Elefanti tra le porcellane, i giudici spaccano la manifattura

Alberto Brambilla

Le conseguenze indesiderate dei provvedimenti giudiziari, sequestri preventivi e sentenze, a carico delle industrie cardine del comparto manifatturiero italiano, l’Ilva e la Fiat, rischiano ora di comportare risvolti drammatici per l’economia nazionale, già depressa da una recessione pluriennale. L’incapacità del potere politico nel contestare, ove possibile, un potere giudiziario incurante dei riflessi negativi del suo operato genera così l’urgenza, invocata da più parti, di un intervento pubblico a sostegno della forza lavoro e delle attività industriali.

    Le conseguenze indesiderate dei provvedimenti giudiziari, sequestri preventivi e sentenze, a carico delle industrie cardine del comparto manifatturiero italiano, l’Ilva e la Fiat, rischiano ora di comportare risvolti drammatici per l’economia nazionale, già depressa da una recessione pluriennale. L’incapacità del potere politico nel contestare, ove possibile, un potere giudiziario incurante dei riflessi negativi del suo operato genera così l’urgenza, invocata da più parti, di un intervento pubblico a sostegno della forza lavoro e delle attività industriali.

    La travagliata vicenda giudiziaria dell’Ilva ha varcato i confini pugliesi e l’obiettivo della magistratura non pare più (solo) quello di tutelare salute e ambiente. Piuttosto sembra prevalere il desiderio di rivalsa nei confronti della proprietà dell’acciaieria, la bistrattata famiglia Riva. Martedì scorso, i Riva hanno deciso di chiudere sette stabilimenti del nord Italia e due società di logistica facenti parte della holding Riva Forni Elettrici. Ai 1.400 dipendenti “in libertà” sono stati assicurati dal governo gli ammortizzatori sociali, ma viene minacciata la sussistenza di centinaia di imprese a valle della catena produttiva che acquistano i prodotti siderurgici lavorati dalla aziende del gruppo. La scelta – considerata “neutrale” per l’Ilva – scaturisce dall’impossibilità di garantire la continuità aziendale a seguito del sequestro preventivo disposto dalla magistratura che ha intaccato una parte del patrimonio immobiliare e delle disponibilità liquide dei Riva. Il provvedimento verrà impugnato. Questo era comunque un epilogo atteso: il patron dell’Ilva, Emilio Riva, meditava di abdicare dalla guida dell’impero industriale, rilevato dall’Iri negli anni Ottanta, già un anno fa, quando finì agli arresti insieme al figlio con l’accusa di “disastro ambientale”, una delle fattispecie meno regolate del nostro codice. Allora pochi sostenevano la teoria dell’accanimento giudiziario. Lo fa da tempo la lobby della siderurgia Federacciai, legata a una più timida “casa madre” Confindustria che ora, dopo la drammatica accelerazione, condivide e difende questa tesi sul quotidiano di scuderia, il Sole 24 Ore (“Cari giudici, sapete come funziona un’impresa?”, s’intitolava un caustico corsivo di ieri). L’annuncio ha spiazzato il governo: il ministro dello Sviluppo economico, Flavio Zanonato, incontrerà i sindacati e il presidente di Riva Forni Elettrici ed ex presidente Ilva, Bruno Ferrante. Il ministro del Lavoro, Enrico Giovannini, ha lasciato aperta la possibilità della cassa integrazione. Il presidente della commissione Lavoro della Camera, Cesare Damiano (Pd), ha chiesto all’esecutivo di non escludere il commissariamento dell’intero gruppo. E’ l’ennesima rincorsa della politica per raccogliere i cocci rotti dalle azioni incaute della magistratura, almeno a giudicare da come sono andate le cose finora. Nel luglio 2012 una parte dell’Ilva e alcuni materiali prodotti, dal valore miliardario, vengono sequestrati dal giudice per le indagini preliminari di Taranto, Patrizia Todisco, che considera il primo impianto