Barack chi?

Luigi De Biase

Probabilmente i consiglieri di Putin sono arrivati alla solita conclusione, e poco importa che Barack Obama abbia alle spalle un curriculum di studi da primo della classe fra Columbia College e Università di Harvard, che sia arrivato alla Casa Bianca con la fama di quello davvero intelligente, e che la stampa di mezzo mondo ne parli con ardore da libro di storia. La conclusione dei consiglieri di Putin deve essere questa: in fin dei conti anche Obama è un americano, e per “americano” si intende “idiota americano”. Non sarà uno di quelli come George W. Bush – dopotutto il nuovo capo ha ben poco a che fare con i cowboy, il petrolio e l’epopea del Texas – ma le differenze sono soltanto un particolare, riguardano il contesto, non certo la sostanza.

    Probabilmente i consiglieri di Putin sono arrivati alla solita conclusione, e poco importa che Barack Obama abbia alle spalle un curriculum di studi da primo della classe fra Columbia College e Università di Harvard, che sia arrivato alla Casa Bianca con la fama di quello davvero intelligente, e che la stampa di mezzo mondo ne parli con ardore da libro di storia. La conclusione dei consiglieri di Putin deve essere questa: in fin dei conti anche Obama è un americano, e per “americano” si intende “idiota americano”. Non sarà uno di quelli come George W. Bush – dopotutto il nuovo capo ha ben poco a che fare con i cowboy, il petrolio e l’epopea del Texas – ma le differenze sono soltanto un particolare, riguardano il contesto, non certo la sostanza. Forse a Mosca pensano che Obama sia un idiota da ghetto nero, roba da film anni Ottanta, lui e la sua passione per la pallacanestro. E si tratta di un tipo di idiota che è ancora più popolare, nell’opinione pubblica russa, rispetto alla categoria del cowboy. Questo pensiero non dipende soltanto dallo spirito antiamericano, quella cosa un po’ retrò che distingue più o meno ogni uomo da San Pietroburgo a Vladivostok, ma viene soprattutto da quel che Obama ha fatto come presidente: il capo della Casa Bianca s’è mostrato troppo molle, troppo educato, troppo pulito per essere preso sul serio. E le sue decisioni nei confronti della Russia si sono rivelate un fallimento sul piano diplomatico, una dopo l’altra, senza grosse eccezioni. Anche per questo i rapporti con Mosca sono piombati al livello più basso degli ultimi anni, gli scambi fra le ambasciate sfiorano lo zero termico e le strette di mano hanno lasciato il posto ai comunicati su tv e giornali. Per alcuni il mondo è appena entrato in una nuova Guerra fredda, ma la realtà è un po’ diversa. Oggi non c’è conflitto, non c’è il rischio di uno scontro nucleare, non ci sono terre lontane da conquistare: la Russia e gli Stati Uniti semplicemente s’ignorano.

