Evviva la matita

Andrea Affaticati

Da giovane non ne voleva proprio sapere di prendere in mano le redini dell'azienda. Anton Wolfgang aveva provato a opporsi in tutti i modi. Lui voleva occuparsi di cose ben più interessanti che di matite, colorate o meno che fossero. E se il padre pareva non capire, e insisteva che doveva essere proprio lui a succedergli, Toni, così lo chiamavano in famiglia, era sicuro che prima o poi il genitore si sarebbe arreso. Anche perché non gli aveva lasciato spiragli di speranza: si era messo a fare pure il modello per marchi di camicie da uomo, e una volta terminati gli studi in Giurisprudenza se n'era andato a New York, dove si era presto fatto strada a Wall Street e dintorni come abile investment banker.

    Da giovane non ne voleva proprio sapere di prendere in mano le redini dell’azienda. Anton Wolfgang aveva provato a opporsi in tutti i modi. Lui voleva occuparsi di cose ben più interessanti che di matite, colorate o meno che fossero. E se il padre pareva non capire, e insisteva che doveva essere proprio lui a succedergli, Toni, così lo chiamavano in famiglia, era sicuro che prima o poi il genitore si sarebbe arreso. Anche perché non gli aveva lasciato spiragli di speranza: si era messo a fare pure il modello per marchi di camicie da uomo, e una volta terminati gli studi in Giurisprudenza se n’era andato a New York, dove si era presto fatto strada a Wall Street e dintorni come abile investment banker. Già, ma Anton Wolfgang chi? Parliamo di Anton Wolfgang von Faber-Castell, noto anche come il barone delle matite, visto che, nonostante tutte le resistenze giovanili, da oltre trent’anni dirige l’omonima A. W. Faber-Castell. Un’impresa che a dispetto di tutte le nuove tecnologie, di computer, iPad e altro, continua a macinare profitti, ed è la più grande azienda produttrice al mondo di matite. Da giovane, Anton Wolfgang voleva probabilmente anche dire addio alla piccola cittadina di provincia, tradizionale e soffocante, lasciarsi insomma dietro le spalle Stein, 14 mila abitanti, a pochi chilometri da Norimberga.

    A Stein, però, è strettamente legata la storia familiare, da qui i Faber cominciarono l’irresistibile ascesa che avrebbe portato loro un’enorme fortuna economica e anche un titolo nobiliare. Tutto questo, però, al giovane Toni non pareva un motivo sufficiente per rinunciare alla sua sete di mondo e di modernità. Con questo, non è che la storia dell’impresa di famiglia, lunga due secoli, gli fosse poi indifferente. Da ragazzi, lui e il fratello Andreas frequentavano il collegio svizzero di Zuoz. Un giorno i compagni di scuola, adocchiate le loro matite di “produzione familiare”, per dispetto gliele avevano spezzate una a una. I ragazzi a quel punto avevano pensato bene di comperare matite di produzione locale, quelle della fabbrica svizzera Caran d’Ache. Peccato che il padre, venuto a trovarli e scoperta la scatola di colori della concorrenza, aveva a sua volta spezzato un colore dopo l’altro. A quel punto, imparata la lezione, i due baronetti Faber-Castell decisero di usare a scuola le matite svizzere mentre a casa tiravano fuori quelle di famiglia. Una volta alle superiori, poi, Anton Wolfgang teneva il padre al corrente di quel che faceva la concorrenza elvetica. Ma questo era anche il massimo contributo all’impresa di famiglia che si sentiva di dare. E poi, tra fratelli e fratellastri – il padre Roland si era sposato due volte – Toni, che era figlio di secondo letto, ne aveva ben nove. Insomma di eredi ce n’erano a sufficienza. Eppure, considerando anche i due nomi di battesimo che la madre volle dare a quel figlio venuto al mondo il 7 giugno 1941, si potrebbe dire che avesse il destino segnato.

