I gemelli diversi di Amazon

Redazione

Ogni anno la rivista patinata di economia FastCompany pubblica una lista di quelle che considera “Le 50 società più innovative del pianeta”. In questa lista ci sono le società che ti aspetteresti. Nel 2012 la prima in classifica era Apple, seguita da Facebook, Google e Amazon.com. Riconoscete un tema dominante? Tra le prime dieci società classificate, soltanto due non operano principalmente nel settore digitale. Una, Life Technologies, lavora nel settore dell’ingegneria genetica. (L’altra, provate a non ridere se ci riuscite, è il Movimento Occupy. FastCompany infatti descrive i suoi attivisti come “trasparenti, esperti di tecnologia, di design, locali e globali, vivaci”).

di Chris Berg*

    Quelli pubblicati sono stralci di un suo saggio pubblicato su Cato Policy Report, rivista bimestrale del Cato Institute. La traduzione è di Marco Valerio Lo Prete.

    Ogni anno la rivista patinata di economia FastCompany pubblica una lista di quelle che considera “Le 50 società più innovative del pianeta”. In questa lista ci sono le società che ti aspetteresti. Nel 2012 la prima in classifica era Apple, seguita da Facebook, Google e Amazon.com. Riconoscete un tema dominante? Tra le prime dieci società classificate, soltanto due non operano principalmente nel settore digitale. Una, Life Technologies, lavora nel settore dell’ingegneria genetica. (L’altra, provate a non ridere se ci riuscite, è il Movimento Occupy. FastCompany infatti descrive i suoi attivisti come “trasparenti, esperti di tecnologia, di design, locali e globali, vivaci”). Non solo dunque la maggioranza di queste società appartiene al settore digitale, ma tutti i gruppi in questione sono sgargianti e unici, con nomi noti a quasi ogni consumatore.

    Tutti, da Forbes a BusinessWeek, pubblicano il loro premio per “la società più innovativa”. Sono tutti piuttosto simili e prevedibili. Ma queste liste hanno anche un effetto perverso: spingono infatti a pensare che il grande successo del capitalismo e dell’economia di mercato coincida con il fatto che si investe in tecnologia d’avanguardia, e che se vogliamo osservare il progresso del capitalismo in azione, allora dovremo seguire le tracce di un design di grido e di una moda diventata popolare. L’innovazione, è quello che sembrano dirci i mezzi di comunicazione di massa, consiste nell’inventare cure per il cancro, pannelli solari e social network. Tuttavia la vera genialità dell’economia di mercato non è quella che consiste nel produrre beni famosi, altamente pubblicizzati e che generano file di acquirenti, o le scoperte mediche che finiscono nei telegiornali. No, il genio capitalista si trova nelle piccole cose, in quelle che nessuno nota.

    Un’economia di mercato è caratterizzata da una successione infinita di cambiamenti e aggiustamenti impercettibili e frequenti. Gli economisti liberali hanno parlato a lungo della natura non pianificata e non coordinata dell’innovazione capitalistica. Gli stessi hanno però mancato di enfatizzare quanto questo processo sia invisibile. Un’eccezione è costituita dal grande Adam Smith. Nel suo libro “La ricchezza delle nazioni”, l’esempio che utilizza per descrivere la divisione del lavoro è quello di una fabbrica di spilli. L’autore descrive attentamente il complesso processo attraverso cui uno spillo viene prodotto. Plasmare la “capocchia” dello spillo “richiede da due a tre operazioni distinte”; posizionare la stessa capocchia sul filo metallico è “un lavoro specializzato”; poi gli spilli devono essere sbiancati. La produzione di uno spillo, è la conclusione di Smith, richiede 18 operazioni distinte. Smith in questo modo sosteneva le buone ragioni della specializzazione del lavoro, ma la scelta dell’esempio era altrettanto importante. Sarebbe difficile infatti pensare a qualcosa di meno importante e memorabile di uno spillo. Smith però voleva che i suoi lettori dell’epoca riflettessero sull’economia senza scrutarla dalle sommità altezzose di un palazzo o di una cattedra accademica, ma osservandola dal basso verso l’alto, riconoscendo come l’economia di mercato sia l’aggregazione di milioni di piccole operazioni. E’ una lezione che molti di noi non hanno ancora appreso. Dovremmo tentare di riconoscere le sottigliezze del nostro mondo apparentemente ordinario.

