Precari immaginari

Redazione

La parola “precariato” è spesso male utilizzata, ma non vi è dubbio alcuno che il nostro mercato del lavoro non produca prospettive di occupazione, come invece dovrebbe. Purtroppo la politica del lavoro in Italia è profondamente carente. Una carenza dovuta anche (o forse soprattutto) a una grave mancanza di comprensione dei rapporti tra mercato del lavoro e attività produttiva in una economia di mercato. Non solo da anni si è insistito sulla necessità di forme di contrattazione salariale centralizzata.

di Alberto Bisin

    Pubblichiamo stralci di “Favole & numeri. L’economia nel paese di santi, poeti e navigatori”, edito da Egea Università Bocconi editore. L'autore, Alberto Bisin, è professore di Economia alla New York University, editorialista di Repubblica e tra i fondatori di noiseFromAmerika.org. Ha scritto anche sul Foglio.

    La parola “precariato” è spesso male utilizzata, ma non vi è dubbio alcuno che il nostro mercato del lavoro non produca prospettive di occupazione, come invece dovrebbe. Purtroppo la politica del lavoro in Italia è profondamente carente. Una carenza dovuta anche (o forse soprattutto) a una grave mancanza di comprensione dei rapporti tra mercato del lavoro e attività produttiva in una economia di mercato. Non solo da anni si è insistito sulla necessità di forme di contrattazione salariale centralizzata. Si sono anche seguite politiche basate sulla convinzione di poter affrontare il mercato del lavoro a mezzo di imposizioni di legge che abrogassero particolari tipologie contrattuali e ne rendessero obbligatorie altre.
    Un esempio per tutti di questa mancanza di comprensione del funzionamento del mercato del lavoro: pensare che combattere il precariato significhi vietarlo, cioè vietare o disincentivare contratti a tempo determinato. E’ per questo tipo di logica incoerente che Sandro Brusco su noiseFromAmerika.org ha coniato il termine “modello superfisso”: l’argomentazione secondo la quale il precariato potrebbe essere vinto vietandolo richiede infatti che il numero di posti di lavoro nell’economia sia fisso e che quindi modifiche nei vincoli contrattuali non abbiano effetti su salari e occupazione; che le imprese non reagiscano a diverse condizioni nel mercato del lavoro. Ma naturalmente i posti di lavoro nell’economia, e le caratteristiche contrattuali degli stessi, sono determinati dalla domanda di lavoro, che dipende a sua volta dalle condizioni di mercato e dai vincoli imposti al suo funzionamento. Ma allora una volta abbandonato il modello superfisso risulta chiaro che:
    • vietare contratti a tempo determinato non risolve il problema del precariato;
    • impedire (o rendere costosi e complessi) i licenziamenti non riduce necessariamente la disoccupazione;
    • prevedere per legge una serie di contratti a tempo determinato non garantisce una maggiore flessibilità del lavoro;
    • infine, imporre simili condizioni salariali e contrattuali a regioni caratterizzate da diversi livelli di produttività non garantisce affatto un mercato del lavoro omogeneo.
    Sarebbe bello se fosse così semplice. Ma non lo è. Vietare contratti a tempo determinato tende a ridurre la domanda di lavoro nel suo complesso, i posti di lavoro e quindi genera disoccupazione, cioè tende a trasformare i precari in disoccupati. Limitare o impedire i licenziamenti ha lo stesso effetto. Permettere contratti a tempo determinato senza riformare il resto del mercato del lavoro porta a un mercato duale e induce al precariato. Imporre simili condizioni salariali e contrattuali a regioni caratterizzate da diversi livelli di produttività favorisce lo sviluppo di disoccupazione, sottoccupazione ed economia sommersa nelle regioni a relativamente bassa produttività.
    L’obiettivo della politica del lavoro dovrebbe essere un mercato del lavoro efficiente in cui contratti a tempo determinato e a tempo indeterminato coesistano; in cui il lavoro sia protetto, ma anche allocato efficientemente ove esso sia più produttivo; un mercato del lavoro sufficientemente flessibile da rendere più rapido trovare un nuovo lavoro e più facile entrare e uscire dalla forza lavoro. Non è semplice costruire istituzioni in grado di supportare un mercato del lavoro che funzioni a questo modo, ma non vi è via d’uscita.

