Ai caduti

Marianna Rizzini

Non c'è il mare cupo dell'esilio a Sant'Elena, con l'orizzonte di pioggia da scrutare, i quattro passi sul ciglio della scogliera e tutta la rabbia che ancora ribolle, anche se lo spauracchio di Napoleone (“vivere sconfitti e privi di gloria è come morire ogni giorno”) ogni tanto s'affaccia, subito ricacciato. Non c'è un'ex diva del muto chiusa nella sua villa in sontuosa decadenza, tra foto dei bei tempi andati e ossessione per la fama troppo in fretta svanita, anche se l'idea di trovarsi in qualche modo su un “Viale del tramonto” ogni tanto s'affaccia, subito ricacciata. Non c'è neppure (per fortuna) un dramma da Prima Repubblica sbaraccata da Tangentopoli. C'è una caduta silenziata, attutita. Un tonfo che non è parso neppure un tonfo.

Campi Come si rifà un sindaco

    Non c’è il mare cupo dell’esilio a Sant’Elena, con l’orizzonte di pioggia da scrutare, i quattro passi sul ciglio della scogliera e tutta la rabbia che ancora ribolle, anche se lo spauracchio di Napoleone (“vivere sconfitti e privi di gloria è come morire ogni giorno”) ogni tanto s’affaccia, subito ricacciato. Non c’è un’ex diva del muto chiusa nella sua villa in sontuosa decadenza, tra foto dei bei tempi andati e ossessione per la fama troppo in fretta svanita, anche se l’idea di trovarsi in qualche modo su un “Viale del tramonto” ogni tanto s’affaccia, subito ricacciata. Non c’è neppure (per fortuna) un dramma da Prima Repubblica sbaraccata da Tangentopoli. C’è una caduta silenziata, attutita. Un tonfo che non è parso neppure un tonfo. Un giorno dopo che si confonde col giorno prima, e però, per quanto sembri il giorno prima, è comunque il giorno dopo.

    Ad Antonio Di Pietro, sconfitto nelle urne, è arrivata la classica botta che non ti aspetti, senza neppure la battaglia: Idv ed ex pm fuori dal Parlamento, il fratello-coltello Beppe Grillo al venticinque per cento, il Pd lontanissimo dalla foto di Vasto e l’entusiasmo degli ex seguaci falcidiato dalle inchieste di Milena Gabanelli sugli investimenti immobiliari del partito.

    A Gianfranco Fini, sconfitto nelle urne, si è spalancata l’ultima porta di un lento scivolare nell’oblio, scongiurato nei due anni precedenti a intervalli, ma ogni volta con meno vigore (spallata al Cav. fallita nel lontano 14 dicembre 2010, montismo protratto oltre i termini, progetto di Futuro e libertà mai davvero decollato – e infatti praticamente affossato, anche se nominalmente rifondato in questi giorni). In entrambi i casi, non un’uscita di scena drammatica e teatrale. Ed è forse questa la tragedia nella tragedia, la mancanza di tragicità.

