L'affanno dei Moratti

Stefano Cingolani

La squadra di calcio in mano a un magnate indonesiano, la compagnia petrolifera insidiata dal Cremlino, i fratelli Gian Marco e Massimo che chiudono la cassaforte e si separano: a ciascuno il suo. Tutto sembra sossopra in casa Moratti. La famiglia più influente e trasversale della borghesia milanese nel secondo Dopoguerra, è in difficoltà e sembra avviata lungo una parabola che rimanda a tante altre storie eccellenti del capitalismo italiano. Milano non è Torino, monarchica in ogni sua fibra; i Moratti non sono gli Agnelli e l’élite lombarda è sempre stata policentrica, meritocratica, multinazionale persino.

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    La squadra di calcio in mano a un magnate indonesiano, la compagnia petrolifera insidiata dal Cremlino, i fratelli Gian Marco e Massimo che chiudono la cassaforte e si separano: a ciascuno il suo. Tutto sembra sossopra in casa Moratti. 
    La famiglia più influente e trasversale della borghesia milanese nel secondo Dopoguerra, è in difficoltà e sembra avviata lungo una parabola che rimanda a tante altre storie eccellenti del capitalismo italiano. Milano non è Torino, monarchica in ogni sua fibra; i Moratti non sono gli Agnelli e l’élite lombarda è sempre stata policentrica, meritocratica, multinazionale persino. Eppure, volendo cercare una dinastia degli affari che aspiri a possedere tutti i crismi dinastici, dopo la scomparsa dei Pirelli, il tramonto dei Falck e la metamorfosi dei Feltrinelli, non restano che loro, i Moratti. Hanno resistito al ciclone Berlusconi, sono tra gli uomini più ricchi d’Italia, adesso però sembrano canne al vento piegate dai nuovi potenti che arrivano dall’altra parte del mondo.

    Persino il teatro e il cinema sono una dolce rimembranza per Bedy la trasgressiva, anche se la passione non muore mai. E i Moratti trasudano insolite e divoranti passioni. Letizia, moglie di Gian Marco, è ancora ammaliata dalla politica e dall’ebbrezza del successo ottenuto in sella alla destra: presidente della Rai, ministro della Pubblica istruzione, sindaco di Milano. Difficile che tornino gli antichi fasti, ma lei non molla e si dichiara pronta per l’Expo: “Se mi chiamano, ci sono”. Emilia Bossi detta Milly, sposa di Massimo, è pervasa da sacro furore gauchiste: ha animato da par suo una lista radical chic che ha aiutato la vittoria di Giuliano Pisapia e l’ha portata in consiglio comunale sugli scranni della sinistra ecologista. Ancor più bruciante il tormento che ha spinto suo marito a consumare il patrimonio per eguagliare, con l’Inter, i successi del padre, fino ad arrivare, anche lui, sull’orlo del precipizio.
    La loro fortuna si fonda sul petrolio, ma non come i Rockefeller. L’Italia, del resto, priva di giacimenti, sfortunata e miope nelle sue proiezioni coloniali (l’oro nero venne scoperto in Libia, ma nessuno capì che andava sfruttato su grande scala), si dedica al commercio del greggio e alla raffinazione. Benzine e gasoli soppiantano presto il cherosene come prodotto principale al posto del carbone per lo più importato a caro prezzo. Gli idrocarburi saranno la fonte principale anche per produrre elettricità, sostituendo l’acqua che dalle Alpi ha alimentato le centrali dei Feltrinelli, dei Valerio, i potentissimi “elettrici” benefattori di Mussolini, espropriati nel 1962 con la nazionalizzazione. Il petrolio e il gas, ormai in mano all’Eni, hanno sepolto il nucleare rifiutato dal popolo nel 1987, ma osteggiato fin dagli anni Sessanta da una lobby più potente di quella atomica.

    In questo snodo di potere, campo di mille battaglie che hanno fatto e disfatto l’Italia industriale, Angelo Moratti è stato un personaggio chiave. Nato nel 1909, figlio di un farmacista, orfano di madre, ha cominciato a fare tutti i mestieri fin dall’età di 16 anni. Durante il servizio militare a Civitavecchia, nel 1927, allestisce una propria rete di distribuzione che rifornisce i pescatori locali di petrolio per alimentare le lampare. Il salto avviene quando trova lavoro nella Società anonima permanente olio (Permolio), proprietà dei conti Miani. A 26 anni si sposta a Genova, principale punto d’ingresso di greggio e prodotti raffinati. Qui diventa uomo di fiducia del finanziere Cerutti che sarà il mentore del giovane imprenditore. Ormai è abbastanza sistemato per potersi sposare e nel 1932 impalma Erminia Cremonesi una ex operaia. Avranno sei figli: Adriana (1932), Gian Marco (1936), Maria Rosa detta Bedy (1942), Massimo (1945), Gioia e Natalino, adottivo.