    Sono quarant’anni che in Italia siamo attanagliati dalla logica della contrattazione salariale centralizzata, associata alla regolazione per legge delle forme contrattuali: i risultati sono sotto gli occhi di tutti. E non è un caso: tutta la teoria economica ci dice che interventi diretti per regolamentare prezzi e condizioni contrattuali portano a gravi inefficienze. Anche qui un esempio per tutti: i contratti di equo canone, che sono falliti ovunque nel mondo, e per le stesse ragioni per cui il nostro mercato del lavoro è un fallimento.
    Non si tratta di americanizzare il mercato del lavoro italiano, di non proteggere il lavoro, ma si tratta di farlo in modo indiretto, liberando – invece di soffocare – le forze di mercato che portano allo sviluppo dell’attività produttiva e quindi alla domanda di lavoro. Non si tratta di fiducia nel dio mercato; si tratta di comprendere come i mercati funzionano al di là delle favole e di sfruttarli per ottenere l’obiettivo desiderato, un mercato del lavoro efficiente. Se i lavoratori italiani hanno salari tra i più bassi in Europa, ci sarà pur qualcosa che non funziona in Italia e che pesa sulle spalle dei lavoratori nel nostro paese. Vedremo anche che questo peso non proviene solo, e forse nemmeno principalmente, dal mercato del lavoro stesso. Ma andiamo per gradi.

    La lotta di classe e l’assalto a Marchionne
    Nonostante la situazione drammatica del mercato del lavoro in Italia, continuiamo a raccontarci la favola della lotta di classe, nella versione movimentista del “salario variabile indipendente” di sraffiana memoria. Secondo questa favola, proteggere i lavoratori significa antagonizzare il datore di lavoro, ottenere migliori condizioni salariali e contrattuali a livello centrale, indipendentemente dalla produttività dell’impresa, e impedire a ogni costo licenziamenti e riconversioni.
    Basta andare al recente dibattito seguito alla questione Fiat per comprendere quanto la favola della lotta di classe porti a combinare l’iperbole retorica alla povertà di analisi e di idee: “Nella visione di Marchionne, l’impresa è una cattedrale senza Dio. […] L’impresa è una tastiera di uomini e cose altrettanto regolate, altrettanto ubbidienti. In questa visione, il sindacalista diventa un kapò”, scrive un altrimenti ragionevole Furio Colombo. E Luigi De Magistris: “Mirafiori e Pomigliano: benvenuti nell’éra del nuovo schiavismo, della riduzione del lavoratore a merce nel mondo della mercificazione globale, dell’emarginazione del sindacato fedele a se stesso, della distruzione dell’unità sindacale e del Contratto nazionale di lavoro, della soppressione della Costituzione, della morte della concertazione, del tramonto del conflitto sociale per mezzo del quale i deboli tentano di ridefinire gli equilibri di forza in loro favore, dello stravolgimento dei rapporti industriali a vantaggio datoriale”. Beppe Giulietti: “Questo sarà il quesito referendario che le lavoratrici e i lavoratori della Fiat si troveranno sulla scheda, sarà una innovazione interessante che finalmente ci metterà alla pari con le più avanzate democrazie liberali: dalla Cina alla Corea del nord, passando per la Birmania”. Non mi sogno di prendere parte nella questione specifica di Mirafiori e di Pomigliano: non ho dubbi che la Fiat faccia i propri interessi e che questi siano spesso opposti a quelli dei lavoratori. Ma la reazione alla politica industriale della Fiat in Italia, che queste citazioni ben rappresentano, ha proceduto senza alcuna seria analisi della situazione del settore dell’auto, senza una disamina della produttività relativa delle varie fabbriche, senza la consapevolezza di quanto la produttività totale dei fattori (infrastrutture, giustizia, servizi pubblici, amministrazione locale…) influisca sulla competitività del settore, senza comprendere né discutere i vincoli del mercato internazionale… nulla. Solo la solita favola del secolo scorso: lavoratori contro padroni, condita da iperboli sullo schiavismo, paralleli arditi con la Corea del nord, tanta retorica e anche ignoranza.

