L'assemblea dei vescovi elegge il conservatore Kurtz come nuovo presidente

Il disagio della chiesa americana nella periferia di Francesco

Domenica il New York Times ha dedicato un reportage da prima pagina a quello che il vaticanista americano John Allen aveva definito, con espressione efficace, la “questione del figlio maggiore”. Il figlio maggiore è quello che non ha sperperato la sua parte di eredità con le donne e il vino, non ha lasciato la casa paterna, non ha mai smesso di lavorare nei campi e dal padre non ha ottenuto nemmeno un capretto per festeggiare con gli amici.

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    New York. Domenica il New York Times ha dedicato un reportage da prima pagina a quello che il vaticanista americano John Allen aveva definito, con espressione efficace, la “questione del figlio maggiore”. Il figlio maggiore è quello che non ha sperperato la sua parte di eredità con le donne e il vino, non ha lasciato la casa paterna, non ha mai smesso di lavorare nei campi e dal padre non ha ottenuto nemmeno un capretto per festeggiare con gli amici. Al prodigo, invece, tocca il vitello grasso e l’anello al dito. Nell’analogia con il mondo cattolico il figlio maggiore rappresenta la sensibilità più tradizionalista della chiesa, che cova un disagio più o meno esplicito nei confronti di Francesco e delle sue dialoganti aperture nei confronti del mondo, una pastorale che si fa muscolare quando si tratta del recupero delle pecorelle smarrite e quasi non posa lo sguardo su quelle che dal gregge non si sono mai mosse. Anche lo schema linguistico della periferia come dimensione privilegiata dell’evangelizzazione coglie il disagio che il New York Times – quotidiano che non si fa pregare quando si tratta di mettere il dito nelle piaghe conservatrici, ecclesiali e non – intercetta puntualmente.

    I passaggi del dialogo di Francesco con Scalfari sulla coscienza, sull’idea “relativa” del bene e del male, la dismissione del proselitismo come “assurdità” e il riposizionamento dei valori non negoziabili come bagaglio ovvio della dottrina cattolica, che non richiede dunque ulteriori specificazioni né ossessioni, hanno generato un alone di perplessità in un cattolicesimo americano tradizionalmente polarizzato e che – almeno in una sua parte – ha organizzato la propria presenza pubblica attorno alla militanza in difesa della vita e dei modelli sociali contestati dall’offensiva della secolarizzazione. Alcuni vescovi, fra cui Raymond Leo Burke e Charles Chaput, hanno fatto affiorare le divergenze con un Papa che sembra svilire quell’aspetto militante che è stato decisivo per la chiesa americana degli ultimi decenni. Una delle poche battaglie pubbliche che ha ricongiunto il composito fronte del cattolicesimo americano è stata, ad esempio, quella sulle linee guida dell’Obamacare: i vescovi si sono mossi in formazione a testuggine per contrastare l’obbligo, anche per gli istituti religiosi, di offrire contraccettivi e farmaci abortivi nei piani assicurativi, una battaglia per la libertà religiosa che ha coinvolto l’intero spettro delle sensibilità cattoliche. Per individuare il cambio di vento basta osservare il voto che la settimana scorsa ha aperto la strada al matrimonio gay nell’Illinois. Due deputati cattolici hanno usato le parole di Francesco per giustificare il loro voto a favore: “Su quelli che sono gay, e vivono relazioni produttive, armoniose e tuttavia illegali, chi sono io per giudicare?” ha detto lo speaker della Camera, Michael Madigan. Senza arrivare alle visioni mistiche di Catherine Emmerich sul doppio Papa come segno della falsa chiesa che avanza, diversi commentatori cattolici americani criticano in modo pugnace concezione, stile e ambiguità di Francesco. Delle dichiarazioni più controverse del Papa, il columnist Steve Skojec ha scritto: “Sono esplicitamente eretiche? No. Sono pericolosamente vicine all’eresia? Certamente”. 

    La questione del figlio maggiore si riflette anche nell’assemblea della Conferenza episcopale americana che si è aperta ieri a Baltimore e ha visto l'elezione a nuovo capo di Joseph Kurtz, arcivescovo di Louisville. I vescovi dovevano eleggere il successore del cardinale Timothy Dolan, incarnazione della corrente dei cosiddetti conservatori aperti al mondo. Dolan ha rifiutato tanto il ripiegamento della chiesa nelle sagrestie quanto la compromissione con il paradigma montante del laicismo, guadagnando l’appoggio caloroso di Benedetto XVI e la berretta cardinalizia.

    Alla luce della discontinuità, almeno stilistica, di Francesco, l’assemblea di Baltimore si è trasformata dunque in una riflessione intorno all’identità del cattolicesimo americano, sospesa fra rupture francescana e status quo militante. Un insider della conferenza episcopale ha spiegato al National Catholic Reporter che la chiesa americana deve decidere se “continuare a essere definita da ciò a cui si oppone” o indossare un abito adatto alle dialoganti periferie di Francesco. Il nome di Kurtz, conservatore pragmatico, è in continuità con Dolan: un uomo che può tenere insieme i due mondi, un buon padre per figli prodighi e non.

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