Il vero pericolo per Grillo è il canto di sirena del Polo Rodotà

Marianna Rizzini

Come sempre capita quando la vita si mette a fare il romanzo (o il romanzo la vita), a un certo punto il dramma esteriore diventa dramma interiore, e la piazza mezza vuota che accoglie Beppe Grillo a Treviso e le liti sulla diaria e i sondaggi in flessione e la fantasia della scissione diventano tormento del singolo – singolo deluso, esacerbato, disorientato, isolato (tutti stati d’animo al momento presenti nel manipolo elettorale a Cinque stelle). Non siamo ancora al punto in cui arrivano i protagonisti simil-grillini de “La mentalità dell’alveare”, il romanzo di Vincenzo Latronico presentato in questi giorni al Salone del Libro di Torino per Bompiani.

    Come sempre capita quando la vita si mette a fare il romanzo (o il romanzo la vita), a un certo punto il dramma esteriore diventa dramma interiore, e la piazza mezza vuota che accoglie Beppe Grillo a Treviso e le liti sulla diaria e i sondaggi in flessione e la fantasia della scissione diventano tormento del singolo – singolo deluso, esacerbato, disorientato, isolato (tutti stati d’animo al momento presenti nel manipolo elettorale a Cinque stelle). Non siamo ancora al punto in cui arrivano i protagonisti simil-grillini de “La mentalità dell’alveare”, il romanzo di Vincenzo Latronico presentato in questi giorni al Salone del Libro di Torino per Bompiani: una giovane coppia che senza rendersene conto scoppia, un guru ex televisivo che fa yoga nella sua villa e scrive la verità rivelata su un blog, il consiglio comunale di Milano e il governo nazionale monopolizzati da cittadini-eletti sottoposti sul Web a spietate “consultazioni” (con espulsione e “rotazione” del mandato), in un crescendo dell’assurdo nella vita personale, scandita, come quella pubblica, dal flusso assillante delle e-mail e dei post scritti da sconosciuti giudicanti, e dai commenti di esecuzione morale sommaria che scorrono su “L’alveare”, il sito internet del capo supremo, dove la legge del clic ricaccia nell’oscurità ogni tentativo di discolpa ed eleva in cima alla pagina la più piccola colpa (presunta). Altro che scenario alla George Orwell, pur temuto, nella realtà, dalla deputata sarda a Cinque stelle Paola Pinna nei postumi della lite sulla diaria, come scrive la Stampa (“La manipolazione della verità sembra quella di 1984”, dice Pinna).

    Nel romanzo di Latronico due simil-grillini si ritrovano dannati dalla rete e da una coscienza che non sa più quale sia la realtà, il tutto per aver pensato e detto quello che tutti pensavano e dicevano sul forum, fino al contrordine degli “influencer” (oggetto: la non pignorabilità della prima casa, e le sue conseguenze non sempre favorevoli al “povero” che vuole accendere un mutuo). Che tutti abbiano pensato la cosa più ragionevole non ha importanza, però, se gli esegeti del guru ci ripensano. La falsa verità internettiana diventa “la” verità anche tra le mura di casa – chi ama si impone di non amare e chi fa il furbo passa per eroe, in un generale rincorrersi di buone intenzioni e grandi indignazioni che diventano condanne neppure approfondite. Tutto è epidermico, volatile, umorale, veloce come il ticchettio delle dita sulla tastiera. Non è ancora la realtà da pianeta Gaia, il mondo tecno-egalitario-giacobino che Gianroberto Casaleggio vorrebbe come day after dopo la distruzione della casta nel suo complesso, monumenti compresi, ma qualcosa di Gaia c’è, nella rappresentazione (neanche tanto allegorica) di Latronico. Che cosa potrebbe succedere se la “Rete dei volenterosi”, trasfigurazione romanzata del Movimento cinque stelle, prendesse più del trenta per cento? L’autore dice di aver scritto il libro di getto, dopo le elezioni di febbraio, dalla Germania dove vive, angosciato senza sapere bene perché, incapace di spiegare il motivo del suo dubbio agli amici stranieri ottimisti di fronte al “vento del cambiamento”. Il motivo, scrive il ventinovenne Latronico nell’introduzione, stava nell’urgenza di dare forma a uno scenario: “Più che un romanzo”, questo è “un pamphlet di intervento politico in forma narrativa o una fiction tv il cui argomento è un’idea. L’idea, nello specifico, è quella della democrazia digitale: l’idea cioè che la trasparenza e l’orizzontalità di Internet rappresentino il futuro della democrazia. La tesi che ho cercato di illustrare è che quel futuro potrebbe essere nero”, ed è già “troppo simile al nostro presente”.