    Pochi (e certo non io) dubitano che il lavoro vada protetto. Ma vi sono vari modi per farlo ed è quindi fondamentale comprendere bene gli effetti di diverse forme di protezione. In Italia la protezione legale dell’occupazione consiste di norme che restringono o rendono costosa la possibilità di licenziare un lavoratore. Queste sono tipicamente norme che proteggono direttamente il posto di lavoro; per esempio, pagamento di un indennizzo al lavoratore licenziato pari a un certo numero di settimane di stipendio, compensazione o reintegrazione del lavoratore in caso di licenziamento senza giusta causa, limitazioni temporali al periodo di prova o alla durata e all’utilizzo dei contratti a tempo determinato, e così via. Queste norme sono relativamente stringenti nel nostro paese. Al contrario, del tutto inadeguato è il sistema di ammortizzatori sociali atto a proteggere il lavoratore che abbia perso il posto di lavoro, per esempio perché licenziato con giusta causa o soprattutto in seguito a un licenziamento collettivo.

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    I camerieri a tempo, senza complessi
    Vale la pena tornare sulla questione del lavoro precario. Come abbiamo visto il lavoro precario è una necessaria conseguenza della protezione dell’occupazione così come è concepita in Italia, cioè come protezione del posto di lavoro. Ma attenzione, lavoro precario non è sinonimo di lavoro a tempo determinato; questa è una confusione comune ed estremamente dannosa dal punto di vista concettuale. “Chi parla male pensa male”, diceva Nanni Moretti nel film “Palombella rossa”. Quella di precario è la condizione in cui si trova un lavoratore a tempo determinato in una occupazione con minime prospettive di avanzamento in carriera e/o di trasformazione a tempo indeterminato e in un mercato di lavoro caratterizzato da alta e cronica disoccupazione. L’esempio tipico in Italia è quello dei giovani impiegati nei call center.
    Un mercato del lavoro ben funzionante produce in generale molti posti di lavoro a tempo determinato, specie qualora le caratteristiche richieste nel lavoratore siano difficilmente osservabili all’assunzione o nel caso di progetti limitati nel tempo. Sarebbe scorretto però definire questi posti di lavoro come precari. La precarietà sopraggiunge quando il lavoro non ha prospettive di carriera e/o quando la transizione da un lavoro a un altro comporti in media lunghi periodi di disoccupazione.
    Non mi sogno di proporre un mercato del lavoro come quello americano per l’Italia (non solo perché facendolo nel nostro paese si finisce per essere insultati e non compresi). Mi è ben chiaro che la minima protezione dell’occupazione negli Stati Uniti è inaccettabile non solo in Italia, ma generalmente in Europa. Ciononostante mi preme notare che tale scarsa protezione dell’occupazione ha ovvi costi, ma anche vantaggi derivanti dalla dinamicità e flessibilità del mercato del lavoro che ne risulta. Ed è importante, nel contesto dell’argomentazione di questo capitolo, evidenziare che i vantaggi non vanno affatto solo alle imprese, ai padroni secondo la favola della lotta di classe, ma anche ai lavoratori.
    La parola precariato non esiste negli Stati Uniti. Pochi hanno lavori a tempo indeterminato, ma la dinamica del mercato del lavoro è tale che perdere il lavoro non è un dramma in una situazione normale (non così in una recessione; qui è dove la mancanza di protezione si sente maggiormente). Non solo: cambiare lavoro è spesso una decisione del lavoratore, a tutti i livelli, non solo a quelli manageriali. New York è una delle città tra le più eccitanti, allegre, interessanti, vive, e produttive del mondo. Qui i giovani che noi chiameremmo precari sono molti, moltissimi. Fanno i camerieri mentre provano a scrivere the best american novel of the century, i maestri di ginnastica mentre provano a fare gli attori, le modelle, gli artisti, mentre studiano. Lasciano un lavoro e ne trovano un altro con disarmante facilità. E così è comune vedere il fisioterapista che nel giro di un mese ha deciso che New York è stressante (e fa freddo) e si è trasferito in un paesino di mare a Long Island; l’avvocato che a quarant’anni ha deciso di avere fatto abbastanza soldi a Wall Street e ha aperto una galleria d’arte o un ristorante; o qualcuno che invece a quarant’anni si è stancato di non fare una lira come artista, scrittore, accademico, attore o si è stancato (o stancata) di accudire ai figli e ha trovato un “lavoro vero”, magari passando prima per l’università. Non solo, ma tutte queste scelte sono spesso temporanee: “Ci provo, per un anno, forse meno, poi vediamo”. Il tutto deciso e organizzato in pochi mesi. Questa non è precarietà; è libertà, è qualità della vita; e si trova a tutti i livelli sociali: probabilmente ne godono di più gli avvocati e i medici, ma anche i maestri di ginnastica, gli insegnanti, le segretarie e gli infermieri.
    L’incertezza è spesso inevitabile e necessaria in una società viva, creativa e produttiva. Si pensi al mondo dell’università e della ricerca. Non vi è ricerca senza rischi. Investire in ricerche dove si cerca quello che si è già trovato, è un ovvio controsenso. In ogni dipartimento di economia serio che io conosca, solo un quinto circa degli studenti di dottorato ammessi in media produce dopo quattro o cinque anni (la durata tipica del dottorato) lavori di ricerca di qualità sufficiente a ottenere un buon lavoro accademico. Di questi solo una frazione continua a fare attività di ricerca dopo sette o otto anni (la lunghezza tipica del primo contratto di lavoro). Gli altri, potremmo dire, hanno ricercato e non hanno trovato. Ma ciononostante, in un mercato del lavoro flessibile e dinamico, trovano lavoro: insegnano, fanno politica nei paesi di origine. Molti finiscono a Wall Street. E fanno programmi, si comprano casa, e quelli più fortunati riescono addirittura a riprodursi!