    Il giorno dopo, uno dei tanti “giorni dopo” nella primavera dello scontento, si apre sul pomeriggio del bar Hungaria, al quartiere Parioli, dove Gianfranco Fini, ex presidente della Camera ed ex presidente di Fli, in compagnia della moglie Elisabetta Tulliani, prende un aperitivo a base di prosecco e patatine, fuori orario (sono le sei del pomeriggio) e fuori zona rispetto alla celebre abitazione di Val Cannuta, quartiere Aurelio, quinto piano, vasta metratura e terrazzo decorato da un’aquila di pietra appollaiata sul davanzale – e proprio l’aquila entra in gioco, a questo punto. La leggenda, sempre compagna delle cadute, persino di quelle in sordina, narra infatti di un Fini che, all’indomani delle elezioni, riflette in piedi vicino all’aquila; un Fini assorto che per sette e più notti torna a fumare con ritmi intensivi dopo i faticosi ma volenterosi anni del non-fumo, segnati dal frequente ricorso alla gomma da masticare (i cronisti ricordano le interviste con chewingum ai tempi del “Che fai, mi cacci?”, detto dall’allora ribelle Fini all’allora premier Silvio Berlusconi, ma ora del chewingum, dicono, non c’è più traccia). Questo Fini notturno, secondo un osservatore vagamente simpatetico, “sembrava, quanto a tormento, il Papa di Nanni Moretti, ma senza psicanalista e con ansia da post prestazione, invece che da prestazione”. Il Fini diurno, invece, arriva come d’abitudine alla Camera di buon mattino – in un ufficio, ma naturalmente non nel suo ex ufficio, e neanche nell’ufficio un tempo riservato agli ex presidenti della Camera nominati presidenti dell’allora Fondazione Camera dei deputati (poi abolita). C’è, l’ufficio, ma ha la porta sul retro (non è nel complesso principale). Ci sono i giornali – non tantissimi, proprio come prima delle urne fatali, tanto che ancora oggi ci sono frequentatori della Camera che paragonano la mazzetta di quotidiani di Fausto Bertinotti (immensa) a quella di Fini (nella media). Ma si sa, quella di Bertinotti è un’altra storia: crollo elettorale nel 2008, uscita scioccante dal Parlamento, ma anche traversata nel deserto tutto sommato non spiacevole, con molte oasi, grandi studi operaisti, lunghi saggi antivendoliani (non bisognava “salire sul treno”, è il messaggio per Nichi) e significative serate in compagnia trasversale, con prove d’attore in produzioni pop targate Alda Fendi.

    Nell’ufficio solitario di Fini c’è il pensiero (“fa riflessioni”, dice un amico), la passione chissà. D’altronde all’ex presidente della Camera non si possono retrospettivamente abbinare altre vite se non quella politica, stemperata con momenti anche frequenti di non-politica totale (che facevano la gioia dei direttori di rotocalco): le scorribande subacquee, l’abbronzatura, la passeggiata del weekend, il disimpegno normale da famiglia normale, raro presso la famiglia dell’uomo partitico. Ed è un corpo a corpo quotidiano adesso, quello tra il Fini che alla politica attiva ha rinunciato e il Fini che nella politica fatta da lontano vorrebbe entrare (con una fondazione o addirittura con un nuovo libro), e che però ha la testa ad altro: non proprio al dissimulato risentimento, ma alla sensazione “di aver fatto la battaglia giusta e di voler essere giudicato dalla storia” (reminescenza mussoliniana?), così l’hanno sentito parlare tra un silenzio e l’altro. Scrivere, dunque, questa è la strada che si è prefigurato. Scrivere per “elaborare” e “proseguire”, seppure dalla pensione, un percorso che pareva trionfale quando era troppo presto (“Barack Obama guarda a Fini”, dicevano gli esperti di politica internazionale; “Fini tentazione della sinistra moderata”, assicuravano gli osservatori di smottamenti nazionali tra il 2009 e il 2010, quando l’eterno secondo, ex leader dei giovani Msi, ex autore della svolta di Fiuggi, ex sdoganatore della destra reietta, sembrava pronto per diventare il primo). Era troppo presto, ma ora che è troppo tardi e il primo posto sognato è diventato grosso modo l’ultimo, anche scrivere un libro da totus politicus sconfitto si è fatto arduo, e il blocco da foglio bianco di cui parlava Woody Allen resta in agguato durante le mattine trascorse tra gli appunti. Dopodiché gli amici di Fini dicono: “Sta benissimo”, “è sereno”, “ha molte idee”, “vuole stare lontano dalle beghe da prima linea”, “vuole mettere a frutto l’esperienza anche internazionale”, ma non per le europee, ché a quelle rivolgono ogni speranza i suoi successori al vertice di quel che resta di Fli (triumvirato capeggiato da Roberto Menia, con Aldo Di Biagio e Daniele Toto).

