L'Italia dei malumori

Guido Vitiello

La sagoma di un riccio dal dorso irto di aculei, e sotto il frammento di Archiloco così caro a Isaiah Berlin: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Ecco come immagino lo stemma araldico del grande club dei monomaniaci, degli ossessionati, dei rimuginatori di un’idea fissa. Derideteli quanto volete, ma quando la “cosa grande” che sanno è una cosa che le volpi ignorano o tralasciano, c’è solo da esser grati alla loro ispida pertinacia. Il ramo del club a cui sono stato ammesso da novizio, quello degli ossessionati dalla giustizia, vanta tra i suoi decani Mauro Mellini, ed è precisamente la chiave giudiziaria a rendere prezioso il suo ultimo libro, “Gli arrabbiati d’Italia. Storia di una democrazia dei malumori” (Bonfirraro).

    La sagoma di un riccio dal dorso irto di aculei, e sotto il frammento di Archiloco così caro a Isaiah Berlin: “La volpe sa molte cose, ma il riccio ne sa una grande”. Ecco come immagino lo stemma araldico del grande club dei monomaniaci, degli ossessionati, dei rimuginatori di un’idea fissa. Derideteli quanto volete, ma quando la “cosa grande” che sanno è una cosa che le volpi ignorano o tralasciano, c’è solo da esser grati alla loro ispida pertinacia. Il ramo del club a cui sono stato ammesso da novizio, quello degli ossessionati dalla giustizia, vanta tra i suoi decani Mauro Mellini, ed è precisamente la chiave giudiziaria a rendere prezioso il suo ultimo libro, “Gli arrabbiati d’Italia. Storia di una democrazia dei malumori” (Bonfirraro). Mellini usa il richiamo agli “enragés” del padre Jacques Roux, rivoluzionari più fanatici perfino dei giacobini, per comporre una genealogia di quell’intreccio di ragioni, risentimenti e vaneggiamenti che abbiamo preso l’abitudine di chiamare, in mancanza di meglio, antipolitica.

    Il saggio ha il passo lungo dell’indagine storica, ma si tratta di storia vissuta, patita e ricordata più che ricostruita sulle carte: Mellini è del 1927, e fatte salve le incursioni in età risorgimentale o giolittiana, per le quali è un po’ troppo giovane, si può dire che le ondate antipolitiche che racconta le ha attraversate tutte: l’antiparlamentarismo fascista, il qualunquismo di Giannini, l’“antipolitica armata” del terrorismo, giù fino a Grillo e ai suoi professionisti dell’anticasta. Ma l’epoca su cui più si trattiene è l’ultimo ventennio, mettendo in evidenza una contraddizione sconcertante di cui i più si accontentano di prendere atto. Le cavallette dell’antipolitica, in stormi compatti e rumorosi, hanno devastato tutto il devastabile, parlamenti e governi, partiti e sindacati, banche e imprese, chiese e massonerie, farmacisti e tassisti; un solo bersaglio hanno voluto risparmiare, la magistratura. Perché?

    C’è una ragione, per così dire, genetica: la nuova ondata di antipolitica si annuncia con il tintinnar di manette e monetine dei primi anni Novanta, quando la magistratura – che fino ad allora, salvo eccezioni, aveva considerato i partiti come “extraterritoriali” e sottratti alla giurisdizione – diventa il braccio secolare dei malumori già esacerbati. Al punto che Mellini, con formula di cui per primo riconosce la forzatura, e che però andrebbe ben meditata, definisce gli indignati attuali come “la tifoseria organizzata e chiassosa del Partito dei Magistrati”. Tra i capovolgimenti paradossali che una volpe non coglie ma un riccio sì c’è anche questo: quella “extraterritorialità” che la magistratura riconosceva ai partiti sono oggi i partiti a riconoscerla alla magistratura (non c’è disegno di riforma, grande o piccolo, da cui l’ordine giudiziario non ottenga di essere preservato, e quasi non c’è partito che abbia la giustizia in cima alle priorità). In breve, e se non ci si lascia abbindolare da qualche chiassata, l’intangibilità della magistratura è il punto in cui, pur provenendo da strade opposte, politica e antipolitica si incontrano.

    Molte sono le vie (Mellini le ha descritte in altri libri) per le quali i magistrati sono arrivati ad accreditarsi come un corpo superiore alle miserie della vita nazionale ed estraneo al suo degrado, un corpo che – ha scritto tempo fa una illustre commentatrice di Repubblica in vena di prosa mussoliniana – “s’erge come torre eremitica, attorniata dal vasto deserto che è la politica”. Ma l’intreccio tra questa “metapolitica” giudiziaria e l’antipolitica, tra la plebe “enragée” e il Papato laico che veglia sui destini della nazione rimane il grande enigma italiano, tutto da sciogliere tanto nei suoi presupposti filosofico-politici quanto nei suoi modi concreti d’azione. Le volpi, a quanto sembra, hanno altro a cui pensare. Meno male che c’è in giro qualche vecchio riccio.