    Kaspar Faber, il capostipite della dinastia, era nato nel 1730 e viveva a Stein, che già allora era, insieme con Norimberga, un importante centro di produzione delle matite. Kaspar le fabbricava innanzitutto per conto terzi. Alla sera però si metteva a farne anche in proprio. E doveva essere particolarmente abile, visto che, come narra la cronaca aziendale, alla sua morte nel 1784 lasciò al figlio un’attività ben avviata. Anton Wilhelm Faber, non meno dotato del padre, e con un approccio già molto imprenditoriale alla sua attività, aveva comperato un terreno, sempre a Stein, e vi aveva insediato la sua manifattura, che ancora oggi è il quartier generale dell’azienda. Un’azienda alla quale aveva dato anche il proprio nome A. W. Faber, dove A e W sono appunto le iniziali di Anton Wilhelm. (Qualcuno dice che la madre dell’attuale amministratore abbia scelto volutamente i nomi Anton e Wolfgang, perché si adattavano perfettamente al logo della famiglia. Vero, falso? Chi può dirlo).

    Kaspar, il capostipite, era solo un falegname. Ma basterà un secolo per vedere i Faber accedere al rango nobiliare. Il titolo di barone sarà conferito loro nel 1862, un anno dopo i festeggiamenti per il centenario. In quel momento è Lothar Faber, che rappresenta la quarta generazione, a guidare l’azienda e sarà il re Massimiliano di Baviera a dargli il titolo di barone. Era il riconoscimento anche per il particolare impegno sociale dimostrato da Lothar nei confronti delle sue maestranze, per le quali aveva fatto costruire case (che affittava loro a prezzi contingentati) e asili; garantiva a tutti l’assistenza sanitaria e aveva fatto in modo che i figli dei suoi operai potessero andare a scuola. L’ultimo cambiamento, quello del doppio cognome, avviene invece nel 1898. Siamo a quel punto alla sesta generazione, che però vede solo eredi donne. Lothar, persona lungimirante, aveva regolato per iscritto anche come comportarsi di fronte a tale eventualità. In questo caso era comunque l’erede donna a mantenere il proprio cognome al quale si aggiungeva quello del marito. E così fu per Ottilie, o meglio per il suo consorte, il barone Alexander von Castell-Rüdenhausen. I due dopo il matrimonio venivano annunciati come il barone e la baronessa von Faber-Castell.

    Ma torniamo ai giorni nostri, ad Anton Wolfgang. Anche se era andato prima a Londra e poi a New York, per farsi una posizione come investment banker, la morte improvvisa del padre nel 1978 lo spinse a lasciare gli Stati Uniti, che erano divenuti quasi la sua seconda patria (sia la prima che la seconda moglie sono americane), per tornare a casa, nell’assai più tranquilla Stein, e prendere in mano le redini dell’azienda. Con lui arrivava alla guida l’ottava generazione.

    Il barone allora aveva 37 anni, ma pur essendo totalmente privo di esperienza nella conduzione di un’azienda, aveva deciso di liquidare tutti i fratelli. Se doveva assumersi l’onere dell’impresa voleva anche gli onori oltre che ovviamente le responsabilità. E così aveva fatto il suo ingresso in azienda in veste di amministratore unico. All’inizio aveva cercato di controbilanciare la sua inesperienza con la voglia di innovazione, attento però sin da subito a non trascurare la qualità. Ai suoi collaboratori raccomandava: “Dobbiamo fare di tutto per distinguerci dalla produzione dozzinale”. E chissà se mentre pronunciava queste parole il giovane barone aveva in mente l’antenato Lothar, il suo bis-bisnonno. Questi infatti, quando aveva a suo tempo preso in mano la guida dell’azienda dopo la morte del padre avvenuta nel 1839, si era posto come obiettivo di diventare il produttore di matite numero uno al mondo. E voleva diventarlo perché, diceva fiero e convinto: “Sono io che produco le migliori matite al mondo!”.