    Capitalismo vuol dire efficienza
    La libreria modello “Billy” di Ikea è un tipo di mobile domestico comune, addirittura quasi “usa e getta”, prodotto senza soluzione di continuità dal 1979. Oggi ha esattamente lo stesso aspetto che aveva più di tre decenni fa, ma è molto più conveniente. Il modello standard, alto più di sei piedi, costa 59,99 dollari. E dal punto di vista ingegneristico, la libreria Billy è molto diversa dai suoi antenati. In questi 30 anni Billy è cambiata in alcuni piccoli ma fondamentali dettagli. La struttura del suo retro è stata modificata più e più volte; Ikea infatti ha provato a ridurne il peso (perché il peso ha un costo, considerata la sua influenza su scelta dei materiali, imballaggio e trasporto!) aumentandone la robustezza. Anche le viti di ancoraggio che sostengono gli scaffali removibili erano, fino a poco tempo fa, semplici cilindri di metallo. Ora hanno strutture più sofisticate e una forma rotondeggiante in quell’estremità su cui si poggia lo scaffale. Pure le assi che tengono assieme la struttura sono pezzi di complessa ingegneria.
    Ikea è una società enorme. Piccoli cambiamenti, anche se riguardano le viti di ancoraggio di metallo, hanno un effetto amplificato quando questi oggetti sono prodotti in serie. C’è senza dubbio qualcuno, nella gerarchia di progettazione del prodotto di Ikea, il cui obiettivo specifico è stato quello di ridurre il peso e di aumentare la forza di queste viti di ancoraggio. Persone che sono andate a dormire pensando alle viti stesse e ai metalli impiegati, e ai trade-off tra robustezza e peso. Il loro lavoro, all’apparenza poco importante, aiuta Ikea a mantenere i prezzi più bassi e i profitti alti. Con ogni minuscolo cambiamento alla forma delle viti di ancoraggio della libreria Billy, questi lavoratori consentono all’impresa per cui lavorano di guadagnare un multiplo del loro salario.
    Essendo di grandi dimensioni, comunque, Ikea ha un vantaggio: è in grado di assumere specialisti il cui lavoro è soltanto quello di essere ossessionati da cose semplici come le viti di ancoraggio. Ikea è ben conosciuta per le sue innovazioni più visibili – come, per esempio, la scomposizione dei mobili che può ridurre fino a un sesto i costi di trasporto – e i suoi punti vendita con relativamente poco personale. Per i venditori di oggetti voluminosi, l’innovazione è dunque questione di efficienza, non di invenzione. Catene di distribuzione molto compatte magari non vinceranno premi rinomati per l’innovazione, ma sono la fonte di tanta parte della nostra prosperità contemporanea.
    Ikea comunque è grande e famosa, quindi lasciatemi suggerire un altro simbolo dell’innovazione e del dinamismo capitalista: la pizza.

    Il capitalismo ha un gusto migliore
    La pizza è uno dei cibi più semplici e popolari dei nostri tempi. E’ forse l’ultimo dei settori in cui la maggior parte di noi andrebbe a cercare esempi di innovazione e ingegnerizzazione. Nella sua versione più basilare, si tratta infatti di una base di pasta con sopra salsa di pomodoro e formaggio, un piatto esportato dai ceti sociali più poveri di Napoli e poi reinterpretato un numero infinito di volte in giro per il mondo. Il 41 per cento degli americani mangia la pizza almeno una volta alla settimana, sia essa surgelata e riscaldata nei forni di casa, recapitata a domicilio, a portar via, o cucinata da zero in casa. Tutte le scelte coinvolte in questa normalissima attività sono più complesse di quanto sembrerebbe all’apparenza. Mantenere una pizza croccante a lungo dopo che la stessa esce dal forno, così da poter essere recapitata a domicilio, o assicurarsi che diventi croccante in un forno qualsiasi dopo che è stata surgelata per settimane, è tutt’altro che semplice. La condensa è il nemico numero uno. Per le pizze surgelate, ciò vuol dire che i condimenti devono essere precotti con precisione, per evitare che alcuni ingredienti siano poi bruciati mentre altri si staranno ancora riscaldando. La pizza surgelata riceve inoltre un trattamento piuttosto ruvido nel suo ciclo di vita: è parzialmente scongelata ogni volta che viene trasferita dal produttore al supermercato e poi al freezer di casa. Quindi la pasta deve essere preparata con cura per gestire il suo contenuto d’acqua. Il formaggio inoltre si congela con qualche problema, mentre i consumatori si aspettano che si sciolga in maniera omogenea su tutta la base, quindi i produttori sono ossessivi sul Ph del formaggio, come anche sul suo contenuto di acqua e sale. Naturalmente poi tutte queste decisioni sono prese tenendo un occhio sul portafoglio del consumatore e un altro sui guadagni attesi dal produttore. I consumatori delle pizze surgelate più comuni tendono infatti a essere estremamente attenti ai prezzi. Le opportunità per innovare nei processi, nei macchinari, nell’automazione e nel dosaggio sono senza fine.

