Contro le toghe chiacchierone

Claudio Cerasa

Se c’è qualcuno che in questi ultimi anni, e forse persino più di Silvio Berlusconi, si è ritrovato a fare i conti con il significativo fenomeno della Toga Chiacchierona, fenomeno che in queste ore, come è noto, è emerso con una certa nitidezza grazie all’incontenibile parlantina dell’ormai celebre giudice di Cassazione Antonio Esposito, quel qualcuno senza dubbio risponde al nome del generale Mario Mori. Negli ultimi quindici anni, complice una serie di inchieste surreali condotte da alcuni magistrati con una certa tendenza alla forsennata parlantina in ambiti non propriamente processuali, l’ex capo dei Ros ha affrontato a più riprese una serie di pubblici ministeri che non hanno mai disdegnato l’idea che fosse lecito portare un’indagine o un processo fuori dai tribunali, e magari di fronte a un taccuino amico o a una telecamera simpatizzante.

    Se c’è qualcuno che in questi ultimi anni, e forse persino più di Silvio Berlusconi, si è ritrovato a fare i conti con il significativo fenomeno della Toga Chiacchierona, fenomeno che in queste ore, come è noto, è emerso con una certa nitidezza grazie all’incontenibile parlantina dell’ormai celebre giudice di Cassazione Antonio Esposito, quel qualcuno senza dubbio risponde al nome del generale Mario Mori. Negli ultimi quindici anni, complice una serie di inchieste surreali condotte da alcuni magistrati con una certa tendenza alla forsennata parlantina in ambiti non propriamente processuali, l’ex capo dei Ros ha affrontato a più riprese una serie di pubblici ministeri (do you remember mister Antonio Ingroia, oh yes?) che non hanno mai disdegnato l’idea che fosse lecito portare un’indagine o un processo fuori dai tribunali, e magari di fronte a un taccuino amico o a una telecamera simpatizzante. E alla fine di questa piccola epopea, che lo scorso diciassette luglio si è momentaneamente conclusa con una sentenza di assoluzione in primo grado a Palermo, Mori si è convinto che “per affrontare le toghe chiacchierone, e avere speranza di vincere le proprie battaglie, occorre reagire in modo anche duro e trasformarsi così, in qualche modo, in imputati anomali”.

    Naturalmente, la storia di Mori non c’entra nulla con quella di Berlusconi, ma il pretesto del partito delle toghe chiacchierone (partito a cui possono iscriversi a buon diritto tanto Esposito quanto Ingroia) ci dà la possibilità di svolgere con il generale un ragionamento sul perché capita spesso di ritrovarsi di fronte a processi in cui l’imputato ha la certezza di non avere di fronte a sé, come si dice in questi casi, una giustizia giusta. “Oggi – dice Mori – posso gioire per aver ottenuto un’altra vittoria in un altro processo che mi riguardava, e per aver contribuito a riportare un briciolo di verità in questa assurda storia della trattativa stato mafia. Ma in tutti questi anni ci sono stati diversi momenti in cui ho avuto l’impressione che se fossi stato un imputato diverso – con minore forza, minore preparazione, minor tempo a disposizione, meno soldi da spendere per portare avanti un processo mostruoso come questo, che tra avvocati e spese processuali mi è già costato tanto, e meno voglia di reagire all’interno delle aule di un tribunale a tutte le aggressioni mediatico-processuali che ho ricevuto fuori dalle aule dal tribunale – forse le cose non sarebbero andate come sono andate”. La battaglia cui Mori fa riferimento riguarda il secondo dei tre processi sulla trattativa portati avanti negli ultimi anni dalla procura di Palermo. I primi due processi, nei quali Mori è stato indagato e imputato, si sono conclusi con una doppia assoluzione (sia nel primo caso, quando Mori fu accusato di favoreggiamento mafioso per non aver perquisito il covo di Riina, sia nel secondo caso, quando Mori fu accusato di favoreggiamento per non aver catturato Bernardo Provenzano). Il terzo processo, invece, nel quale Mori è indagato, è in corso e riprenderà a settembre sempre a Palermo e, secondo il generale, ha ormai subito un colpo micidiale. Mori sostiene infatti che l’assoluzione ottenuta un mese fa rappresenta una mazzata per il castello accusatorio dei teorici della trattativa. Non solo perché i giudici, dicendo che il fatto non costituisce reato, hanno riconosciuto che le decisioni prese dai carabinieri sono state legittime; ma anche perché il terzo processo oggi si ritrova a fare i conti con un paradosso non da poco.