    Il trisavolo sapeva però che per raggiungere quella meta ambiziosa bisognava investire. E così, prima aveva rinnovato e potenziato gli impianti, poi si era concentrato sulla materia prima. E lì la fortuna gli aveva dato una mano. Nel 1856 Lothar era riuscito ad assicurarsi il diritto esclusivo di sfruttamento di una miniera di grafite che si trovava nei pressi dei monti Altai, nella Siberia meridionale, fra Mongolia e Russia. Doveva l’affare a un francese, un cercatore d’oro che al posto del metallo prezioso aveva trovato il giacimento di grafite, e visto che la A. W. Faber già allora era una delle aziende leader nel settore, aveva proposto a Lothar Faber la collaborazione. Certo portare la grafite dalla Siberia a Norimberga era una vera e propria avventura. I pezzi di grafite venivano prima caricati sulle renne e portati fino al fiume Amur. Da lì poi, su chiatte, arrivavano a un porto sul mar del Giappone da cui, su navi mercantili, cominciavano la traversata degli oceani (Indiano e Atlantico, dopo aver doppiato il Capo di Buona Speranza) per arrivare alla fine al porto di Amburgo. Nonostante il percorso fosse faticoso e lungo da coprire, a quanto pare lo sforzo valeva la pena di essere compiuto: queste matite dall’anima siberiana ricoperte di pregiato legno della Florida erano richiestissime in tutto il mondo.

    L’orgoglio di fornire un prodotto esclusivo per qualità e materiali impiegati ha animato anche il barone Anton Wolfgang fin dai suoi primi passi in azienda. Certo, all’inizio gli errori sono stati molti. Nel 1978 c’erano già tutti i segnali di un cambiamento nel modo di lavorare in ufficio, e c’era chi addirittura profetizzava un luogo di lavoro senza più carta. Il barone si era circondato di esperti del marketing, i quali ogni giorno gli sottoponevano nuove idee, nuovi articoli, nuove visioni. E lui stesso a un certo punto si era fatto prendere da questa smania di rinnovamento, tanto da ordinare: “Basta con le matite classiche”. I risultati furono deludenti, i prodotti un vero flop: a cominciare dalle matite con le mine, che continuavano a spezzarsi, mentre le nuove tavole da disegno venivano inesorabilmente soppiantate dal computer.

    E’ allora che il barone capisce: se non vuole che l’azienda affondi, deve tornare alle origini: anche in tempi di strumenti di comunicazione tecnologicamente sempre più sofisticati, la matita, nera o colorata che sia, non scompare. Non può scomparire. Il perché è molto semplice: ci saranno sempre bambini che impareranno a scrivere, e per scrivere avranno bisogno anche di una matita. E ci saranno sempre bambini ai quali piace disegnare e colorare. Un piacere che peraltro li accomuna anche a molti adulti, soprattutto della terza età, per i quali è un gradevole passatempo. Per il barone, realizzare tutto questo è come tornare a casa una seconda volta, e questa volta definitivamente. In quel momento comprende che l’oggetto non dozzinale l’ha tra le mani: una matita con ben due secoli di storia sulle spalle. Forse era andato a rileggersi ancora una volta la storia dell’azienda, nella quale viene citato anche il pittore Max Liebermann per il quale le matite Faber-Castell erano le migliori. Non c’era bisogno di stravolgere nulla. A volte potevano bastare modifiche minime. Come la matita triangolare con i pallini antiscivolo: perfetta per i bambini di prima elementare. Oppure riesumare il vecchio logo, quello dei due cavalieri che si affrontano con in mano ognuno una matita. Oggi è di nuovo impresso sulle matite.

    Se la testa dell’impresa è rimasta a Stein, i centri produttivi oggi si trovano sparsi in tutti i continenti. L’espansione era iniziata già nella seconda metà dell’Ottocento. Una delle prime filiali della Faber fu aperta a New York nel 1861, l’anno del centenario. Lothar aveva chiamato a dirigerla il fratello Eberhard, che peraltro viveva già negli Stati Uniti. Ma Lothar era un tipo piuttosto autoritario, raccontano le cronache. I due fratelli ben presto si separano, la filiale newyorchese diventa indipendente e prende il nome di Eberhard Faber.

    Dopo New York, la Faber va alla conquista di Russia, Italia, Francia, Inghilterra e Spagna. Gli affari vanno a gonfie vele, finché l’inizio del Ventesimo secolo non vede l’Europa trasformarsi per due volte in un gigantesco campo di battaglia. Le fabbriche/filiali estere Faber-Castell vengono requisite. E ci vorranno molti anni dopo la fine della Seconda guerra mondiale perché l’espansione sui mercati esteri riguadagni slancio. La riacquisizione più importante avverrà nel 1967, quando la maggioranza delle quote della Lapis Johann Faber S. A. a São Carlos in Brasile (città che dista qualche centinaio di chilometri da São Paulo), requisita durante l’ultimo conflitto, torna in mano all’azienda di famiglia. Oggi il sito produttivo brasiliano è la più grande fabbrica di matite al mondo. Il legno utilizzato proviene da un’area boschiva di 10 mila ettari, di proprietà della Faber, che qui pianta pini a crescita rapida.