    L’ultimo colpo basso alla reputazione globale di Obama è arrivato con Edward Snowden, l’esperto di sistemi informatici che è riuscito a rifugiarsi in Russia dopo avere sottratto pagine e pagine di segreti sulla sicurezza americana. Questo caso è andato avanti per settimane prima di scomparire dalle prime pagine dei grandi quotidiani: Snowden è fuggito a Mosca con informazioni riservate, si è fermato a lungo nella zona di transito dell’aeroporto Sheremetyevo, ha valutato la possibilità di chiedere asilo in qualche paese del Sudamerica come Venezuela ed Ecuador, e poi lentamente ha fatto capire di preferire la Russia, un paese nel quale dice di sentirsi al sicuro. Gli avvisi al Cremlino delle autorità americane sono stati numerosi: non concedete l’asilo a Snowden, consegnatelo alla nostra legge in modo che possa essere giudicato per i delitti che ha commesso – e, soprattutto, in modo che le notizie di cui dispone non finiscano nelle mani sbagliate. Bisogna immaginare che gli appelli ufficiali siano stati seguiti da trattative più riservate, ma dopo giorni di dibattito i russi hanno deciso di concedere un visto temporaneo a Snowden e hanno permesso anche a suo padre di volare a Mosca per incontrarlo. In pochi mesi Putin ha rovesciato una legge naturale del mondo moderno: prima erano i russi che fuggivano all’estero in cerca di asilo e protezione, ora finalmente qualcuno chiede aiuto al Cremlino. In effetti anche Snowden ha dato un contributo contro i luoghi comuni: un tempo i rifugiati erano poeti, scrittori e dissidenti politici, oggi hanno a che fare sempre più spesso con le frodi bancarie o con qualche segreto dossier dai faldoni dei servizi segreti. Con questa vicenda, Mosca e Washington si sono infilati in una battaglia d’etichetta sui diritti umani che difficilmente porterà progressi nei loro rapporti. Il Congresso americano si mobilita per la morte in carcere di un avvocato, Sergei Magnitsky, finito in cella dopo avere denunciato le attività illecite di alcuni funzionari pubblici; la Duma per tutta risposta blocca le adozioni di bambini russi da parte di famiglie americane. Da Washington arrivano segnali di sostegno alle Pussy Riot, le ragazze punk chiuse in prigione dopo una concerto blasfemo nella cattedrale di Mosca; e i russi bloccano le organizzazioni non governative che ricevono fondi dall’estero; gli Stati Uniti ottengono l’estradizione di Viktor Bout, il trafficante d’armi accusato di rifornire le milizie africane e la guerriglia colombiana; da Mosca arriva il via libera alla richiesta di asilo di Snowden. Oggi tutto lascia pensare che il prossimo scontro avrà a che fare con la legge sulla propaganda gay approvata in Russia: questo gioco di denunce e sguardi indignati può andare avanti ancora a lungo, di sicuro non avrà effetti positivi sul piano diplomatico, ed è quasi impossibile che ne porti alle campagne per i diritti civili.

