Il passo dei fagiani

Alessandro Giuli

Guarda tu se bisogna ritrovarsi a difendere Gianfranco Fini, l’ex presidente della Camera riapparso in superficie dopo l’esilio post elettorale, adesso anche autore di un libro sul “Ventennio” del Cav. (Rcs, tendenza Paolo Mieli) che lo costringe a un nomadismo televisivo nel quale può mettere in mostra nuovi capelli – biondi a zazzera, una cosa a metà tra Andrea Ronchi e un transgender – e antichi rancori antiberlusconiani.

    Guarda tu se bisogna ritrovarsi a difendere Gianfranco Fini, l’ex presidente della Camera riapparso in superficie dopo l’esilio post elettorale, adesso anche autore di un libro sul “Ventennio” del Cav. (Rcs, tendenza Paolo Mieli) che lo costringe a un nomadismo televisivo nel quale può mettere in mostra nuovi capelli – biondi a zazzera, una cosa a metà tra Andrea Ronchi e un transgender – e antichi rancori antiberlusconiani.

    Dice: come fai a difendere uno così? Basta leggere quel che oggi vanno espettorando su di lui gli ex colonnelli e caporali di Alleanza nazionale. Non tutti, non sempre, ma è comunque troppo per non rovinarsi la cattiva reputazione andando in soccorso della verità. Ultimi della lista sono Adolfo Urso e Mauro Mazza: il primo è l’anodino papaverello del tempo che fu, già tenutario d’una corrente concepita in laboratorio da Fini per mantenere in equilibrio le tensioni tra le componenti rivali di Ignazio La Russa&Maurizio Gasparri e Gianni Alemanno&Francesco Storace; il secondo è l’attuale impiegato Rai precipitato da Fini prima al tg di Raidue e poi alla direzione di Raiuno (adesso boh). E già questo aiuta a inquadrare i personaggi: fedelissimi del capo secondo le cronache, carne da catacomba nera risciacquata nello stagno del tatarellismo (da Pinuccio Tatarella, al confronto con loro un genio) secondo gli antipatizzanti più affezionati. I due hanno appena pubblicato da Castelvecchi un libro con un sottotitolo banalmente pomposo, “la parabola della destra italiana raccontata dai suoi protagonisti”, e un titolo che è tutto dire: “Vent’anni e una notte”, esplicito calco negativo del più noto “Vent’anni e un giorno” scritto da Giuseppe Bottai all’indomani della catastrofe bellica. Non stupisce che la limatura di ferro dei post fascisti sia così attirata dal magnetismo del ministro mussoliniano che ordì, con Dino Grandi, il Gran Consiglio del luglio 1943, lui che fu direttore del periodico più influente del Ventennio (quello vero): Critica fascista. Colpisce semmai la dismisura dei sedicenti epigoni: Bottai espiò (l’esser stato fascista o l’aver tradito Mussolini, fate voi) arruolandosi nella Legione straniera. Urso e Mazza? Accanto all’ex delfino di Giorgio Almirante “ne hanno fatta di strada”, volendo citare una delle più abbaglianti formule narrative del Tg2 finiano che accompagnava un servizio sulla Vespa Piaggio, ma di punto in bianco hanno scoperto che negli ultimi dieci anni Fini è diventato un laicista amletico insopportabilmente incline alle raccomandazioni televisive familistiche (così svela Mazza, esasperato dal clan Tulliani); ovvero un narcisista ingrato che s’è sbarazzato della sua classe dirigente e ha tradito un po’ tutti, elettori e vecchi camerati: “Da salvatore a traditore della patria il passo è molto breve”, sentenziava ieri Urso sul Giornale.

    E’ così che i ragazzi del Secolo d’Italia ripagano la polizza sulla carriera politica e aziendale assicurata loro dal Bottai di Val Cannuta? Dopo aver calcato l’ombra finiana negli anni della prima, grassa abbuffata berlusconiana, dopo aver cullato Fini nella sua zoppa e zigzagante fuga dalla casa del padre (da Fiuggi ’95 in poi), dopo aver condiviso a vario grado la scommessa personalistica del “che fai mi cacci?” durante i mesi dell’ebbrezza chiamata FareFuturo, eccoli in armi contro un passato non più remoto da aggiustarsi alla meno peggio. Le oche non marciano più da tempo, ma nella dirittura secca e assertiva di certi ex finiani si riconosce subito il passo del fagiano. Pennuto che non conosce il volo.