    Angelo è un fulmine nel cercare le occasioni. Rientrato a Milano nel 1937, si vede offrire una partecipazione nella Società mineraria del Trasimeno (SMT o Somintra), che sfrutta una miniera di lignite vicino a Pietrafitta (Perugia). Il paese è in piena autarchia, colpito dalle sanzioni dopo la conquista dell’Etiopia, il regime fascista favorisce ogni risorsa nazionale soprattutto nei combustibili perché il mercato petrolifero è bloccato. La miniera, dunque, diventa il centro delle attività in vertiginosa crescita, compresa l’occupazione. Dopo il 1943 la manodopera aumenta in modo smisurato soprattutto per evitare la deportazione in Germania. L’impianto verrà sabotato nel 1944 dalle truppe tedesche in ritirata. Angelo, arrivata la liberazione, rischia l’esproprio della miniera da parte dei lavoratori, ma riesce a evitarlo grazie a un accordo basato sulla promessa di realizzare una fabbrica di mattoni e un impianto di produzione di vetro.

    I vincitori americani favoriscono il petrolio e Moratti capisce che bisogna seguire la bandiera a stelle e strisce; nel suo interesse, ma anche in quello di un paese che non può restare dipendente dalle fortune minerarie della Francia, del Belgio, tanto meno della Germania in ricostruzione. Convince Giorgio Enrico Falck, con il quale si associa nel 1948, dando vita alla Raffinerie siciliane oli minerali (Rasiom). Ma trovare i clienti non è facile: l’Agip ricostruita da Enrico Mattei non possiede quantitativi di greggio eccedenti da trattare ed è comunque più orientata a una strategia di completa integrazione, dalla estrazione alla pompa di benzina, mentre la Società italo americana del petrolio (Siap), guidata da Vincenzo Cazzaniga, non vuole sostenere in via preventiva un’iniziativa che ritiene azzardata. Moratti, privo di esperienza nella gestione di grandi impianti, compra un’intera raffineria in Texas, obsoleta per i nuovi standard Usa, ma di buon livello tecnologico rispetto all’Italia, la smonta e la trasporta pezzo dopo pezzo in Sicilia ad Augusta convinto che le nuove rotte sarebbero passate per il Mediterraneo. Una previsione azzeccata ancor più dopo che nel 1954 l’Iran nazionalizza l’industria petrolifera e blocca di fatto Abadan, la maggiore raffineria del medio oriente.

    Il principale cliente è la Esso dei Rockefeller, la maggiore delle sette sorelle tanto odiate da Enrico Mattei. A poco a poco assorbe l’80 per cento della produzione. Nel 1960 la Rasiom è la numero uno in Italia e deve crescere ancora. Gli americani offrono il loro sostegno, ma vogliono la maggioranza. Angelo coglie rapido anche questa chance, vende al massimo e si sposta in Sardegna. Nel 1962 a Sarroch, nei pressi di Cagliari, fonda la Saras raffinerie sarde che, con 15 milioni di tonnellate di petrolio lavorate annualmente, diventa il più grande impianto del Mediterraneo e copre un quarto della produzione italiana.

    Angelo Moratti è nell’empireo dell’oro nero. Siede nei consigli di amministrazione di Mobil, Esso e Texaco. Ed è pronto al balzo nella popolarità. Dove? Nei mass media e nello sport, naturalmente. Il giornalismo non gli dà grandi soddisfazioni. Entra al Corriere della Sera con Gianni Agnelli, ma per fare un favore a Giulia Maria Crespi, la zarina innamorata del movimento studentesco e rimasta senza quattrini. Tenterà anche con il Globo. Nessuna delle due iniziative va bene. Con il calcio, invece, è un successo clamoroso. Sulle orme di quel che hanno fatto gli Agnelli con la Juventus, prende l’Inter (la vecchia Ambrosiana Internazionale) e crea il primo club gestito in grande e con grandeur, ma anche con spirito industriale, moderno si dovrebbe dire. Arriva quasi in punta di piedi nel 1955 e cambia tutto. Introduce una gestione industriale, quota in Borsa la società, assume a prezzo carissimo, soprattutto per i suoi tempi, un allenatore carismatico come Helenio Herrera che può contare su un parco giocatori di primissimo livello: Sandro Mazzola, Giacinto Facchetti, Tarcisio Burgnich, Armando Picchi e gli altri gladiatori. Crea un centro sportivo ad Appiano Gentile, compra persino una squadra di hockey sul ghiaccio con l’idea di creare una filiera polisportiva, modello al quale si ispirerà poi Silvio Berlusconi con il Milan. Tre scudetti, due coppe dei campioni, due coppe intercontinentali, tanti allori e altrettanti debiti. Lascia la presidenza nel 1968 a Ivanoe Fraizzoli, un industriale che ha fatto i soldi confezionando divise.