    Il tutto diventa ancora più complicato quando consideriamo il cambiamento continuo dei gusti dei consumatori. Il moderno consumatore di pizza non vuole semplicemente formaggio, pomodoro e salame piccante. Con i gusti che diventano più sofisticati, i consumatori esigono sfumature sempre più ricercate, anche nella pizza surgelata. Una cosa però è gestire il modo in cui la mozzarella diventa filante, tutt’altra cosa è  avere a che fare con il formaggio brie o di Gouda. Allo stesso modo in cui esistono specialisti di viti all’Ikea, ci sono centinaia di persone nel mondo ossessionate da come il formaggio surgelato si scioglie nei forni delle nostre case. Questo tipo di complicazione è poi replicato per ogni ingrediente di un prodotto pur apparentemente semplice. Non solo: i consumatori richiedono anche qualità estetiche. I prodotti surgelati devono apparire come autentici. I consumatori vogliono che i bordi della loro pizza abbiano i segni di leggere bruciature da forno, anche se i forni casalinghi di per sé queste bruciature non le producono. Così i produttori sperimentano tutti i tipi di tecnologie di riscaldamento per replicare il risultato estetico di un forno a legna.
    (…) Potremmo ripetere questo tipo di analisi per quasi tutti i cibi prodotti o trasformati in vendita nei nostri supermercati. Poi potremmo riflettere sulla complessità connessa al fatto di servire una pietenza non in una cucina qualsiasi, ma su un aereo che vola a oltre 600 miglia orarie e a 37.000 piedi d’altezza, cucinando in una struttura angusta per centinaia di persone allo stesso tempo. Molti di questi straordinari risultati logistici del mondo moderno passano completamente inosservati. Alcuni, come il cibo che ci viene servito sull’aereo, vengono perfino sottovalutati, senza riconoscere gli sforzi che sono costati.

    “Io, una matita” e “Io, un maiale”
    Uno dei grandi testi della tradizione del libero mercato è “Io, una matita” di Leonard Read. Read fu il fondatore della Foundation for economic education, influente think tank americano. Nel suo saggio, l’autore adotta la prospettiva  di una matita e tenta di descrivere la sua genealogia. Prende le mosse da un cedro della California settentrionale o dell’Oregon che viene tagliato, raccolto e portato in treno in uno stabilimento di San Leandro, in California; lì poi tagliato in “piccole stecche della lunghezza di una matita, spesse meno di un quarto di pollice”. La tesi di Read è la seguente: “Non una singola persona sulla faccia di questo pianeta” sa come fare da sé una matita. La costruzione di una matita è interamente dispersa tra “milioni di esseri umani”, dagli italiani che scavano per trovare la pietra pomice per la gomma da cancellare ai produttori di caffè che riforniscono di bevande i boscaioli dell’Oregon che tagliano i cedri.

    Read in questo modo stava illustrando in maniera vivida la celebre tesi sostenuta da Friedrich Hayek: queste persone distanti tra loro riescono, attraverso nient’altro che il meccanismo dei prezzi, a portare a termine qualcosa di straordinariamente complesso. Nessuno dei minatori di pietra pomice intende di per sé costruire una matita. Loro vogliono soltanto scambiare il loro lavoro con un salario. La mano invisibile di Adam Smith fa tutto il resto. Read ha pubblicato il suo saggio nel 1958. La formula chimica della gomma da cancellare nel frattempo è più volte cambiata nel corso di mezzo secolo. La produzione è altamente automatizzata e le linee di approvvigionamento delle materie prime più serrate. Vengono aggiunti prodotti chimici per impedire che la gomma da cancellare si rompa. La produzione di gomma sintetica nel 2012 è molto diversa da com’era nel 1958.