    “In quest’ultimo processo – dice Mori – ci sono tre tipologie di imputati: mafiosi, carabinieri e politici. Al momento gli inquirenti non sono riusciti a trovare collegamenti tra mafiosi e politici e di conseguenza, nella loro ottica, il canale di congiunzione non possono che essere i carabinieri. Solo che, capite bene, se i carabinieri, in due processi consecutivi, quelli che avrebbero dovuto dimostrare che i Ros sarebbero stati pappa e ciccia con i mafiosi, sono stati assolti, è evidente che il castello costruito dai pm oggi è ancora più fragile di prima”. Durante il processo, come il lettore ricorderà, il generale si è esposto più volte nel portare avanti una critica severa contro un altro elemento che spesso si accompagna al fenomeno della toga chiacchierona, ovvero il pappagallo della procura, e che costituisce uno dei grandi ingredienti che alimentano le ventole del circuito mediatico-giudiziario. “Durante il mio processo – dice Mori al Foglio – ho spesso osservato la sciatteria con cui molti grandi opinionisti hanno seguito le indagini e il dibattimento, senza mai partecipare a un’udienza e accettando di riprodurre, come dei pappagalli, le tesi della procura. Gli stessi soloni che in questi anni, nel mio processo ma anche in molti altri, si sono limitati a trascrivere nei propri articoli le tesi dei pm non hanno però fatto un torto solo al sottoscritto ma hanno stimolato un meccanismo poco virtuoso che ha prodotto nel nostro paese degli effetti devastanti, e che per molti aspetti si trova all’origine del fatto che oggi la giustizia sia vista spesso come una giustizia non giusta”. Mori si spiega meglio. “Quando la pubblica opinione viene alimentata a bocconi di giustizialismo, e quando i princìpi dell’informazione fanno carne da macello del concetto della presunzione di innocenza solo per vendere qualche copia in più e garantirsi un rapporto con questo o quel magistrato, succede che anche se un giudice deciderà di assolverti sulla tua testa rimarrà sempre una macchia che nessuno potrà toglierti mai più. Che giustizia è questa? Se poi, a questo, aggiungi il fatto che capita spesso che alcuni inquirenti si comportino come se fossero guidati non dal diritto ma da un giudizio culturale, dando l’impressione di agire non come avvocati dello stato ma come degli investigatori che si muovono in modo prevenuto, è evidente che la stessa magistratura può esporsi facilmente a critiche in merito alla sua imparzialità. Io, pensando al mio caso, e pensando in particolare a uno dei grandi testimoni del processo, Massimo Ciancimino, sono convinto che solo una magistratura che si muove seguendo un teorema poteva credere che Ciancimino fosse un testimone credibile; e d’altra parte solo un giornalismo cieco che aveva bisogno di dare in pasto qualche brandello di carne per sfamare gli appetiti dei propri lettori e telespettatori poteva utilizzare Ciancimino come se fosse ‘quasi un’icona dell’antimafia’. Purtroppo – prosegue Mori nel ragionamento – tutto questo nasce da un cortocircuito che da tempo si è venuto a formare nel nostro sistema giudiziario. Un cortocircuito in cui i pubblici ministeri non rappresentano solo la legge ma rappresentano, per così dire, una pretesa punitiva dello stato, e per questo è raro che all’interno di un processo gli stessi pm ammettano i propri errori. Purtroppo questi sono elementi che sono chiari a chiunque abbia avuto a che fare con il sistema giudiziario ed è per questo che dico che in un grande processo che finisce sotto i riflettori l’imputato, anche se sa di avere ragione, spesso si ritrova a combattere solo contro il mondo. E allora mi viene da dire che, purtroppo, non ha torto chi, osservando i cortocircuiti alimentati dalla giustizia, si ritrova a dire che troppo spesso in Italia si verifica un fenomeno terribile: l’impressione di avere di fronte una giustizia non giusta. A me è capitato di avere un giudice giusto a Palermo. Ma non tutti hanno questa fortuna”.

    • Claudio Cerasa Direttore
    • Nasce a Palermo nel 1982, vive a Roma da parecchio tempo, lavora al Foglio dal 2005 e da gennaio 2015 è direttore. Ha scritto qualche libro (“Le catene della destra” e “Le catene della sinistra”, con Rizzoli, “Io non posso tacere”, con Einaudi, “Tra l’asino e il cane. Conversazione sull’Italia”, con Rizzoli, “La Presa di Roma”, con Rizzoli, e "Ho visto l'uomo nero", con Castelvecchi), è su Twitter. E’ interista, ma soprattutto palermitano. Va pazzo per i Green Day, gli Strokes, i Killers, i tortini al cioccolato e le ostriche ghiacciate. Due figli.