    Riconquistato il suo primato, la Faber-Castell può a buon diritto vantarsi di essere il più grande produttore al mondo di matite nere e colorate. Dalle sue fabbriche escono ogni anno 1,8 milioni di pezzi. Conta complessivamente quattordici siti produttivi, 5.800 dipendenti in tutto il mondo, e di questi 900 lavorano nella sede tedesca di Stein. Il fatturato annuale raggiunge i 590 milioni di euro. Cifre che smentiscono chi dava per morto questo antico strumento per scrivere e disegnare. Se un tempo era Max Liebermann a lodare la qualità dei prodotti A. W. Faber-Castell, oggi i suoi estimatori sono lo stilista Karl Lagerfeld, il disegnatore Guillermo Mordillo e il pittore Neo Rauch. Di Rauch, uno dei pittori dell’ex Ddr osannati soprattutto dagli americani, il barone è stato un collezionista della primissima ora. Probabile che a entusiasmarlo abbia contribuito una certa affinità di gusto. Per qualcuno le opere di Rauch rientrano nel realismo magico, per altri sono da ascrivere a uno stile neo conservatore. Una preferenza estetica, quella del neo conservatorismo, alla quale strada facendo si è convertito anche il barone. Non solo per il suo modo impeccabile di vestire (pochette compresa), ma anche per aver riportato agli antichi splendori il “Neues Schloss”, il castello nuovo, fatto costruire a suo tempo dai nonni Ottilie e Alexander, in uno stile che si potrebbe definire eclettico: un po’ Jugendstil, un po’ Luigi XVI. Fino all’avvento di Hitler, il Neues Schloss era la residenza della famiglia. Ma visto che il nonno Alexander si era rifiutato di iscriversi al partito, i nazisti, dopo aver requisito la fabbrica, si erano presi anche il castello e vi si erano installati.

    Finita la guerra, il castello venne usato dagli Alleati per accogliere la stampa mondiale che seguiva i processi ai criminali nazisti nella vicina Norimberga. Nel Neues Schloss risiede soprattutto la stampa americana, dunque vi abitano per un certo periodo anche Hemingway, Steinbeck, Dos Pasos. Chiuso anche quel capitolo, la famiglia non se la sentì più di abitarvi. Le sue stanze restano vuote, finché il barone Anton Wolfgang non ne scopre l’importanza dal punto di vista dell’immagine. Il prestigio che conferisce all’azienda una foto davanti al castello è una carta della quale dispongono in pochissimi. Una carta che si spera frutti però anche molto visto che fino a oggi sono stati investiti oltre quattro milioni di euro per il restauro: solo restaurare la grandiosa sala da ballo è costato una fortuna visti gli stucchi in platino e madreperla. Nella cappella si trova invece uno dei più grandi mosaici realizzati a cavallo tra il XIX e il XX secolo. E visto che le spese sono tante, il castello ha sempre più una funzione rappresentativa. Anche per politici di prima fila, come Wolfgang Schäuble che, ai tempi della prima Grosse Koalition, aveva convocato i ministri degli Interni dei Länder per la conferenza interregionale proprio nel Neues Schloss di Stein. Il barone Anton Wolfgang vive invece insieme alla seconda moglie e alle tre figlie, di cui due gemelle, nell’ex residenza estiva della famiglia. Un luogo molto amato da sua madre, grande estimatrice e collezionista delle opere del Bauhaus (il padre, invece, aveva una particolare predilezione per il pittore espressionista Alfred Kubin, a cui è dedicata tutta una stanza).

    Oggi il barone Anton Wolfgang ha 72 anni e secondo la tradizione di famiglia ha già individuato il suo successore. Sarà Charles, figlio di primo letto, che assicura alla dinastia la nona generazione. Insomma, nonostante la concorrenza del progresso tecnologico, i due cavalieri armati di matite continueranno a confrontarsi ancora per un po’.