    Intanto, nel presente-presente, Beppe Grillo, guru fuor di romanzo, non ha soltanto un problema di paghetta degli eletti, la famosa diaria che tanto li ha fatti litigare. E non ha soltanto un problema di tenuta lungo il provvisorio viale del tramonto rivoluzionario, Grillo, nelle sacche dell’ennesimo tour in cui un po’ s’infiamma e un po’ si immalinconisce, con l’animo dell’attore all’ultima replica ma anche del villeggiante che alla fine dell’estate saluta gli amici del muretto. L’ex comico si automotiva – verrà il giorno della chiusura della campagna a Roma e verrà la presa del paese, altrimenti saranno “barricate”, fantasma di catastrofe sempre evocato (variante: finiranno i soldi) quando l’incertezza che uccide l’artista si fa strada nella mente dell’artista che si è buttato in politica. Tiene presente la via d’uscita, Grillo (quando il gioco si fa duro pensa con saudade a quando faceva “teatro”, e parla di nuovo del suo prossimo “tour mondiale” come fosse un miraggio). Si carica, ma sa di avere, più prosaicamente, soprattutto un problema di sinistra grillina che s’avanza, all’interno e all’esterno del gruppo degli eletti a Cinque stelle, percorsi oggi da imbarazzo, a differenza di due mesi fa, quando il leader mostra dubbi sullo ius soli (lui vorrebbe un referendum sul tema, molti eletti ne vorrebbero l’introduzione punto e basta, tanto che dichiarano di voler votare una proposta di legge in materia, anche se non lo sbandierano più di tanto per residuo timore reverenziale). E quando Grillo pubblica sul suo blog un post sui “Kabobo d’Italia”, con elenco delle malefatte di tre immigrati irregolari, la rete, pavloviana nelle reazioni non sempre raffinate anche nei confronti del suo direttore d’orchestra, bolla subito quelle parole, senza letture sottili, come “leghiste” (“parli come Matteo Salvini”, è l’analisi di base).
    “Roma corrompe”, dicono le vecchie volpi del Transatlantico ogni volta che la polvere sollevata dagli zoccoli dei cavalli di qualche nuovo barbaro si deposita nel cortile del Palazzo, ma stavolta Roma corrompe non in senso economico, ché la diaria ha creato distanza tra eletti e leader, sì, ma più che altro in senso psicologico, come dimostra il tormento rappresentato sulla pagina facebook del deputato a Cinque stelle Adriano Zaccagnini (“il dissenso è il sale della democrazia”, è il messaggio al leader-papà che ha offeso i suoi figli insinuando che qualcuno volesse fare la “cresta”). Roma corrompe sul lato politico, ed è questo il vero pericolo rincorso ma non debellato da Grillo tra un comizio e un post – a un certo punto spunta l’abolizione dell’Irap e poi il solito accenno al reddito di cittadinanza, per dare un contentino a questi e uno a quelli, e livellando gli uno nessuno e centomila che compongono il suo popolo nella reiterazione della formula “noi buoni, loro casta”. Eppure non riesce del tutto a ristabilire la sintonia con un gruppo parlamentare passato dall’innamoramento acritico alla fase disillusa in cui si può diventare sensibili a una sirena alternativa (e di sinistra).

