Il “moderato” in Iran è un mullah-tecnico con una chiave in mano

Tatiana Boutourline

Martedì 4 giugno in Iran è stata una giornata particolare. A Teheran lo stato maggiore del regime commemorava la morte dell’ayatollah Khomeini e la Nazionale di calcio batteva il Qatar in una partita per la qualificazione ai Mondiali. Mentre Mohammad Bagher Ghalibaf e Saeed Jalili facevano a gara per farsi immortalare il più vicino possibile al Leader supremo, il “candidato moderato” alle presidenziali del prossimo 14 giugno Hassan Rouhani è corso a Isfahan a piangere la dipartita dell’ayatollah Taheri. Una scelta strana, che ad alcuni è parsa una mossa suicida e ad altri un azzardo denso di presagi.

    Martedì 4 giugno in Iran è stata una giornata particolare. A Teheran lo stato maggiore del regime commemorava la morte dell’ayatollah Khomeini e la Nazionale di calcio batteva il Qatar in una partita per la qualificazione ai Mondiali. Mentre Mohammad Bagher Ghalibaf e Saeed Jalili facevano a gara per farsi immortalare il più vicino possibile al Leader supremo, il “candidato moderato” alle presidenziali del prossimo 14 giugno Hassan Rouhani è corso a Isfahan a piangere la dipartita dell’ayatollah Taheri. Una scelta strana, che ad alcuni è parsa una mossa suicida e ad altri un azzardo denso di presagi.
    Quello di Taheri non era un funerale qualsiasi perché Taheri non era un ayatollah qualsiasi né per Khamenei né per Rouhani. Nel 2002 Taheri gelò l’establishment clericale dimettendosi da guida della preghiera del venerdì di Isfahan. Scrisse le sue ragioni in una lettera aperta indirizzata a Khamenei. Non poteva continuare – spiegò – perché la rivoluzione aveva “perso la sua strada”. Disse che gang mafiose agivano in nome della religione e che i fascisti, dopo essersi arrampicati sulla scala dell’islam, saltavano su cammelli politici. Rouhani, allora a capo del Consiglio supremo per la sicurezza nazionale (ora in mano a Jalili), ordinò a tutti gli organi di stampa di ignorare lo scandalo Taheri e il giorno successivo alcuni quotidiani se ne uscirono con una pagina bianca.

    Così, quando Rouhani si è materializzato a Isfahan a onorare l’uomo che 11 anni fa aveva censurato, per lui un cerchio si è chiuso e chissà che non se ne sia aperto un altro mentre, dietro il feretro di Taheri, migliaia di persone invocavano: “Moussavi!”, “Montazeri!”, “Rouhani!”, “Morte al dittatore Khamenei”. Suzanne Maloney della Brookings Institution ha pubblicato un articolo dal titolo “Rouhani goes to Isfahan. Why Iran’s elections may get interesting”: la domanda sulla bocca di tutti è a che gioco gioca Rouhani.
    Hassan Rouhani si presenta come l’ibrido tra un tecnocrate realista e un misurato campione del risveglio civico. E’ l’unico appartenente alla gerarchia sciita tra gli otto contendenti alle elezioni, ha 64 anni, una barba bianca tutt’altro che ieratica e una naturale propensione a dispensare battute e sorrisi. E’ l’incarnazione del mullah di mondo: è stato parlamentare, ha ricoperto incarichi militari e vanta un sodalizio trentennale con Hashemi Rafsanjani (due dei figli dello Squalo erano presenti all’annuncio della discesa in campo). Per due anni (2003-2005) è stato il “no nonsense nuclear negotiator” di Khatami (così lo definì all’epoca la Nbc), il regista della sospensione “volontaria e temporanea” dell’arricchimento dell’uranio negoziata con Londra, Parigi e Berlino, poi rinnegata dal presidente uscente Mahmoud Ahmadinejad.

