“Paraculettismi”

A promettere è lesto, ma Letta tutto fa tranne che politica

Salvatore Merlo

E già Matteo Renzi un po’ teme il momento in cui toccherà a lui sprofondare nella poltroncina di broccato, nello studio di Palazzo Chigi, di fronte a Enrico Letta, lì dove ieri si è seduta Stefania Giannini, la vice di Mario Monti, primo di una lunga serie di incontri, vertici e parole che il presidente del Consiglio chiama “impegno 2014”, “consultazioni” tra i leader delle forze politiche per un nuovo patto di governo da chiudere entro la fine del mese. Un tempo si chiamava verifica.

    E già Matteo Renzi un po’ teme il momento in cui toccherà a lui sprofondare nella poltroncina di broccato, nello studio di Palazzo Chigi, di fronte a Enrico Letta, lì dove ieri si è seduta Stefania Giannini, la vice di Mario Monti, primo di una lunga serie di incontri, vertici e parole che il presidente del Consiglio chiama “impegno 2014”, “consultazioni” tra i leader delle forze politiche per un nuovo patto di governo da chiudere entro la fine del mese. Un tempo si chiamava verifica. Renzi vuole la riforma elettorale almeno quanto non vuole farsi impantanare da quello che i suoi ragazzi fedelissimi e toscanacci, inclini come sono a cachinni e sberleffi, già da tempo chiamano il “paraculettismo”, che è un nuovo e antichissimo luogo della politica, spazio di accidia e d’uggia dove tra rimpalli di carambole, fruscii di giornali, si consumano pantaloni, si consumano anni, ammuffiscono vite e nuove leadership.

    L’esigenza e l’inclinazione caratteriale dell’uno sono l’opposto di quelle dell’altro, e tanto più Renzi ha fretta e fame d’azione, fino al punto d’essere scomposto (“Fassina chi?”), tanto più Letta coltiva invece con sapienza quella flemma che gli viene così naturale esercitare, per carattere e cultura. E dunque parlare per non morire, non fare per non sbagliare. La riforma elettorale è affidata al dialogo tra i partiti, le riforme ai saggi, i tagli alla spesa li fa il povero Carlo Cottarelli, le maledizioni sulle tasse se le becca Fabrizio Saccomanni, la difesa del triangolo istituzionale pesa tutta sulle spalle del vegliardo Giorgio Napolitano. Così il suo stare al governo è di sguincio, sofferto e costruito dietro le quinte della politica, come si usava nell’eterna Dc. I suoi silenzi, per esempio, non sono veri silenzi, e se non difende Stefano Fassina dall’arroganza mocciosetta di Renzi, se non spende che poche parole di circostanza per Annamaria Cancellieri nel caso Ligresti, se abbandona Fabrizio Saccomanni ai fescennini di Renato Brunetta, Letta esprime una sorta di neghittosità all’azione che non va tuttavia scambiata per abbandono o pigrizia. E’ al contrario il suo andreottiano talento, “tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia”; dunque non rischia, non si affaccia, non esercita, come quel personaggio di “Alto Gradimento”: scusi ma lei per chi ha votato? Mi sono tenuto sulle generali.

    Letta attraversa la strada con piedi di felpa, rimane a fil di terreno, un fosforo nomade d’occhi, un volatile zig zag, coltiva l’arte dell’essere contemporaneamente presente eppure assente, la manifestazione d’una ricchezza cromosomica che gli viene certo dal casato (è nipote di cotanto diplomatico zio), ma pure da un’avvolgente carriera fondata, sin dall’inizio, dagli albori con Andreatta, su una presenza scenica sempre, studiatamente vicaria e morbidamente, torpidamente trasversale. Diplomatico, spiega il vocabolario, è “chi tenga un eccessivo riserbo o si comporti con un’ostentata cautela”. E diceva già Don Chisciotte dei diplomatici della sua epoca: “Nella bocca chiusa non entrano le mosche”. Ed è così che Enrico Letta si difende, nessuna vibrazione ostile può mai turbarlo, e anche quando la sua voce si leva, sempre sembra fasciarla come un bavaglio di delicate sordine. E’ difeso da Napolitano, ma poco difende il Quirinale circondato com’è, l’anziano presidente della Repubblica, da Grillo e da Berlusconi, da Sallusti e da Travaglio, un gruppetto di nemici dall’aria intima e cooperativa. In queste occasioni Letta è specialista nel farsi più remoto, come distaccato e composto in una specie di eterea, impalpabile materia.

    La difesa dell’antropoide Alfano
    E così, nella distanza, ogni sua parola si disincarna e confonde con i più diversi rumori dell’agitata politica italiana. Non c’è da stupirsi che Renzi un po’ lo tema, questo leader al condizionale, epigono inconsapevole di un andreottismo cui non appartiene il futuro, privo di quell’elemento caustico e pungente che rendeva Andreotti una gigantesca e sapida sfinge. Eppure sembrerebbe facile segnare il gol e portare la vita dentro la maggioranza: un governo per la riforma elettorale ma soprattutto per rilanciare gli investimenti, sbloccare l’economia, ripartire con le opere pubbliche nelle città. E’ quello che vorrebbe Renzi, forse persino Napolitano, che ogni tanto – dicono – sbuffa pure lui. La studiata riluttanza del presidente del Consiglio li fa arrabbiare tutti: Renzi e Berlusconi e pure Napolitano. E non c’è società che possa stridere più di quella tra Letta e Renzi, fra l’uomo ciarlatano e pasquino e l’uomo ligio al vizio solitario del galleggiare. Stretto, si tiene soltanto il buon Alfano, quello che lui ha difeso di più (nel caso Shalabayeva), il vicepremier, l’ex predestinato del centrodestra che gli fa muro dalle birbanterie renziane con un franco sorriso pieno di denti, simile a un elegante antropoide svegliato a fatica.

    • Salvatore Merlo
    • Milano 1982, vicedirettore del Foglio. Cresciuto a Catania, liceo classico “Galileo” a Firenze, tre lauree a Siena e una parentesi universitaria in Inghilterra. Ho vinto alcuni dei principali premi giornalistici italiani, tra cui il Premiolino (2023) e il premio Biagio Agnes (2024) per la carta stampata. Giornalista parlamentare, responsabile del servizio politico e del sito web, lavoro al Foglio dal 2007. Ho scritto per Mondadori "Fummo giovani soltanto allora", la vita spericolata del giovane Indro Montanelli.