Tra il palazzo e le urne

Nell'Iran al voto c'è chi sogna un candidato che mangi la pizza

Tatiana Boutourline

Tra i candidati alle presidenziali iraniane non c’è mai stato nessuno come Zahra. Ha 52 anni e se li porta tutti addosso, non può essere tacciata di avere un aspetto o tic da “occidentalizzata”. E’ una donna del popolo che parla pane al pane e non si inerpica in citazioni filosofiche. A differenza di Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, leader dell’Onda verde e della piazza per default, Zahra non ha paura. Provoca con domande irrituali: “Imporre il velo alle donne e lapidarle vi ha reso musulmani migliori?,” e il suo sarcasmo non risparmia neanche l’ayatollah Ali Khamenei.

    Tra i candidati alle presidenziali iraniane non c’è mai stato nessuno come Zahra. Ha 52 anni e se li porta tutti addosso, non può essere tacciata di avere un aspetto o tic da “occidentalizzata”. E’ una donna del popolo che parla pane al pane e non si inerpica in citazioni filosofiche. A differenza di Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi, leader dell’Onda verde e della piazza per default, Zahra non ha paura. Provoca con domande irrituali: “Imporre il velo alle donne e lapidarle vi ha reso musulmani migliori?,” e il suo sarcasmo non risparmia neanche l’ayatollah Ali Khamenei. “Dove, al mondo, troverete un paese con elezioni più libere che in Iran?”, ha chiesto il Leader supremo, lei gli ha risposto: “Io un’idea ce l’avrei, suggerimenti amici miei?”. Zahra è una candidata “virtuale” e il quartier generale della sua campagna elettorale è un sito – Vote 4 Zahra – nato sulla scia del fortunato fumetto “Zahra’s Paradise”.

    Il fatto che non sia una persona in carne e ossa non l’ha resa meno reale: da tutto il mondo arrivano ogni giorno adesioni alla sua campagna elettorale e in Iran la macchina della propaganda l’ha presa molto sul serio denunciandola come un virus. Nata dalla collaborazione tra lo scrittore persiano Amir Soltani e il disegnatore arabo Khalil, Zahra non è una creatura di fantasia: si ispira a Parvin Fahimi, la madre di un ragazzo ucciso nell’estate del 2009. “Abbiamo guardato centinaia di filmati – racconta al Foglio Soltani – e tra i pestaggi, le grida, la disperazione dei volti dei genitori, dei fratelli e delle nonne in coda per avere notizie dei dispersi risucchiati nella prigione di Evin, ritrovavamo sempre quello della madre di Sohrab”. Parvin ha visto suo figlio l’ultima volta il 15 giugno del 2009, “l’ho perso durante una manifestazione pacifica in una folla di tre milioni di persone”. Ogni giorno tornava a Evin con le stesse domande e la stessa foto. Le rispondevano sempre di tornare a casa, che di suo figlio non c’erano informazioni se non che forse “era stato trasferito”. Un mese dopo le fu detto che era morto. Sohrab per uno strano cortocircuito simbolico è anche il nome di uno dei personaggi più amati e più tragici della letteratura iraniana, un figlio ucciso da un padre. Raccontando Parvin, Zahra incarna la storia di tutte le Parvin del 2009, le madri che i bassiji cacciano dai cimiteri perché quando la memoria fa paura non sono sacre nemmeno le preghiere, madri che hanno perso tutto e si permettono di irridere il potere. Come dice il comico iraniano Kambiz Hosseini “c’è un limite alle lacrime e quando lo superi, se sopravvivi, devono arrivare anche le risate”.

    Quattro anni fa, prima che i cecchini sparassero dai tetti di Teheran come in un videogame, ci furono molte risate nella stagione pre-elettorale. I comizi si svolgevano all’aperto e, considerando che le grandi occasioni di incontro collettivo in Iran sono manifestazioni per gridare “morte all’America”, l’atmosfera del 2009 era particolarmente scanzonata. Ogni tanto qualcuno osava persino mettere la musica e si tirava fino a tardi, ben oltre il comizio, e la polizia chiudeva un occhio. Quest’anno i candidati hanno ottenuto il permesso di riunirsi nelle piazze soltanto per l’ultimo giorno della campagna elettorale, i militanti hanno gridato i loro slogan dai megafoni e le macchine hanno invaso le strade strombazzando. Questa volta gran parte dei discorsi dei presidenziabili s’è svolta al chiuso, spesso in deprimenti seminterrati, con meno giovani e meno donne che nel 2009. La presenza delle forze di sicurezza è stata ubiqua e minacciosa. “Nessuna insubordinazione passerà quest’anno”: il capo della polizia lo ha ribadito più volte. Non c’è traccia della leggerezza di quattro anni fa e i candidati sembrano più che altro interessati a comunicare nelle interviste televisive, su Facebook e ancor più su Twitter. Mentre Internet funziona a singhiozzo e tutti paventano il coma informatico durante il voto; mentre i siti web dei falchi rivendicano la libertà di stampa e tutti paventano l’annunciata “rete nazionale” che, a detta delle autorità, velocizzerà le connessioni e, secondo gli osservatori, sigillerà gli iraniani come farfalle sotto una campana di vetro, i presidenziabili hanno puntualmente dato conto di ogni apparizione, dichiarazione, smentita, attacco inferto e ricevuto in farsi in inglese e nel caso di Saeed Jalili – che contende a Rouhani la palma di twitterer più bulimico – anche in arabo.

