Lager Gomorra

Guido Vitiello

Per diventare cuoco ad Auschwitz devi saper tirare di boxe, spiegò a Primo Levi un medico ungherese dopo l’arrivo nel campo, perché ti capita di dover stendere a pugni chi allunga le mani sui viveri. Chissà, dopo un tale apprendistato, come Levi avrebbe schivato il micidiale uno-due che gli è piovuto addosso in questi giorni. Prima Gad Lerner che gli mette in bocca l’espressione “razza ebraica”, un colpo sotto la cintola di quelli che l’arbitro dovrebbe espellerti da tutti i ring del regno; poi l’abbraccio di un pugile più leale, Roberto Saviano – ma un abbraccio nella boxe è insidioso, serve a impacciare i movimenti dell’avversario.

    Per diventare cuoco ad Auschwitz devi saper tirare di boxe, spiegò a Primo Levi un medico ungherese dopo l’arrivo nel campo, perché ti capita di dover stendere a pugni chi allunga le mani sui viveri. Chissà, dopo un tale apprendistato, come Levi avrebbe schivato il micidiale uno-due che gli è piovuto addosso in questi giorni. Prima Gad Lerner che gli mette in bocca l’espressione “razza ebraica”, un colpo sotto la cintola di quelli che l’arbitro dovrebbe espellerti da tutti i ring del regno; poi l’abbraccio di un pugile più leale, Roberto Saviano – ma un abbraccio nella boxe è insidioso, serve a impacciare i movimenti dell’avversario. L’occasione è l’audiolibro di “Se questo è un uomo” letto da Saviano, di cui Repubblica ha anticipato, il 6 novembre, uno stralcio dell’introduzione. Prendiamone una frase, una citazione di Philip Roth su Levi: “Dopo averlo letto non puoi più dire di non esserci stato ad Auschwitz. Non vieni soltanto a conoscenza di quello che è successo, ma sei lì”. Davvero Roth disse questa frase? Lo stesso Saviano ne dubita, tanto che confessò a Enzo Biagi di crederla una leggenda. Ma è una leggenda che gli è cara, e che ama ripetere spesso, anche in una variante estrema (non si può dire “di non essere stati in fila fuori da una camera a gas”). E non c’è da stupirsene, già che questo Roth dal suono apocrifo sembra tagliato su misura per la retorica della testimonianza dell’autore di “Gomorra”: l’idea cristologica dello scrittore che si cala negli inferi con tutti e cinque i sensi e ne emerge per donare ai lettori la “presenza reale” della parola.

    Una concezione della letteratura che è eucaristica ma prima ancora cannibalesca, e il cui primo gesto consiste nel divorare i propri modelli. Saviano ne ha trangugiati molti, da Salamov alla Politkovskaja, omaggiandoli di volta in volta come maestri, angeli custodi o amici invisibili, ma di fatto il suo apparato digerente li ha trasformati in altrettanti cloni di Roberto Saviano. Lo stesso fa con Primo Levi (“le pagine sono divenute carne propria”) e se non arriva all’insolenza dell’immedesimazione, è lì che punta: le terre di mafia come Auschwitz, i critici di “Gomorra” come gli ascoltatori increduli dell’incubo di Levi, la comune “tecnica narrativa a metà tra il reportage e la scelta di mettere dentro le sue pagine molto di sé” (e qui sì, dovrebbe intervenire l’arbitro). Ma non è di Saviano, di cui tutto s’è già detto, che mette conto parlare, bensì dei rischi di una “savianizzazione” della memoria della Shoah, ossia del modello “Gomorra” applicato ad Auschwitz, ora che lo scrittore fa propria, da ventriloquo, la voce di Levi. Fino alla pretesa impudente che la potenza della letteratura possa non solo farci conoscere scampoli del lager, ma riportarci lì, addirittura metterci “in fila fuori da una camera a gas”.

    Nulla di più lontano dalla modestia e dal riserbo scettico di Levi, che sempre ribadiva di essere testimone incompiuto (era sopravvissuto, non aveva “visto la Gorgona”); ma nulla di più vicino a una sensibilità sempre più diffusa, a cui Gary Weissman dedicò anni fa un libro memorabile, “Fantasies of Witnessing” (Cornell University Press). Via via che la Shoah si allontana nel tempo, diceva Weissman, si acuisce il desiderio inconfessato di riviverla, di percepirne l’orrore, di conoscere che cosa volesse dire trovarsi lì. Un desiderio che ispira “fantasie di testimonianza” in forma di romanzo o di film, tentativi illusori di mettersi nella posizione del testimone, annullando la distanza con il passato. Saviano si candida a essere l’emblema italiano di questa chimera, da cui per paradosso proprio l’illuminismo di Levi, così diverso dalla mistica della testimonianza di un Elie Wiesel, ci aveva messi al riparo.

    E allora dovremo rileggere “Se questo è un uomo”, sì, ma per ricordarci che non siamo stati ad Auschwitz. Che abbiamo mancato, diceva George Steiner, il rendez-vous con l’inferno. Non ci sono stato io, non c’è stato Saviano, e neppure i figli di Berlusconi.