    Come già Agnelli e la maggior parte dei capitalisti del suo tempo, anche Angelo costruisce la successione lungo una linea dinastica maschile. Del resto, Maria Rosa, detta Bedy, sembra a lungo perduta nella trasgressione: recita al cinema (esordio nel 1969 in “Una storia d’amore” di Michele Lupo) anche in pellicole come “Diario segreto da un carcere femminile”, viene fotografata in pose ammiccanti, si fa maltrattare da Klaus Kinski, compra un locale per creare il teatro dell’Angelo, infine passa il testimone alla nipote Celeste che recita a New York e ha sposato un attore giamaicano, Dualee A. Robinson. Restano in ombra Gioia, Adriana e Natalino. Lo scettro passa a Gian Marco e a Massimo. E tuttavia sembra quasi che Angelo debba sdoppiarsi lasciando a ciascuno dei suoi due eredi una delle proprie passioni e dei propri talenti.

    A Gian Marco spetta la Saras. Massimo fin da bambino è vissuto con l’Inter. La vendita del club è per lui una doccia fredda e la riconquista diventerà una missione. Ci riesce solo nel 1995 ma è una delusione dopo l’altra: scarsi i successi e ingenti le spese per campioni e allenatori mediocri o sfortunati. Il ciclo d’oro comincia solo nel 2004 con Roberto Mancini, prosegue con José Mourinho nel 2010 quando, 46 anni dopo il primo successo paterno in Europa, Massimo dimostra di non essere da meno e conquista la Champions League. Complessivamente si stima che la società abbia accumulato perdite per un miliardo e mezzo e debiti per oltre 460 milioni di euro. Massimo Moratti ha dovuto provvedere personalmente a circa 735 milioni di euro, cifra molto vicina ai 750 milioni incassati con il collocamento in Borsa della Saras nel 2006.

    Nell’operazione Inter, gioca un ruolo importante Marco Tronchetti Provera: la Pirelli fa da sponsor, compra una quota di minoranza, intanto Moratti entra come socio di minoranza nella Camfin, la finanziaria che a sua volta controlla Pirelli. Ed è sempre Tronchetti a trovare una via d’uscita per se stesso e il suo amico, scovando Erick Thohir il magnate di Giakarta disposto a comprare il 75 per cento della società e a pagare parte dei debiti (Pirelli sta trattando con il padre Teddy, che guida la conglomerata Astra, una fabbrica di pneumatici in Indonesia).

    Se Massimo fa il creativo nel calcio, Gian Marco non cresce esattamente come un nerd. Di nove anni più anziano (è nato nel 1936), è stato il miglior partito degli anni Sessanta, lo ricordano ancora in sella alla Vespa sulle strade della Versilia, nemmeno fosse in un film di Dino Risi. Di lui s’innamora Lina Sotis, appena diciottenne, una delle più chic tra le ragazze bene di Milano, ironica maestra di bon ton. Dopo due figli, Angelo e Francesco, e appena cinque anni di vita in comune, si separano. Poi arriva, alta e diritta come un fuso, Letizia che sa mettere a frutto l’abilità dei broker genovesi (i Bricchetto) e l’aplomb nobiliare degli Arnaboldi. Silenzioso quanto Massimo è ciarliero, Gian Marco si dedica senza distrazioni agli affari e a opere benefiche. Finanzia Vincenzo Muccioli e la comunità di San Patrignano. Dal 2011, dopo l’allontanamento di Andrea, il figlio del guru dei tossicodipendenti, che l’aveva trasformata producendo vino e alimenti di alta gamma, Letizia ne prende il pieno controllo.
    Dalla Saras, intanto, giungono brutte notizie. Nell’ultimo decennio la compagnia petrolifera usufruisce di sostegni pubblici (circa 200 milioni di euro), attraverso tre contratti di programma varati dal Cipe (il Comitato interministeriale per la programmazione economica) presieduto di volta in volta da ministri di centro, di destra e di sinistra. I Moratti d’altronde, sono trasversali fino in fondo. Ciò consente un risanamento finanziario che apre la strada alla quotazione in Borsa nel 2006. Una decisione sofferta, alla quale i fratelli sono costretti dalla necessità di raccogliere risorse. Incassano oltre due miliardi di euro. E scoppiano le polemiche. Il titolo viene quotato a 6 euro, ma chi lo compera perde il 12 per cento in un solo giorno. “E’ vitale che davanti ci sia un sei”, scriveva ai suoi collaboratori Federico Imbert, allora capo di JP Morgan. Secondo Gerardo Braggiotti, di Banca Leonardo, consulente dei Moratti, “i fratelli chiesero se non era il caso di arrivare a 6,2 euro”. Altri tempi. Poi è arrivata la grande crisi. Adesso, un’azione non vale nemmeno un euro. L’azienda capitalizzava oltre cinque miliardi, oggi appena 870 milioni.