    Naturalmente la scelta di ospitare Snowden avrà ripercussioni in futuro, ma è ancora più importante capire per quale motivo a Mosca abbiano deciso di affrontare questo passo. Max Fisher sul Washington Post dice che il prezzo per risolvere i conflitti fra i due paesi è più alto rispetto ai benefici che si otterrebbero, quindi Obama e Putin preferiscono andare avanti come se niente fosse, fra ripicche e minacce velate, senza azioni concrete: Reagan chiamava l’Unione sovietica “impero del male”, Nikita Kruscev dichiarò una volta che gli americani sarebbero stati sepolti, ma per decenni americani e sovietici si sono incontrati a ritmo costante, un vertice dopo l’altro, anche quando la tensione era altissima. Ora, invece, pericoli e vantaggi sono così modesti da rendere superfluo il confronto diretto. A Mosca prendono in considerazione anche un’altra ipotesi, e cioè che Obama abbia perso gran parte della credibilità agli occhi dei suoi interlocutori stranieri: è uno che parla bene ma non agisce mai, e per questo la bolla di sicurezza che circonda le operazioni del Cremlino è decisamente più larga rispetto al passato. E in questa versione ci sono tutte le differenze fra Putin e Obama, fra l’uomo addestrato nei ranghi del Kgb e quello educato nelle migliori scuole americane, fra l’ufficiale che è sopravvissuto alla fine dell’Unione sovietica e il ragazzo di Chicago con la battuta pronta e il sorriso da fotoromanzo. Forse uno dei due ha più chance di conquistare i favori della grande stampa, ma è anche possibile che l’altro chiuda con successo una trattativa internazionale sugli armamenti.
    E poi ci sono le storie di spie, che non possono mancare in un intrigo fra Mosca e Washington. Nel 2012 l’Fbi ha arrestato una decina di cittadini russi con l’accusa di portare avanti un “programma illegale” sul territorio degli Stati Uniti: il gruppo, dicevano le accuse, avrebbe cercato di entrare in contatto con alcuni ufficiali dell’Amministrazione per raccogliere notizie riservate da passare all’Fsb, l’agenzia dei Servizi russi. Questo scandaletto è stato trattato con la massima serietà dagli Stati Uniti, che hanno rispedito le spie in patria usando uno scambio di prigionieri. E i dieci hanno ricevuto un’accoglienza trionfale a Mosca, sono stati al Cremlino per una cena con Putin e si dice che in quella occasione abbiano cantato con il presidente la sigla di un telefilm che andava forte nel Dopoguerra, “Shchit i Mech” (significa “la spada e lo scudo”, i vecchi simboli del Kgb), nel quale una spia salvava il paese da minacce misteriose puntata dopo puntata. La vera risposta all’operazione dell’Fbi è arrivata la scorsa primavera, quando i russi hanno arrestato un consigliere dell’ambasciata americana in un parco di Mosca. L’uomo aveva una parrucca bionda in testa e uno zaino con strumenti da romanzo del Novecento (mappa della città, compasso e matite). Nel suo bagaglio c’era anche una lettera scritta in inglese con le istruzioni agli agenti russi che volessero passare con il “nemico”. Il diplomatico è finito in una caserma dei servizi di sicurezza, e lì non ha avuto a che fare soltanto con gli ufficiali, ma anche con i giornalisti di una tv che è corsa sul posto e ha ripreso una parte dell’interrogatorio. Il copione è andato avanti ancora per qualche giorno con un richiamo all’ambasciatore americano, resoconti piuttosto dettagliati sui quotidiani russi e commenti abbastanza divertiti dei ministri e deputati, che hanno approfittato dell’occasione per lamentarsi del trattamento ricevuto in cambio della loro ospitalità, ma sotto sotto cercavano di mettere in risalto soprattutto l’ambiguo caso del diplomatico sorpreso con la parrucca nel centro della città.

    Le polemiche sui diritti umani e le accuse un po’ artefatte sullo spionaggio sono soltanto una parte del problema, e non si tratta della parte principale. Il punto è che le scelte di Obama nei rapporti con la Russia si sono rivelate sbagliate, e in molti casi sono state seguite da una serie di gaffe abbastanza incredibili per una diplomazia allenata come quella americana. E’ il caso del celebre “reset”, la strategia che avrebbe dovuto garantire un nuovo inizio nelle relazioni con Mosca – tutta un’altra musica rispetto alle incomprensioni vissute all’epoca di George W. Bush. E così il 6 marzo del 2009, al primo incontro di alto livello fra l’Amministrazione Obama e i rappresentanti del Cremlino, il segretario di stato Hillary Clinton s’è presentata di fronte al collega russo Lavrov tenendo un pulsante fra le mani, un oggetto simile a quelli che si vedono nei quiz televisivi. “Ho questo regalo per voi – ha detto Clinton – Rappresenta il nostro desiderio di fare reset nei rapporti fra i nostri paesi, e di riprendere da capo”. In quei mesi le telefonate fra Mosca e Washington non erano certo quotidiane, si veniva dall’invasione in Georgia, Barack Obama s’era insediato da pochi mesi e Dmitri Medvedev aveva sostituito Vladimir Putin nelle stanze del Cremlino. Ma quella mattina sul pulsante nelle mani di Clinton era scritto “peregruzka”, una parola russa che significa “sovraccarico” (il termine “reset” si traduce, invece, con “perezagruska”). Lavrov ha fatto notare lo smacco a mezza voce, fra i sorrisi generali, e Clinton non si è arrestata, è andata avanti con il suo discorso come se niente fosse (“noi lo vogliamo davvero, puntiamo a quello”, ha continuato il segretario di stato). Allora Lavrov s’è lasciato andare a un ultimo sorriso e ha promesso di tenere il regalo sulla scrivania in ricordo della riunione. E’ possibile che ancora oggi lo mostri agli ospiti che visitano il suo ufficio, e se così fosse non sarebbe una buona notizia per la reputazione dei diplomatici americani.