siderurgico europeo una fonte d’inquinamento, di malattie sul territorio pugliese: la fabbrica deve essere riconvertita per inquinare meno grazie alle più moderne tecnologie. Il governo di Mario Monti interviene a dicembre, quando si teme un collasso dell’attività – che già procedeva a singhiozzo – attraverso il decreto “salva Ilva” per garantire sia la continuità aziendale sia la bonifica ambientale. La magistratura si è inutilmente opposta a quella che riteneva un’interferenza politica nella giustizia davanti alla Corte costituzionale: nell’aprile scorso la Corte sentenzia che non c’è nessuna incostituzionalità nel decreto “salva Ilva”; il risanamento può iniziare in base alle direttive dell’Autorizzazione integrata ambientale (Aia), usando tecnologie (assorbimento fumi, sistemi di aerazione, monitoraggio) che i competitor europei di Ilva dovranno introdurre solo nel 2016 (il processo è oggi in via d’attuazione con 8 prescrizioni completate e 10 in corso). Viene in seguito concesso il dissequestro dei prodotti finiti che, dopo mesi esposti alle intemperie, hanno perso valore. Il 24 maggio 2013 il tribunale di Taranto dispone il sequestro preventivo di 8,1 miliardi di euro ai danni della Riva Fire, un’altra holding dei Riva che sono accusati di avere nascosto al fisco i proventi illecitamente ottenuti dalla produzione dell’acciaio; la somma coprirebbe quello che la magistratura ritiene essere il costo delle migliorie mai apportate agli impianti e che dovrebbe in parte servire a completare l’Aia e la bonifica che costano circa 1,5-1,8 miliardi (sono comunque soldi sequestrati – non confiscati – e non sono immediatamente disponibili). Appena arrivato a Palazzo Chigi, Enrico Letta affronta come primo dossier quello dell’Ilva: col fondato timore che l’aggressione alle casse dei Riva congeli l’attività Ilva, il premier commissaria l’impianto per decreto etichettandolo come “strategico” e vi pone a capo, tra le polemiche, l’ex ad di Ilva, Enrico Bondi. L’impianto viene così “protetto” dalle ingerenze giudiziarie, ma così non è stato per le altre imprese dei Riva, come si è visto. Due giorni fa, come ha sintetizzato ieri Paolo Bricco sul Sole 24 Ore, l’ultima svolta: “Il sequestro preventivo penale di cespiti quali gli stabilimenti produttivi e il blocco dei conti hanno quindi colpito attività produttive che, in punta di diritto, non c’entrano nulla con l’acciaieria di Taranto”. Vittime collaterali, insomma. Anche il capo della prima azienda manifatturiera italiana, l’ad di Fiat, Sergio Marchionne, dichiarò che “l’Italia non è un paese per industriali”, dopo che la Corte costituzionale aveva bocciato l’articolo dello Statuto dei lavoratori su cui si reggevano i contratti aziendali del Lingotto. Senza certezze, Fiat ha minacciato di lasciare il paese, salvo poi promettere un miliardo d’investimenti a Mirafiori. Tuttora però la politica, sempre costretta a inseguire corti decisamente creative, non ha legiferato sulla rappresentanza sindacale.

    • Alberto Brambilla
    • Nato a Milano il 27 settembre 1985, ha iniziato a scrivere vent'anni dopo durante gli studi di Scienze politiche. Smettere è impensabile. Una parentesi di libri, arte e politica locale con i primi post online. Poi, la passione per l'economia e gli intrecci - non sempre scontati - con la società, al limite della "freak economy". Prima di diventare praticante al Foglio nell'autunno 2012, dopo una collaborazione durata due anni, ha lavorato con Class Cnbc, Il Riformista, l'Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI) e il settimanale d'inchiesta L'Espresso. Ha vinto il premio giornalistico State Street Institutional Press Awards 2013 come giornalista dell'anno nella categoria "giovani talenti" con un'inchiesta sul Monte dei Paschi di Siena.