    Ombre su ombre, compresa l’ombra della morte. Tre operai perdono la vita per un incidente nella raffineria, morti asfissiati dall’azoto nel pulire una cisterna. La drammatica vicenda offre l’occasione al giornalista Giorgio Meletti per raccontare in un libro “Nel paese dei Moratti”, la contro-storia del “capitalismo buono”. I fratelli si sentono diffamati e ricorrono in tribunale.
    Ombre su ombre, anche sulla grande Inter, secondo Ferruccio Mazzola, fratello minore di Sandro, anche lui calciatore, ma con scarsa fortuna. Nel 2004 scrive “Il terzo incomodo” e denuncia l’uso di sostanze dopanti nello squadrone di Herrera: per questo Picchi e altri si sarebbero spenti giovani e di cancro. Facchetti, allora presidente del club, querela. L’accusatore viene assolto. Ferruccio Mazzola è stato consumato da un tumore il 7 maggio scorso a 68 anni.

    Ombre su ombre, scudetti “rubati”, arbitri comprati, Calciopoli e il sistema di Luciano Moggi: è guerra aperta con la Juventus. C’è pure una spy story un po’ grottesca come il pedinamento del calciatore Bobo Vieri da parte della sicurezza Telecom (quando il patron era Tronchetti) per conto dell’Inter. Adesso Moggi si vanta di aver previsto il fallimento sportivo ed economico degli arcinemici.
    Il calcio, ancora una volta, si rivela una fornace che brucia passione e denaro. Gian Marco, dice chi lo conosce bene, le ha tentate tutte con il fratello. Glielo ha chiesto con le buone, gli ha piazzato i suoi uomini di fiducia, ha mostrato i conti in sofferenza della Angelo Moratti sapa, l’accomandita di famiglia che da quattro anni non paga dividendi, e le perdite della Saras: un tempo fonte di lauti profitti, oggi soffre la crisi strutturale delle raffinerie insidiate dai colossi che integrano anche la distribuzione, tanto che nel 2012 i fratelli hanno dovuto cedere il 21 per cento a Rosneft, colosso energetico controllato dal governo russo, per 178 milioni di euro. Per l’Inter è spuntato l’indonesiano Thohir, anche se alla vigilia della firma ha puntato i piedi Angelomario Moratti, detto Mao, uno dei tre figli di Massimo coinvolti nell’amministrazione nerazzurra insieme ai fratelli Giovanni (Gigio) e Carlotta contro un solo figlio di Gian Marco (Angelo Gino).

    Il tira e molla sul futuro, accelera anche la spartizione dei beni. L’intero patrimonio, inclusa la partecipazione in Saras, sarà diviso a metà e l’accomandita verrà sciolta. Le nuove società sottoscriveranno un patto che prevede l’esercizio congiunto dei diritti di voto sulla controllata. Nessuna delle due potrà trasferire le azioni senza il consenso dell’altra. A partire da ottobre, i fratelli controlleranno direttamente il proprio 25,01 per cento insieme ai rispettivi figli maschi. Pronti all’offensiva russa sul petrolio: chi può resiste, chi non ce la fa esce con la sua quota. L’Inter resta fuori – viene fatto sapere per evitare equivoci e illusioni – perché la squadra di calcio è gestita da Massimo con i propri denari. Prima della caduta sentenziava: “La ricchezza serve a comprare una passione”. Finché la passione non consuma la ricchezza. I Moratti, capitalisti venuti dal niente che hanno vinto quasi tutto, ora passano il testimone.

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