    Così i media internazionali, abituati ai discorsi prolissi e peripatetici dei politici iraniani, si sono ritrovati ad analizzare con attenzione le promesse dei candidati, mentre nelle ultime ore non si fa che parlare dell’ipotesi di un secondo turno, una sfida a due che, nelle previsioni, vede sempre presente Ghalibaf. L’economia doveva essere il fulcro della campagna elettorale, ma le ricette sono state perlopiù fumose (Jalili consiglia di seguire l’etica islamica come panacea di tutti i mali) e, inevitabilmente, per la comunità internazionale, l’interrogativo da porsi è soprattutto se a Teheran cambierà qualcosa con la dipartita di Mahmoud Ahmadinejad. Se come scrive Meir Javedanfar su Bloomberg, Khamenei dovrà adottare la strategia di Warren Buffett, ossia ascoltare i suoi azionisti quando fa un investimento, per la comunità internazionale non c’è molto da star allegri. Gli azionisti di Khamenei sono pasdaran e conservatori falchi, tra le diverse anime del regime, i meno inclini alle concessioni. C’è pure chi dice che, se un accordo andrà mai in porto, non potrà che essere siglato con il placet dei duri e puri e quindi tanto vale averli a bordo. Tra i candidati presidente non c’è nessuna Zahra, ma ogni sfumatura di grigio ha la sua peculiarità: Saeed Jalili, l’attuale negoziatore nucleare, è percepito come il più indifferente alle profferte occidentali; Ali Akbar Velayati, ex ministro degli Esteri e consigliere di Khamenei, è un falco realista che ha implicitamente ammesso durante i dibattiti di non considerare le sanzioni un male necessario, ma al momento non si sa nemmeno se è ancora in corsa; Hassan Rouhani, il “moderato”, è un’incognita: è stato il negoziatore nucleare di Mohammed Khatami quando l’Iran accettò la sospensione “volontaria e temporanea” dell’arricchimento dell’uranio. Ma se, come dice l’escluso Ali Akbar Hashemi Rafsanjani, i pasdaran sono entrati nel Consiglio dei Guardiani proprio per bocciare la sua candidatura, chissà cosa possono fare con Rouhani, che è uomo di Rafsanjani. Ghalibaf, il sindaco di Teheran digiuno di politica estera, ha dichiarato di conoscere  i limiti dell’azione presidenziale e ha chinato il capo con deferenza dinnanzi all’autorità di Khamenei. Potrebbe essere la ricetta per la vittoria, sempre che il Leader supremo si convinca che il suo sindaco terrà le ambizioni sotto controllo. Partito in sordina, un po’ in ombra tra i bookmaker rispetto al papabilissimo Jalili, Ghalibaf si è conquistato consensi in tutti gli ambienti.

    Quest’anno quelle degli iraniani sono speranze minime e anche chi andrà alle urne mosso dalle parole di Rouhani contro la censura e a favore dei prigionieri politici sa quanta distanza ci sia tra gli auspici veri o verosimili e la realtà. Ghalibaf non si presenta affatto come un campione dei diritti civili, promette un paese più efficiente in cui vivere e chi guarda a Teheran gli crede. La capitale ha guadagnato più di 12 chilometri di verde, è diventata più pulita e meno congestionata, Ghalibaf si è occupato della periferia, ha costruito cavalcavia e superstrade, concesso licenze a nuovi cinema e centri culturali, ha assunto tecnici e manager che non si sono fatti mal volere. Anche i critici ammettono che ha lottizzato, ma con garbo. Basterà la cartolina dell’Iran come una grande Teheran a ripagarlo della lunga attesa nelle retrovie? Qualche giorno fa l’Afp ha intercettato le intenzioni di voto di un gruppo di ragazzi. “Non voglio un presidente che mangi pane e formaggio e voglia farlo mangiare anche a me – ha detto un giovane militante – voglio un presidente che mangi la pizza e metta a posto l’economia!”. Tifava Rouhani, ma la descrizione è perfetta anche per l’immagine pubblica che si è ritagliato Ghalibaf. Poi certo non è detto che la pizza vada giù a Khamenei.