    Ma il giorno dopo, uno dei tanti “giorni dopo” nella primavera dello scontento, può aprirsi anche davanti allo schermo di un computer qualsiasi, in una qualsiasi redazione. C’è un Antonio Di Pietro fantasma che fa capolino da Twitter e poi da Facebook e poi dalle agenzie: Grillo con più del venti per cento doveva prendersi la “responsabilità di governare”, dice un tweet che ribadisce quanto detto in tv a “L’aria che tira”; Luigi Preiti (l’uomo che ha sparato ai carabinieri davanti a Palazzo Chigi) non deve essere preso a pretesto “per l’inciucio”, dice un post; “occorre cambiare subito questa vergognosa legge elettorale”, “dobbiamo tornare al voto”, “sull’Imu il governo fa il gioco delle tre carte”, dicono tweet e post insieme. I colori che appaiono sullo schermo sono quelli da campagna “NoB.” giocata al massimo del grandguignol (rosso da Fatto quotidiano; azzurro da ex Forza Italia, ma usato contro il Cav. e di rimando contro il Pd, oggetti di fotomontaggi in cui il Cav. compare in posa da burattinaio e il premier Enrico Letta, con il vicepremier Angelino Alfano, in posa da burattini). I toni sono gli stessi del Di Pietro tonitruante da otto per cento di due anni fa, solo che Di Pietro non ha più l’otto per cento (di conseguenza, racconta un amico sinceramente intenzionato ad aiutare, “fatica un po’ a uscire sui giornali”). Lo hanno avvistato in giro per l’Italia, Di Pietro, quasi ubiquo: “Si fa due regioni al giorno”, raccontano. Ma l’umore combattivo non cancella il sottofondo dolente, specie alla vista delle iniziative del sindaco di Palermo e amico-nemico Leoluca Orlando, che dalla Sicilia sta mettendo in piedi una specie di movimento-costola dell’Idv chiamato Coerenza e democrazia con l’idea, neanche tanto nascosta, di attrarre i delusi dell’Idv (per non dire dei delusi del flop collettivo di Rivoluzione civile) e di proporre il “dialogo” con il Pd. Ha molto a che fare con chi gli stava intorno e non gli sta più intorno, il cruccio di Di Pietro, oltre che con le percentuali disperanti nelle urne, ed è un cruccio appena lenito dai messaggi facebook di chi gli scrive “torna Tonino” e non così aggravato da chi invoca contro di lui l’ordalia del Web (c’è sempre qualcuno che ora imputa a Di Pietro quello che Di Pietro imputava all’universo mondo – del genere: sei come la casta – e che lo vorrebbe tenere “a casa”).

