Le meditate ragioni della flemma tedesca sull'Unione bancaria

Giovanni Boggero

Da due giorni a Bruxelles per trovare un’intesa sull’Unione bancaria, i ministri delle Finanze Ue ieri sera non sembravano aver trovato un’intesa definitiva in materia. Il negoziato continuerà, nella speranza di chiudere prima del Consiglio Ue del 19-20 dicembre. Come sottolineato nella mattinata di ieri dal tedesco Jörg Asmussen (Banca centrale europea), “sono stati fatti progressi, ma non mi aspetto che oggi si arrivi a un accordo e mi immagino che ci sarà un’altra riunione dell’Ecofin prima del 19 dicembre”.

    Berlino. Da due giorni a Bruxelles per trovare un’intesa sull’Unione bancaria, i ministri delle Finanze Ue ieri sera non sembravano aver trovato un’intesa definitiva in materia. Il negoziato continuerà, nella speranza di chiudere prima del Consiglio Ue del 19-20 dicembre. Come sottolineato nella mattinata di ieri dal tedesco Jörg Asmussen (Banca centrale europea), “sono stati fatti progressi, ma non mi aspetto che oggi si arrivi a un accordo e mi immagino che ci sarà un’altra riunione dell’Ecofin prima del 19 dicembre”. L’Unione bancaria – come ribadito ancora ieri da Mario Draghi, presidente della Bce – è uno dei pilastri della riforma istituzionale dell’Unione, resasi necessaria per i rischi che l’integrazione finanziaria in sede europea ha prodotto. Obiettivo comune degli stati membri è di trasferire alcune competenze tanto in materia di vigilanza, quanto in materia di ristrutturazione degli istituti di credito a livello sovranazionale. Il problema sta nel definire le regole comuni. La Germania spinge per una soluzione il più possibile intergovernativa, che non escluda cioè del tutto l’intervento delle autorità nazionali soprattutto nella fase di “risoluzione” o ristrutturazione di un istituto di credito in difficoltà. Berlino ha sempre chiesto che la vigilanza fosse limitata alle banche più grandi e che l’agenzia di ristrutturazione non fosse insediata presso la Commissione. Nel merito, poi, il governo federale insiste per un metodo di ristrutturazione fondato sul criterio del “bail in”, cioè sul coinvolgimento degli azionisti delle banche, poi degli obbligazionisti (e infine, forse, dei clienti più ricchi?) per fare fronte a eventuali perdite di capitale, e non sul ripianamento dei buchi da parte dei contribuenti. Questo criterio dovrebbe poter entrare in vigore già nel 2015, per Francia e Italia non prima del 2018. Pur consapevole del fatto che i dubbi degli investitori sulla solidità delle banche europee vadano dissipati al più presto, la Germania teme che l’Unione bancaria possa essere utilizzata come cavallo di Troia per redistribuire risorse verso i paesi mediterranei a scapito dei paesi nordici (“Transferunion”). Diversi osservatori tedeschi ritengono quindi l’Unione bancaria un progetto di medio-lungo periodo, da non potersi attuare frettolosamente.

    Di questo avviso è, per esempio, Claudia Buch, macroeconomista che dal maggio di quest’anno siede nel Consiglio dei cosiddetti “cinque saggi dell’economia”, organo consultivo del gabinetto di Angela Merkel. In una conversazione con il Foglio, la professoressa Buch spiega che l’Unione bancaria dovrà senz’altro poggiare su un’autorità di vigilanza comune, un’agenzia comune europea per la ristrutturazione degli istituti e dovrà avere regole comuni per la gestione delle crisi bancarie. “Quel che è chiaro – dice – è che le regole devono essere definite in maniera tale che non emergano incertezze con riguardo alla vigilanza e alla ristrutturazione delle banche”. Insomma, la lentezza nelle trattative sarebbe tutto sommato giustificata. Per quanto riguarda la vigilanza, secondo la Buch, andrebbero apportate correzioni alle norme già approvate per garantire la sua completa separazione, “istituzionale e personale”, dalla politica monetaria. “La vigilanza dovrà essere esercitata da esperti indipendenti.

    Visto che la fissazione dei tassi si riflette sui risultati di una banca e quindi sui suoi rischi, possono svilupparsi conflitti di interesse con la politica monetaria. Nel breve periodo si può accettare che la Bce assuma la vigilanza, ma nel lungo occorrono modifiche ai Trattati”. Palpabile è poi lo scetticismo della studiosa nei confronti della cosiddetta Asset quality review, la prima analisi sui bilanci che la Bce effettuerà da gennaio su circa centotrenta banche europee. A questo riguardo, la Buch suggerisce severità: “Ci troviamo attualmente in una fase molto delicata. Molte banche in Europa sono insufficientemente capitalizzate e hanno troppi crediti in sofferenza. Perché lo stress test della Banca centrale sia credibile, deve anche essere chiaro fin d’ora come si chiuderanno i buchi di capitale esistenti”. La Germania vuole cioè assicurare stabilità sui mercati finanziari, prima che la Bce incominci a spulciare nei conti. E come dovrebbe essere raggiunta questa stabilità? La professoressa Buch ha una proposta: “Se le risorse finanziarie per le ricapitalizzazioni non possono essere reperite sul mercato, le banche andranno ricapitalizzate con denaro pubblico. A questo proposito, i governi nazionali devono assumersi la responsabilità di mettere a disposizione fin d’ora i mezzi finanziari per le ricapitalizzazioni”. Ciò esclude insomma che a rimettere in sesto gli istituti di credito possa pensarci da sola l’Unione europea. Per la Buch, “va assolutamente evitata la messa in comune dei rischi che sono nati a livello nazionale. Ciò significa che tocca agli stati membri ristrutturare le proprie banche e, se del caso, chiudere quelle prive di un modello di sviluppo sostenibile”. In altre parole, porre un limite alla quantità di risorse di cui potrà godere il fondo – si parla di una capacità massima di 55 miliardi – come vuole fare il governo di Berlino, sarebbe doveroso. La liquidazione delle banche dovrà prioritariamente seguire il criterio del bail in. La possibilità che l’Esm (il Fondo salva stati) possa giocare un qualche ruolo, come ventilato nel recente contratto di coalizione tra Cdu/Csu e Spd, è rispedita al mittente: “L’Esm non è un’agenzia per la liquidazione o ristrutturazione delle banche, ma uno strumento anti crisi pensato per gli stati. Altrimenti si creerebbero incentivi sbagliati, per cui pagherebbe oggi la comunità per rischi creati in passato a livello nazionale”.

    Draghi e la via (sbagliata) fuori dalla crisi
    Infine, la professoressa Buch esprime perplessità circa la via sulla quale l’Eurozona si è incamminata per uscire dalla crisi. Circa un anno fa, il “consiglio dei cinque saggi” aveva presentato una proposta di fondo di riscatto, un surrogato di Eurobond che prevede la messa in comune dei debiti pubblici nazionali eccedenti il 60 per cento del pil. Oggi, secondo la Buch, il fondo non sarebbe più attuale, dal momento che si “è scelta una soluzione monetaria alla crisi”. Spiega l’economista: “L’idea dell’estinzione del debito non contemplava solo un fondo, ma anche un patto attraverso il quale assicurare che gli stati non sfruttassero i vantaggi di una comunione temporanea dei debiti, bensì adottassero pure una politica di bilancio adeguata. Oggi, con la scelta di utilizzare l’Omt (Outright monetary transactions) della Bce, non ha più senso attuare quel patto…”.