La rivoluzione dello shale è anche italiana. Le prospettive in Iran

Luigi De Biase

Due rivoluzioni parallele stanno cambiando i vecchi equilibri dell’energia. La prima viene con lo shale gas, il gas che si trova nei depositi d’argilla e trasformerà presto gli Stati Uniti nel primo produttore al mondo di petrolio e metano. E’ una rivoluzione rapida e potente e sorprende persino gli analisti più preparati, che sono costretti a rivedere di continuo le loro previsioni (prima si pensava che gli Stati Uniti avrebbero superato Russia e Arabia Saudita nella classifica dei produttori non prima del prossimo decennio, ora si parla del 2015, che è lontano soltanto tredici mesi).

    Due rivoluzioni parallele stanno cambiando i vecchi equilibri dell’energia. La prima viene con lo shale gas, il gas che si trova nei depositi d’argilla e trasformerà presto gli Stati Uniti nel primo produttore al mondo di petrolio e metano. E’ una rivoluzione rapida e potente e sorprende persino gli analisti più preparati, che sono costretti a rivedere di continuo le loro previsioni (prima si pensava che gli Stati Uniti avrebbero superato Russia e Arabia Saudita nella classifica dei produttori non prima del prossimo decennio, ora si parla del 2015, che è lontano soltanto tredici mesi). La seconda rivoluzione segue i consumi, e quelli si muovono dall’Europa verso oriente: oggi il primato spetta alla Cina anche se molti s’aspettano l’ascesa dell’India entro il 2020. Queste due grosse novità guideranno la strategia di Eni sui mercati internazionali, come ha detto ieri l’amministratore delegato, Paolo Scaroni, nella presentazione del World Energy Outlook 2013. Ora la forza di Eni è nei giacimenti dell’Africa, con il 60 per cento della produzione complessiva concentrato fra la Libia e la Nigeria, senza dimenticare le riserve scoperte negli ultimi mesi al largo del Mozambico (le riserve sono un fattore decisivo quando si tratta di bilanci e capitalizzazione).

    Ma si guarda verso l’Asia, verso paesi che possiedono risorse naturali e in molti casi offrono anche tassi di crescita sopra i livelli europei. Eni è già il primo produttore di idrocarburi in Pakistan, controlla un impianto per trattamento del gas a Bhit, nella provincia del Sind, e conta di investire 10 miliardi di dollari in tre progetti pilota per l’estrazione di shale. Il grosso del lavoro è a sud, nella zona di Karachi, uno dei porti più strategici dell’oceano Indiano: sempre lì, lo scorso maggio, i tecnici italiani hanno trovato gas naturale nel Blocco Sukhpur. Lungo le coste del Vietnam, nel Blocco 105, Eni ha individuato un giacimento di metano a 2.500 metri di profondità. Si aspettano buone notizie dall’Indonesia, un paese che faceva parte dell’Opec, che ha lasciato il cartello nel 2009 e ora potrebbe fornire un nuovo contributo ai mercati con i blocchi esplorativi Argun I e North Ganal. In Cina c’è un accordo per sviluppare risorse non convenzionali (ancora shale gas) su un’area larga duemila chilometri quadrati nella provincia del Sichuan. E si arriva sino al Myanmar, un mercato che lo stesso Scaroni giudica “molto promettente” (Eni si è già aggiudicata due licenze per l’esplorazione sulla terra ferma). Pakistan, Myanmar, Vietnam, Indonesia e Cina sono l’ultima frontiera, la nuova gamba per lo sviluppo di Eni nei prossimi anni. Questa missione ha diversi punti in comune con quella che gli italiani del petrolio hanno affrontato in Africa, a partire dall’accesso alle risorse energetiche (in alcuni di questi paesi, oltre il 60 per cento della popolazione non ha la luce elettrica), e proprio in queste terre può emergere nuovamente lo “spirito matteiano” dell’Eni.

    Poi viene l’Iran. Eni ha dovuto fermare le sue attività nel paese dopo le sanzioni dell’Onu, degli Stati Uniti e dell’Unione europea contro il programma nucleare della Repubblica islamica, ma gli accordi delle ultime settimane hanno riaperto le prospettive di collaborazione per molte compagnie petrolifere. “Noi non abbiamo mai abbandonato l’Iran – dice Scaroni – Abbiamo sempre tenuto il nostro ufficio aperto, siamo sempre stati presenti, autorizzati dagli Stati Uniti e dall’Ue, in sostanza dalla comunità internazionale. Aver mantenuto una presenza in questi anni ci darà una leva maggiore rispetto ad altri per ricominciare a crescere”. Sui tempi non si fanno ancora previsioni, e si aspettano notizie più chiare dalle cancellerie che lavorano alle trattative. “Le sanzioni non sono cadute – commenta l’ad – E’ stato fatto un primo passo e penso che questo primo passo ne preveda altri nel futuro, piuttosto a breve”.