Friedländer, il porcile delle pulsioni di Kafka e l'uso improprio di Freud

Guido Vitiello

Non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra: precetto inappuntabile, se non fosse che spesso la sinistra non è che la destra vista allo specchio. Vale anche per i libri e per i loro autori. Con la mano destra Saul Friedländer ha scritto opere come “Nazi Germany and the Jews”, guadagnandosi la reputazione di grande e originale storico della Shoah; con la sinistra, trent’anni fa, licenziò un pamphlet straordinario e quasi dimenticato, “Réflets du nazisme”, dove frugava tra i film e i romanzi degli anni Settanta che avevano estratto dal nazismo il veleno di un kitsch erotico e mortuario.

    Non sappia la tua sinistra quel che fa la tua destra: precetto inappuntabile, se non fosse che spesso la sinistra non è che la destra vista allo specchio. Vale anche per i libri e per i loro autori. Con la mano destra Saul Friedländer ha scritto opere come “Nazi Germany and the Jews”, guadagnandosi la reputazione di grande e originale storico della Shoah; con la sinistra, trent’anni fa, licenziò un pamphlet straordinario e quasi dimenticato, “Réflets du nazisme”, dove frugava tra i film e i romanzi degli anni Settanta che avevano estratto dal nazismo il veleno di un kitsch erotico e mortuario. Con la destra ha scritto un libro teorico sulle possibilità e i limiti della psicostoria, “Histoire et psychanalyse”, o ha studiato il rapporto dei tedeschi con il passato battendo su due concetti, la colpa e la vergogna (“Memory, History and the Extermination of the Jews of Europe”); oggi, con la sinistra, pubblica una biografia di Franz Kafka che è a conti fatti un piccolo ritratto psicostorico, e dove riappaiono, come in uno specchio, quelle due parole: vergogna e colpa.

    “Franz Kafka: the Poet of Shame and Guilt” (Yale University Press), a lungo annunciato dall’autore, ricorda, più di ogni altro libro di Friedländer, “Il giovane Lutero” di E. H. Erikson, il classico per eccellenza della psicostoria biografica. Ha per materia prima i diari e le lettere di Kafka, specie le parti espunte da Max Brod, che voleva accreditare dell’amico l’immagine di un santo. “Sono sporco, Milena, infinitamente sporco, perciò faccio tanto chiasso sulla purezza”, scriveva Kafka nell’agosto del 1920. Rileggendo i diari, Friedländer suppone che questo sentimento di colpa e di vergogna fosse non tanto il riverbero interiore di atti compiuti nella realtà quanto il salario di immaginazioni erotiche avvertite come distruttrici: intricate fantasie sadomasochistiche di tortura e squartamento, persistenti tentazioni omosessuali, ossessioni rivolte all’infanzia (“Felice piccolo B., in tutta la sua innocenza in qualche modo velata dai miei fantasmi”). Come era da aspettarsi, Friedländer ricorre molto alla psicoanalisi. Lo fa da par suo, certo, eppure si resta con l’impressione che il linguaggio freudiano sia qui un repertorio di metafore che si sovrappongono ad altre metafore più potenti, quelle kafkiane, nell’illusione di spiegarle e illuminarle. Via, ne sappiamo davvero di più su Kafka se diciamo che il porcile del racconto “Un medico di campagna” è un’immagine dell’inconscio?

    Le pagine più felici sono quelle in cui Friedländer esplora le “vite parallele” di Kafka e di Kierkegaard, entrambi sovrastati da un padre trasfigurato in figura mitologica, entrambi costretti a sacrificare a questo idolo vorace la possibilità dell’amore e del matrimonio. Kafka lesse il filosofo danese per tutta una vita, sebbene in modo intermittente, e per primo riconobbe la vicinanza delle due vicende (“Il suo caso”, scrisse commentandone i diari, “malgrado differenze essenziali, è molto simile al mio, almeno siamo dallo stesso lato del mondo”). Ed è proprio riflettendo sul paragone con Kierkegaard che si è tentati, una volta richiuso il libro, di capovolgere il gioco di Friedländer, e di riabilitare per altre vie l’immagine di un Kafka oscuramente vicino alla santità. Perché bisogna essere davvero molto nevrotici, nevrotici nel senso freudiano, per avvertire in tutta la sua forza e il suo peso intollerabile la colpa connaturata all’essere al mondo (Franz Kafka, scrisse una volta George Steiner, “visse il peccato originale”); ma bisogna essere altrettanto lucidi, spiritualmente lucidi, per diradare i fantasmi tutti individuali della nevrosi e dare di quella percezione un’immagine limpida, esatta, universale, teologica, da cartella clinica dell’umanità.
    Kafka ebbe più di ogni altro questa lucidità e questo discernimento degli spiriti, perché ricacciarlo a forza nel porcile delle sue pulsioni?