    Racconto questo solo per provare a dissipare gli incubi che la favola truce che si racconta in Italia sul mercato del lavoro americano deve inevitabilmente produrre nelle menti suggestionabili dei miei connazionali. No, davvero, l’America non è poi così infestata di orchi come la racconta il sociologo Luciano Gallino: “La legislazione e giurisprudenza statunitensi sulle libertà sindacali sono assai più arretrate che in Europa. […] Assumendo crumiri al posto di lavoratori in sciopero, per esempio, oppure esercitando pressioni inaudite sul singolo lavoratore affinché non segua le indicazioni del sindacato. Il tutto nel rispetto della sottosviluppata legislazione del luogo”. Come dicevo, non credo che la struttura del mercato del lavoro negli Stati Uniti possa né debba essere applicata in Italia (da qui a caratterizzarla come “sottosviluppata legislazione”, ci sono solo paraocchi ideologici molto spessi e una certa dose di ignoranza). Abbiamo visto però che sia l’analisi teorica sia i dati implicano che il precariato, quello vero, quello che caratterizza il mercato del lavoro in Italia, risulta particolarmente diffuso in presenza di mercati del lavoro duali, in cui il lavoro precario è utilizzato dalle imprese al margine, quando assunzioni a tempo indeterminato siano sfavorite dalla presenza di forti vincoli e costi associati alla cessazione dei rapporti di lavoro. Non è un caso quindi se in Italia il precariato è divenuto un fenomeno importante dalla riforma del mercato del lavoro degli anni Novanta, la riforma Treu (e il suo proseguimento, la legge Biagi). Quella normativa aumentò la flessibilità del mercato del lavoro, permettendo così la creazione di nuovi posti di lavoro, e riducendo la disoccupazione. Ma non cambiò forma e struttura delle protezioni e delle garanzie sul mercato, e ciò al costo di accentuarne la dualità. Ritornare a limitare per legge l’uso di contratti a tempo determinato non è quindi una soluzione, perché in questo caso l’eliminazione del precariato avverrebbe a costo di un più elevato tasso di disoccupazione, come era il caso negli anni Ottanta. Al contrario, sistemi di protezione noti come flexicurity, che proteggono il lavoratore nel caso di perdita del posto di lavoro (ma non garantiscono il posto di lavoro in sé), tendono a limitare notevolmente la diffusione del lavoro precario, pur aumentando i flussi tra occupati e disoccupati.

    di Alberto Bisin