo delle primarie”. E i suoi ragazzi, fedelissimi e come lui baldanzosi, già descrivono crepuscolari manovre scissioniste, disegnano nell’aria l’ombroso e baffuto profilo del gatto D’Alema e della sua volpe Sposetti, il tesoriere, l’uomo dei denari. “Stefano Fassina si è dimesso per fare qualcos’altro”, allude Angelo Rughetti, che fu amico di Veltroni come oggi lo è di Renzi. E anche Matteo Orfini s’allarma, “la sinistra non può diventare una corrente, non può essere chiusa in una ridotta”, dice, sconcertato e insieme affascinato da questo ragazzino che potrebbe anche vincere le elezioni. E così la parola scissione, qui e là, forse per tattica, in un complesso gioco di specchi e di simmetriche mosse deterrenti, comincia a essere maneggiata con sempre minore cautela nei corridoi del partito generoso e confuso. “Non ci saranno scissioni perché non serve a nessuno, e Renzi non ha interesse a spintonare fuori la minoranza. Non sarebbe saggio”, mormora Claudio Sardo, editorialista e direttore dell’Unità ai tempi della segreteria di Pier Luigi Bersani.

    “Ma Renzi”, aggiunge Sardo, “non può nemmeno continuare a fare l’opposizione al governo, si troverebbe accanto al lepenismo di Berlusconi e di Grillo, che lui sta già legittimando con la trattativa sulla riforma elettorale”. E insomma un problema c’è, estetico, antropologico, in definitiva politico. E il caso Fassina, con le sue dimissioni, con i sospetti e i tormenti che circondano l’ex viceministro, rappresenta con carnale potenza le sofferenze di un mondo sospeso tra chi celebra e rimpiange l’innocenza arcaica delle tessere e degli insediamenti e chi va avanti per storpiature e allitterazioni suggerite da un senso di moderna musicalità politica.

    “Se non fa il rassembleur, sono guai”
    Per Fassina e per D’Alema, per il gruppo di Bersani e persino per Giorgio Napolitano, il sorriso ribaldo di Renzi è un coperchio sul vuoto, la cinerea perfezione del niente che si contrappone all’investimento oneroso fatto sul governo di Enrico Letta. Mentre lui, lo strano segretario, il ragazzino capace di collere brevi ma stizzite per i suoi oppositori, sa di poter fare tutto tranne che il segretario di un partito classico a sostegno d’un governo impaludato: “O faccio Renzi o sono morto”, confessa. E dunque per questo inventa l’americano Job act, rimbrotta Saccomanni, stravolge le liturgie della sinistra, impone la “R” di Renzi alla bandiera di partito, e si organizza con la pignola previdenza d’un turista, d’uno stratega, d’un seduttore, forse d’un assassino.

    E’ infilato nella segreteria del Pd come nel pastrano di un altro. “Ha bisogno di conservare la sua freschezza”, ammette Sardo, “ma a un certo punto dovrà anche essere un rassembleur”, dovrà saper tenere fra le dita tutti i fili del Pd, tutti insieme in un’unica trama. Ma saprà farlo? E’ questo il dubbio che tormenta Orfini, ma anche Gianni Cuperlo, due leader della cospicua minoranza di sinistra per niente interessati a farsi spintonare fuori dal partito. Cuperlo è esplicito, meglio sacrificare Letta che rischiare il botto, “se non lo sosteniamo è preferibile votare”. Ma i dubbi e le incertezze acquistano sempre più una rigorosa petulanza e compongono un’unica opprimente ombra sul futuro del partito. “Di sicuro si vivrà una vita vivace”, ironizza Sardo, lui che immagina un avvenire aspro ma degno. Intanto nessuno di questi pensieri intacca la serenità del passo sicuro di Renzi, e quando timidamente gli si fa notare il rovello psicologico e sentimentale della sinistra, lui inarca le spalle, indossa un’espressione tra l’indifferente e il risentito: non me ne frega niente.

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    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.