La vispa Michela

Guido Vitiello

L’una ha scritto “Volevo essere una farfalla”, l’altra voleva acciuffare gentil farfalletta; per il resto, non si notano differenze apprezzabili tra Michela Marzano e la Vispa Teresa. E chi si accanirebbe contro la Vispa Teresa? Non stilleremo una sola goccia di sarcasmo sull’ultimo libro della filosofa e deputata, “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore”, che Utet pubblica in questi giorni. Ma un innocente gioco di contrappunto questo sì, sarà istruttivo per illuminare un meccanismo che va ben al di là del libro e della sua autrice.

    L’una ha scritto “Volevo essere una farfalla”, l’altra voleva acciuffare gentil farfalletta; per il resto, non si notano differenze apprezzabili tra Michela Marzano e la Vispa Teresa. E chi si accanirebbe contro la Vispa Teresa? Non stilleremo una sola goccia di sarcasmo sull’ultimo libro della filosofa e deputata, “L’amore è tutto: è tutto ciò che so dell’amore”, che Utet pubblica in questi giorni. Ma un innocente gioco di contrappunto questo sì, sarà istruttivo per illuminare un meccanismo che va ben al di là del libro e della sua autrice.
    Dalla recensione di Leonetta Bentivoglio su Repubblica del 29 agosto: “Un percorso irregolare e quasi spavaldamente eccentrico, che attinge a innumerevoli scenari intellettuali ed espressivi: le citazioni riguardano Stendhal, la Dickinson, Lacan, Zagdanski, Bauman”. Da “L’amore è tutto” di Michela Marzano: “L’amore, in fondo, è quel segreto che ci portiamo dentro. Due linee parallele che non si incontrano mai. Oppure sì, ma solo all’infinito. Come la vita di ogni coppia. Anche quando le dita della mano riescono a incrociarsi per qualche istante”. Bentivoglio: “Il viaggio nell’amore intrapreso da Marzano scansa l’‘oggettivazione’ del discorso amoroso. Non c’è un ritratto strutturale del significato dell’amore, nelle varianti di significato che ci invadono”. Marzano: “Istanti di gioia che vorremmo incastonare, prima di vederli scivolare via. E poi annotare sul diario che sarebbe assurdo pretendere che la gioia duri più di un attimo, perché nella vita tutto finisce”. Bentivoglio: “Pronta ad attraversare con piglio sprezzante l’esteso territorio del ‘luogo comune’ in cui tradizionalmente abita l’amore”. Marzano: “Mi pensi, mi parli, mi ascolti, mi telefoni, mi scrivi, mi consoli, mi fai un regalo, vero? Vieni a prendermi alla fermata della metro, parti con me, mi accompagni all’aeroporto, mi saluti con un bacio, mi stringi forte forte, mi dici che mi ami, mi dici che mi ami, mi dici che mi ami, ma mi ami? e quanto? me lo dici, vero?”. Bentivoglio: “Qui non siamo dalle parti di Roland Barthes, con i suoi celebri ‘Frammenti’”.

    Ce n’eravamo accorti, e d’altronde Barthes ha scritto anche “L’ovvio e l’ottuso”. Ma si era detto di non infierire. Dunque presta attenzione, lettore: il piccolo contrappunto ti offre l’occasione per osservare in tutta la sua potenza un meccanismo che opera di solito in modo più dimesso e impercepito. Non si tratta di evocare l’indulgenza di una recensione compiacente, né la fatale alberonizzazione delle belle promesse. No, qui è all’opera qualcosa di molto simile a quella che il filosofo dell’arte Arthur C. Danto chiamò, ai tempi della pop art, la “trasfigurazione del banale”. In breve, ciò che fa sì che le Brillo Box di Andy Warhol alla Stable Gallery di New York fossero opere d’arte, e quelle esposte nei supermercati mere scatole di spugnette abrasive. Che dall’arte contemporanea, dove ormai impera, l’arcano meccanismo si stia estendendo alle contrade del pensiero? E’ solo una congettura, ma viene il sospetto che i tanti festival estivi, i talk-show pensosi, i cenacoli giornalistici e radiofonici in cui si celebra la cultura come regno dell’adulazione reciproca universale servano proprio a questo: a innescare una sorta di allucinazione collettiva e consensuale, a cui il pensiero del pensatore (quando c’è) fa da mero pretesto, o da ready-made. “L’amore è fatto di giornate intere che scompaiono. Accanto ad attimi che diventano eternità”. Letto così, è il diario di una teenager. Nella Stable Gallery di Repubblica, è “uno spazio dove la riflessione s’intreccia alla confessione” o “una sfida compulsiva e abrasiva”.
    Abrasiva, come le spugnette Brillo.