    Annoverato come un conservatore pragmatico ben visto dai falchi e non inviso ai riformisti, presiede il Centro di studi strategici di Teheran, un think tank dove regna il realismo piuttosto che l’ideologia e, da quando il Consiglio dei guardiani ha fermato la corsa di Rafsanjani, c’è chi spera che Rouhani, con la sua reputazione da grand commis dello stato rivoluzionario, possa raccogliere il suo testimone. Partita in sordina, con lo scotto di un volto poco riconoscibile, la campagna di Rouhani ha segnato nell’ultima settimana molti punti a favore, anche in virtù del demerito dei suoi avversari. Nello sconquasso del fronte conservatore, con il trio Velayati-Haddad Adel-Ghalibaf che da settimane deve scegliere l’uomo della provvidenza e non si decide, Rouhani guadagna terreno. Dosa sapientemente ricette economiche e accenni alla libertà d’espressione e si distingue nelle apparizioni televisive perché risponde alle domande, piuttosto che lasciarsi andare a un “flusso di coscienza”. Polemizza e non perde il controllo, poi quando serve, assume un’aria bonaria da uomo della strada come se da tutta la vita si allenasse a fare il candidato. Al dibattito tra i candidati ieri ha dato il meglio di sé, i commentatori stranieri non facevano che parlare di Rouhani, il quale ha scelto slogan molto rooseveltiani: non si può vivere con la paura, dice, non si può governare con la paura – e così intende dire che il regime in qualche modo deve cambiare, al contrario di quel che sostiene la Guida suprema, Ali Khamenei, refrattaria a ogni cambiamento. C’è chi parla già di un “Khatami 2”, ricordando quella stagione della politica iraniana “illuminata” (e anche truffaldina), mentre online non fanno che rimbalzare le parole a sostegno dei ragazzi nelle università, e le aperture alla “cultura globale: siamo parte del mondo”.

    La corte ai businessmen
    Rouhani strizza l’occhio ai businessmen frustrati, “gli amici e gli alleati dell’Iran si contano sulle dita di una mano”, al bazaar e alla classe media “imbracciamo lo slogan della resistenza ma quando arriviamo all’economia non c’è resistenza e non c’è giustizia” e tende la mano ai cosiddetti sedizionisti. Sabato scorso durante un comizio un gruppo di sostenitori ha iniziato a scandire il saluto/invocazione: “Viva Moussavi, Salve Rouhani”. “Il 2013 non sarà il 2009” ha risposto Rouhani alla folla che lo acclamava. “Il nostro popolo merita più pace, più libertà, più prosperità, più onore, più sicurezza. Tutto questo sarà possibile solo se voi ci sarete”. Rouhani è troppo scaltro per non sapere che il nome di Moussavi e la sua immagine brandita da decine di braccia avrebbero creato problemi. La sera stessa, sette tra sostenitori e membri del suo staff sono stati arrestati e Rouhani, l’insider consumato, si è trasformato tutto d’un tratto nel “candidato scomodo”, l’anima critica del regime pronta ad accogliere gli orfani dell’Onda verde. Naturalmente, c’è chi non ha gradito. Come Mohammad Karroubi, uno dei figli di Mehdi Karroubi, l’altro “leader” dell’Onda verde agli arresti domiciliari, che ha precisato: Rouhani “non ha detto una parola negli ultimi quattro anni” sulle violenze del regime contro i manifestanti. Chi tifa Rouhani sostiene, invece, che i vecchi scheletri nell’armadio sono irrilevanti, che era inevitabile che Rouhani fosse il Catone di Taheri, che l’età dell’innocenza è finita e serve un presidente capace di risalire la corrente del sistema, “uno di loro” in grado, forse, di alleggerire il clima, perché cambiarlo pare una chimera.
    Anche questa è una scommessa ambiziosa: la scaltra “moderazione” di Rouhani potrebbe risultare indigesta all’“imparziale” Khamenei e il vignettista Mana Neyastani rappresenta il candidato sincretista con un sorrisetto sardonico sul viso paffuto, mentre tiene tra le mani l’iconica chiave simbolo della sua campagna elettorale, e la tende verso una di quelle porte che si aprono solo con la combinazione.