Il morto era vivo

Guido Vitiello

Far pace con l’idea che siamo cugini degli scimpanzé è difficile, ma mai quanto ammettere di aver vissuto in un paese i cui destini sono stati appesi per anni a un magistrato che, alla domanda su cosa sia l’errore giudiziario, risponde così: “Io accuso lei di omicidio e il ‘morto’ è vivo. Questo è un errore giudiziario”. Definizione alquanto restrittiva, da cui si deduce che l’ultimo infortunio risale agli anni Cinquanta del secolo scorso: il caso di Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per aver ucciso il fratello che però – sorpresa! – era vivo e pimpante.

    Far pace con l’idea che siamo cugini degli scimpanzé è difficile, ma mai quanto ammettere di aver vissuto in un paese i cui destini sono stati appesi per anni a un magistrato che, alla domanda su cosa sia l’errore giudiziario, risponde così: “Io accuso lei di omicidio e il ‘morto’ è vivo. Questo è un errore giudiziario”. Definizione alquanto restrittiva, da cui si deduce che l’ultimo infortunio risale agli anni Cinquanta del secolo scorso: il caso di Salvatore Gallo, condannato all’ergastolo per aver ucciso il fratello che però – sorpresa! – era vivo e pimpante. E va bene che Di Pietro, cugino anch’egli degli scimpanzé, non ha troppa dimestichezza con i rami della scienza giuridica; ma la riluttanza a riconoscere la possibilità stessa dell’errore, se non come ipotesi di scuola, è confermata da esemplari più evoluti della specie togata.

    Prendiamo Bruno Tinti, l’ex magistrato con il papillon che scrive sul Fatto di Travaglio (a quanto pare, lo stile del buon montanelliano impone che ci si accompagni a un dandy in cravattino facente funzioni Gervaso). Tinti era ospite martedì sera da Telese per un dibattito sul caso Tortora, dove ha lasciato tutti con un palmo di naso dicendo che sì, “forse fu un errore”. Forse, si badi: perché i gradi di giudizio sono tanti, e solo per convenzione crediamo che l’ultimo sia quello buono. Sentenza e giustizia non è detto coincidano, e magari avevano ragione i giudici di primo grado, chissà; ma già che in questo gioco di società la regola è attenersi all’ultima sentenza, Tortora non era un camorrista. Non si trattava di épater le bourgeois o scatenare ad arte una zuffa: Tinti ci crede sul serio, e oltretutto per una sera non si era messo il cravattino. Ci crede al punto che ne ha fatto un pezzo di repertorio: le stesse cose aveva scritto la mattina sul Fatto, aggiungendo che accettate queste premesse lo sdegno per il caso Tortora è “irragionevole”; le stesse cose aveva detto in un convegno del 2008, usando termini se possibile più sgradevoli.

    Sorvolando sulla goffa malizia del retore, che per illustrare una tesi generale sceglie un esempio così irritante da deviare fatalmente l’attenzione sul particolare, l’idea è chiara: purché la procedura sia rispettata, di errore non si può parlare; l’errore d’altro canto va accertato per vie giudiziarie, ed eccoci rimessi sulle caselle dello stesso gioco. Vogliamo buttare all’aria il tabellone? Facciamolo, pena ripiombare nella legge della giungla, tra gli scimpanzé. Posizione un po’ ruvida che avrà, non ne dubito, le sue basi dottrinarie, e che al profano incute un certo timore filosofico, se per filosofia intendiamo: un sistema internamente coerente fondato su un presupposto delirante, arbitrario o estraneo al senso comune. A voler fare il verso a Heidegger, diremmo che questa metafisica del processo si fonda su un radicale oblio, che però non è l’oblio dell’Essere, è più banalmente l’oblio dell’imputato. Perché per l’imputato empirico – che vive nel tempo, invecchia e muore – l’andirivieni nel gioco dell’oca procedurale può significare anni di vita andati in malora (magari in cella), notti insonni, fortune dilapidate, amicizie spezzate, salute compromessa.

    E’ istruttivo stare ad ascoltare Tinti, perché esprime in modo brioso, spavaldo, sgargiante come il suo cravattino, una mentalità serpeggiante tra i magistrati in modi di solito più oscuri e impercepiti. Aggiungo: la mentalità che è il presupposto stesso del “fare testuggine” della corporazione contro il mondo di fuori, diceva Dante Troisi, e del suo esporsi di malavoglia allo sguardo e al giudizio dei profani. Avrò letto, per mio vizio impunito, decine di libri di magistrati, tra pamphlet, romanzi e confessioni; non abbastanza da tirarne leggi generali, ma quel tanto da stupirmi di una ricorrente lacuna nel campo visivo, una regione che resta in ombra come per effetto di una degenerazione della retina: la regione dove abita l’imputato. Che per farlo notare si debba mettere addosso anche a lui una toga, come proponeva Troisi?

    Forse sì. Perché l’imputato è il solo ad avvertire un’eco mostruosa in quella frase che ripetiamo ogni giorno distrattamente, e che dovrebbe farci tremare: la giustizia deve fare il suo corso.