    A cambiare vita è abituato, l’ex pm – dalla campagna alla magistratura ai palazzi, con intermittenti blackout di popolarità – ma quando dice che ora “fa l’avvocato con sua moglie” non c’è amico che dia certezze sulla sua sincerità. Resta uomo del trattore, sì, ma più che altro per “prendere forza dalla terra” come faceva Rossella O’Hara in “Via col vento”: ed ecco che le nuove foto su Chi immortalano l’ex pm da Montenero di Bisaccia con un cappellaccio scuro da mietitura, nel bel mezzo dei suoi possedimenti agricoli, tra asinelli e altri animali, intento a dipingersi come “il contadino vero” e a sparare contro i turisti da agriturismo che fanno finta di “sporcarsi le mani nella terra”, e chissà se, già che c’era, voleva fare paragoni occulti con qualche ex collega che, come l’hanno sentito borbottare, “non c’ha messo la faccia come me”. Motivo per cui ha deciso di mettercela ancora, la faccia, Di Pietro, sfidando il disinteresse sulla stampa un tempo innamorata della sua vis manettara: alle amministrative, anche se raramente la notizia compare in qualche box a pagina ventisette del Corriere della Sera, l’Idv è ancora in lizza e Tonino, gira che ti rigira, un salto a sostenere il candidato lo fa sempre. L’avrebbe fatto anche a Roma, il salto, solo che a Roma l’Idv non c’è. “Ci eravamo preparati, era tutto pronto”, dice a chiunque chieda qualcosa in merito (“pure questa devo digerire”, racconta agli amici: la colpa, dice, “è del comitato Marino che non ha concesso l’apparentamento all’ultimo minuto”). Eppure questo è nulla in confronto al vero buco nero che lo tormenta: i Cinque stelle delusi verranno da noi o cosa? Ecco perché non ama i ragionamenti su una futura, fantomatica “alleanza con Grillo” (sempre che Grillo scenda dalla turris eburnea). Né vuole sentirsi Don Chisciotte davanti ai mulini a vento, il Di Pietro che non distoglie lo sguardo quando le telecamere lo riprendono, forse per non far sembrare vagamente immaginaria la battaglia che combatte ogni giorno su Twitter e Facebook contro nemici vari e disparati, un po’ per tenersi allenato un po’ per tenere alto il morale dei suoi – i pochi che non hanno ripreso la via del nord, come il già transfugo Massimo Donadi, o del sud, verso il comunque declinante nei sondaggi Luigi De Magistris o verso il suddetto Orlando. “Ripartiamo”, si legge sul blog dell’ex pm che voleva, con Grillo, buttare fuori gli zombie, finendo invece buttato fuori a sua volta. “Ripartiamo”, si legge nel lancio dell’ardita campagna per il tesseramento 2013 (“tempismo perfetto”, dice un dipietrista autoironico). “Idv 2.0”, si legge sul sito dell’Idv, dove già si cantano le speranze del “congresso straordinario” previsto per il 28, 29 e 30 giugno – Di Pietro è dimissionario e non si candiderà, al posto suo si candiderà una cinquina di volti del “ricambio”, non necessariamente generazionale, ci tengono a dire gli stessi aspiranti alla successione (Antonio Borghesi, Matteo Castellarin, Ignazio Messina, Niccolò Rinaldi e Nicola Scalera, non ancora noti ai più). Lui, Di Pietro, vuole fare “il padre nobile”. Si consola con l’immagine del se stesso umile che riparte (“datemi un gazebo e un tavolino”). “Che c’azzecca?”, dice quando Lilli Gruber, a “Otto e Mezzo”, fa un accenno al “partito padronale”, anche se poi non si sa quanto in cuor suo ci creda, Di Pietro, a un dipietrismo non in suo nome. “Non sono ancora morto e non mi ritiro”, dice a parole e con tutto se stesso – con le mani che si chiudono a pugno (non sbattono sul tavolo, ma è come se lo facessero) e con il sorriso irrigidito nell’allarme mentre squadra la telecamera, come per cercare il contatto con l’elettore volatilizzato, e soprattutto per convincere se stesso che “l’epitaffio” sulla sua avventura politica, come ha detto a “Otto e mezzo”, è da restituire al mittente (la puntata era intitolata appunto “Che fine ha fatto Di Pietro?”). “Voglio continuare a fare politica”, voglio continuare a sbagliare”, dice il Tonino che fa le vasche nella sua passerella di sconfitta, come a voler presidiare lo spazietto sopravvissuto all’esterno del Parlamento, dove comunque l’area “Santoro & Travaglio” ha i suoi seguaci e dove si svolgono le manovre dell’ancora evanescente Polo Rodotà (Sel, Beni Comuni, OccupyPd, Pd anti larghe intese). “Ho capito che è meglio non avere i soldi del finanziamento pubblico”, annuncia ancora scottato dalle polemiche sulla “mobilia” del partito e tuttavia intenzionato a usare quel che c’è in cassa (“serviranno per i referendum”, dice, e poi posta sul suo account Twitter la vignetta di Vauro sulla querelle Grillo-Gabanelli, con Tonino che dice a Beppe “Cazzo te l’avevo detto… non ti fidare di quella donna”).

    Al culmine dell’amarezza, quando i compagni di un tempo rifondano partiti fondati dagli ex capi, anche l’orgoglio va a farsi benedire, al punto che si cerca conforto nelle parole dei nemici di ieri, reduci di una stagione passata (leggenda vuole che Fini si sia politicamente sfogato, dopo la sconfitta, persino con l’ex moglie e con un ex rivale in amore). Al culmine dell’amarezza, non ci si può permettere di dare addosso al concorrente di oggi (Di Pietro dice sempre “io non ci sto, a criminalizzare il Movimento cinque stelle”, anche se poi lo punzecchia sull’isolazionismo). Al culmine dell’amarezza, non resta che il rifugio nel “particulare” – per Fini ci sarebbero le solite immersioni tra Giannutri e Ansedonia, ma l’estate crudele tarda ad arrivare; per Di Pietro ci sarebbe l’olio biologico prodotto con le sue olive molisane, non fosse che produrne una bottiglia, come ha detto lui stesso in un momento di pragmaticità ipercritica, costa più che comprarla al supermercato. E allora tanto vale.

    Campi Come si rifà un sindaco

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.