    Un paio di giorni più tardi è stato Obama in persona a cercare il contatto con i vertici del potere russo, e per farlo ha scelto un metodo piuttosto originale: con una lettera inviata a Medvedev, ha proposto al Cremlino di trovare un accordo sulla questione dello scudo spaziale, il sistema di difesa che gli Stati Uniti avrebbero dovuto costruire nell’Europa dell’est e che presto sarebbe finito nel nulla. Il messaggio doveva essere “segreto”, nel senso che era destinato al solo Medvedev, non a Vladimir Putin, ma il fatto che sia arrivato al New York Times prima ancora che al Cremlino ha portato un po’ di imbarazzo in Russia, tanto che in un primo momento al Cremlino hanno finto di non avere ricevuto nulla, poi hanno confermato che in effetti una lettera era arrivata, infine hanno dichiarato proprio al New York Times che il messaggio di Obama non conteneva alcun richiamo allo scudo spaziale, che gli scambi non si fanno via lettera e che la Russia non era disponibile a quel tipo di trattativa. Sul significato della lettera di Obama si sono cimentati diversi analisti: c’è chi pensa che Obama sia stato coraggioso, chi crede che volesse provare a dividere Medvedev dal suo potente premier, ovvero da Putin, e chi sostiene che sia stato uno sbaglio lampante dovuto alla scarsa esperienza. E forse nel circolo di Putin hanno cominciato a farsi qualche domanda proprio allora: che cosa diavolo ha in mente Obama?

    Bush ha ricevuto critiche per l’atteggiamento, a volte troppo aggressivo, nei confronti della Russia, ma è riuscito anche a stabilire punti di collaborazione elevati con Putin su un fronte decisivo come quello della lotta al terrorismo internazionale. In più era circondato da specialisti che conoscevano molto bene la politica russa, e che attribuivano a Mosca il giusto peso negli equilibri globali (non bisogna dimenticare che Condoleezza Rice, la donna al fianco di Bush come segretario di stato fra il 2005 e il 2009, era una specialista di paesi post sovietici). I dubbi sull’efficacia del reset sono cresciuti anche negli Stati Uniti negli ultimi mesi, perché quattro anni di tentativi un po’ goffi sul piano della diplomazia non hanno portato ad alcun esito che si possa definire positivo. Lo scorso inverno la rivista National Interest – che non è esattamente un covo di pensatori liberal – ha suggerito alla Casa Bianca di mettere momentaneamente “in pausa” le relazioni con la Russia. Può sembrare incredibile ma è proprio quel che Obama ha deciso di fare, una svolta completa rispetto al desiderio di apertura che ha avanzato, almeno a parole, da quando siede alla Casa Bianca. Due settimane fa, dal palco rispettabile del “Tonight Show” con Jay Leno, Obama ha ammesso che i rapporti con Putin non sono sempre facili, ha ricordato che sono stati raggiunti alcuni obiettivi importanti quando Medvedev era al Cremlino e ha chiuso dicendo che è il momento di prendersi “una pausa” con la Russia. Il primo passo della nuova strategia è stato annullare un incontro in programma con Putin (“Snowden non c’entra – ha assicurato Obama – Quello non è il nostro unico problema”). Due giorni più tardi ha fornito qualche dettaglio in più ai giornalisti che gli chiedevano spiegazioni, ha detto che Vladimir Putin è un tipo tosto, uno con cui si può lavorare in maniera costruttiva, ma è anche vero che il capo del Cremlino ogni tanto si comporta come i bulli che a scuola stanno seduti negli ultimi banchi. In effetti è una frase un po’ aspra, ma non è certo che possa impressionare un uomo cresciuto a Leningrado pochi anni dopo l’assedio dei nazisti.