Letta, non ci provare

Claudio Cerasa

A giudicare dalle dure e inflessibili dichiarazioni consegnate alla stampa dai massimi esponenti del Pd il giorno dopo il “successo” ottenuto il due ottobre in Senato dalla coppia del gol Enrico Letta e Angelino Alfano, il progetto di deberlusconizzare la grande coalizione, di mettere un punto sul ventennio del Caimano e di offrire agli storici una data utile per certificare la nascita di una destra buona assomiglia più a un clamoroso flop che a un formidabile miracolo. “Se non si spaccano a destra – aveva ammonito, severo, il ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini – sarà stata solo finzione”.

    A giudicare dalle dure e inflessibili dichiarazioni consegnate alla stampa dai massimi esponenti del Pd il giorno dopo il “successo” ottenuto il due ottobre in Senato dalla coppia del gol Enrico Letta e Angelino Alfano, il progetto di deberlusconizzare la grande coalizione, di mettere un punto sul ventennio del Caimano e di offrire agli storici una data utile per certificare la nascita di una destra buona assomiglia più a un clamoroso flop che a un formidabile miracolo. “Se non si spaccano a destra – aveva ammonito, severo, il ministro dei Rapporti con il Parlamento Dario Franceschini – sarà stata solo finzione”. “Se Alfano non dovesse riuscire a fare gruppi nuovi – aveva avvertito, con fermezza, il segretario del Pd Guglielmo Epifani – ci sarebbero più condizionamenti e per il governo sarebbe più difficile andare avanti”. Due settimane dopo, come è noto, il Pdl mostra di non avere più intenzione di creare, almeno al Senato, i famosi due gruppi autonomi. E a Largo del Nazareno, sede del Pd, se gli ultra governisti democratici rileggono con imbarazzo le dure e inflessibili parole di alcuni importanti esponenti del Pd, i diversamente lettiani invece intravedono in questa sconfitta una grande opportunità per lo stesso Pd. Il senso della questione è semplice: niente gruppi autonomi uguale Pdl ancora in ostaggio di Berlusconi uguale governo meno solido uguale maggioranza più fragile uguale più margine d’azione per evitare che le larghe intese abbiano una vita troppo lunga. Rosy Bindi, ex presidente del Partito democratico, prodiana, non allineata con il governo e a suo modo sentinella del bipolarismo, sintetizza così la questione al Foglio. “E’ vero. Nel nostro partito c’è stato qualcuno che ha tifato per uno spacchettamento del Pdl. A mio avviso tifare per una soluzione del genere è grave e inopportuno. E denota una certa nostalgia da parte di un pezzo della nostra sinistra per i vecchi e nuovi progetti neocentristi dalla quale mi auguro che Enrico Letta, prima o poi, prenda le distanze come sarebbe opportuno”. In che senso? Bindi prosegue così il suo ragionamento.

    “Inutile prendersi in giro – dice l’ex presidente del Pd, oggi candidato al ruolo di numero uno della commissione Antimafia – perché il Pd, se non vuole diventare il Pds, dovrebbe gioire per il fallimento dell’operazione spacchettamento. Qui non si tratta di entrare nel merito delle vicende che riguardano un altro partito. Significa guardare in faccia la realtà. E la realtà ci dice che se dovessero nascere due gruppi separati, se il Pdl dovesse dividersi, aumenterebbe esponenzialmente un rischio: quello di incoraggiare un domani la nascita di una formazione d’ispirazione neocentrista”. Il presidente del Consiglio, in realtà, ha sempre indicato un orizzonte politico diverso e ha sempre individuato nella grande coalizione uno strumento utile a rafforzare e migliorare le identità dei due azionisti di maggioranza. Nonostante le rassicurazioni di Letta è però un fatto che il tema del bipolarismo, impugnato non a caso a gran voce sabato scorso a Bari da Renzi, diventerà sempre più un collante intorno al quale si andrà a configurare nel Pd una sorta di opposizione silenziosa al governo Letta. Un’opposizione che, dice ancora Bindi, può essere disinnescata solo in un modo. “Per non essere sospettabile di istinti neocentristi – dice Bindi tornando su un tema affrontato anche lunedì sera a Otto e Mezzo – Letta non solo non deve più invocare la nascita di gruppi autonomi nel Pdl ma deve anche smettere di tergiversare intorno al tema della legge elettorale. Non è pensabile che si dica: la riforma elettorale va fatta alla fine di un percorso di riforme istituzionali. Va fatta subito. Va fatta prima del tre dicembre, quando la Consulta si esprimerà sulla costituzionalità del porcellum. E francamente aspettare ancora potrebbe fornire alibi a tutti coloro che pensano che non fare la legge elettorale sia solo un modo per allontanare il voto. Non funziona così. E prima o poi qualcuno dovrebbe dire che il governo non si protegge spaccando gli avversari, uccidendo il bipolarismo e rinviando la legge elettorale”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.