    “Io, una matita” coglie magnificamente la complessità dei mercati, ma non il loro dinamismo. I milioni di individui coinvolti nella produzione di una matita non stanno semplicemente mettendo in atto i loro compiti distribuiti dal mercato, ma sono alla ricerca continua di nuovi modi per rendere il loro piccolo segmento di lavorazione il più semplice, conveniente e profittevole possibile. Il mercato delle matite – lontano, come potete immaginare, da quello di società d’avanguardia come Facebook – è ancora oggi pieno di imprenditori che cercano di disfare modelli di business affermati  per ridurre i costi e razionalizzare la catena di produzione. Nel 1991 uno stock di 144 semplici matite di legno prodotte in Cina era venduto all’ingrosso a 6,91 dollari; nel 2004 quel prezzo è sceso a 4,48 dollari.
    E tutto questo senza nemmeno considerare la grande varietà di matite oggi a disposizione dei consumatori: non ci sono soltanto quelle di legno, ma di diverse forme, misure, colori, densità, poi matite meccaniche, quelle di dimensioni maggiori per i bambini, quelle rettangolari per i carpentieri (visto che quelle rettangolari non possono rotolare e cadere) e via dicendo. A svantaggio del capitalismo gioca il fatto che non ci sia nulla di intrinsecamente eccitante nelle matite. A noi esseri umani piace la novità. Ci piace l’invenzione. Ci appassionano le scoperte tecnologiche che cambieranno il mondo.

    Perciò il libro più acuto sul capitalismo che sia stato pubblicato nell’ultimo decennio non è un trattato di economia o filosofia, ma un progetto artistico. In “Pig 05049”, l’artista olandese Christien Meindertsma mette in mostra fotografie dei 185 prodotti che provengono da un singolo maiale. Ogni parte del maiale macellato è venduta e riutilizzata. Ovviamente abbiamo una certa familiarità con la carne di maiale e il prosciutto, ma quanti tra noi sono consapevoli del fatto che le ossa dello stesso animale possono essere convertite in una colla che tiene assieme la carta vetrata? O che il grasso del suino è un ingrediente costitutivo della vernice, aiutandone la stesura e garantendogli lucentezza? 
    (…) Se la rivista FastCompany ha una visione distorta sulla natura dell’innovazione in un’economia di mercato, non è dunque la sola. Il governo federale australiano, per esempio, ha il suo ministro per l’Innovazione, e il suo dipartimento per l’Industria, l’innovazione, la scienza, la ricerca e l’educazione elargisce finanziamenti per invenzioni e start-up. Il suo programma “Commercialisation Australia” sponsorizza inventori che “hanno trasformato un’idea innovativa in realtà”. Il programma “Innovation Australia” finanzia ricercatori per trasformare “le loro idee pionieristiche in prodotti commerciali”. Ecco un classico esempio del feticcio dell’“innovazione”, cioè l’idea che il progresso tecnologico si realizzi soltanto quando dei sognatori partoriscono grandi idee. Di conseguenza tutto quello che resta da fare alla società è sussidiare la trasformazione di questi sogni in realtà.

    Tuttavia le idee costituiscono soltanto la parte più facile di tale processo. Fare in modo che le cose vengano effettivamente fatte è più difficile. Avviare un business, ridurre i costi, acquisire e mantenere una quota di mercato: sono questi i parametri di un’economia di mercato in base a cui valutare la vittoria o il fallimento delle imprese. La grandiosità dell’economia di mercato va rintracciata in tutte quelle piccole innovazioni portate a termine per migliorare e perfezionare prodotti e servizi già esistenti. L’invenzione, per carità, è una cosa stupenda. Ma non dovremmo mai aspettarci che siano soltanto le invenzioni ad arricchirci.

    Abbiamo infatti standard di vita migliori dei nostri antenati grazie alle piccole cose. Per questo dovremmo essere più consapevoli della continua, lenta e impercettibile distruzione creatrice dell’economia di mercato, dell’attività di milioni di individui che affinano e migliorano impercettibilmente le nostre pizze surgelate, i nostri scaffali per libri, le nostre matite classiche così come quelle a colori.

    di Chris Berg*

    *research fellow all’Institute of Public Affairs di Melbourne, in Australia. E’ autore di “In defence of freedom of speech: from ancient Greece to Andrew Bolt”