    E’ cominciata con una domanda: siamo qui e non facciamo nulla?, si chiedevano fin dai primi giorni i grillini cosiddetti “dialoganti” (come Tommaso Currò, Francesco Campanella e Lorenzo Battista, quelli che ancora oggi criticano la rigidità antidialogo dei vertici o “lo stile del leader” o l’attitudine dirigista della Casaleggio associati: “E come se Publitalia indirizzasse il Pdl”). E’ cominciata insomma con qualche voce difforme. Ma è proseguita con una tentazione – accordarsi (e addirittura governare) col Pd? – non tacitata dalla battaglia non vittoriosa sul nome di Stefano Rodotà (tà-tà), il quale peraltro è subito riemerso come bandiera della sinistra sognata da MicroMega in nome del “Terzo stato”. Poi succede che la Fiom scende in piazza a Roma (oggi) con lo stesso Rodotà, con Paolo Flores d’Arcais, con Sel e con ampi pezzi del Movimento cinque stelle. E succede che Romano Prodi, non a caso lodato da Beppe Grillo sulla Stampa in qualità di povero marziano nel Pd (“è vergognoso il modo in cui l’hanno trattato”) non voglia neppure ritirare la sua nuova tessera del partito (la straccia?). E dunque l’intoppo, per Grillo, è la progressiva perdita di controllo del gruppo a Cinque stelle che scivola lentamente, ma forse inesorabilmente, verso il piano inclinato del dialogo intermittente con i democratici (non tutto il Pd, magari quello di area Luigi Zanda, il senatore che insiste sull’ineleggibilità del Cav., o il Pd che presenta una proposta di legge sullo ius soli, cofirmata dalle senatrici a Cinque stelle Alessandra Bencini, Manuela Serra e Paola De Pin). Non può del tutto girare la testa dall’altra parte, Grillo, anche se l’istinto di sopravvivenza lo porterebbe a farlo, se c’è una sinistra grillina che s’avanza: è quella che avrebbe voluto essere parte protagonista in una soluzione di non larghe intese, è quella d’accordo con gli OccupyPd, con i centri sociali e con gli ex Idv (ci si è messo anche Antonio Di Pietro: “Caro Beppe hai sbagliato, dovevi governare”).  E se è vero che le ricerche dell’Istituto Cattaneo, prima delle elezioni, avevano retrospettivamente collocato la base grillina non solo a sinistra, ma anche a destra e nel bacino ex leghista, è pure vero che la direzione degli eletti, adesso, sulla scorta dei commenti internettiani (attivisti che volevano “governare”, attivisti che a più riprese hanno scritto “avete perso un’occasione”), è sempre più quella di  trascolorare (rientrare?) in una specie di sinistra movimentista.

    E insomma, a questo punto, il Beppe Grillo demiurgo e comandante supremo in continua autodifesa sul tema dei soldi suoi e di Gianroberto Casaleggio (non tocchiamo una lira e guai a chi lo dice, è la linea) potrebbe pure mettersi d’incanto a recepire il disagio di chi, rendicontando sul Web la cena a diciotto euro, si ritrova insultato dal Web alla rendicontazione successiva, quella in cui la poco esosa pizza margherita cede il passo alla più esosa pizza bufala e pachino (perché hai speso due euro in più?, ha chiesto un internauta all’espulso grillino Antonio Venturino, vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana entrato in attrito con i vertici, dice lui, non per i soldi, ma proprio per la linea pro dialogo con il Pd). Ma forse non servirebbe, mettersi in ascolto del malcontento da diaria restituita, ché Grillo, per non perdere davvero i suoi in Parlamento, deve spencolarsi a sinistra, ma se si sbilancia troppo rischia, alla lunga, di dissolversi nei rivoli del “polo Rodotà”.
    L’insofferenza verso il capo si affaccia a intermittenza nel gruppo parlamentare, mista al riflesso di fedeltà pre-elettorale che porta i neoeletti in giro per le piazze nel weekend. Bisogna infatti dare manforte all’ex comico dall’umore altalenante – un giorno comprensivo, un giorno dispotico, un giorno vittima di chi “vuole zittire” il M5s sul Web, ed ecco la difesa dei venti ragazzi indagati per vilipendio al capo dello stato dalla procura di Nocera Inferiore; ecco il lancio d’allarme per l’arrivo della polizia negli uffici della Casaleggio associati; ecco l’attacco al Quirinale per lo stesso motivo: “bocche cucite”, ha detto il Grillo che imponeva ai suoi commentatori il silenzio di un giorno per evitare altre denunce (“chi può essere al sicuro di un’eventuale denuncia per una critica al presidente della Repubblica? Allora, per difendersi, l’unico mezzo è non scrivere più nulla”, era la motivazione, sormontata da critica “all’assolutismo monarchico” del Quirinale – il Quirinale rispondeva che l’eventuale abolizione del reato di vilipendio spettava al Parlamento; l’ex portavoce del Quirinale Pasquale Cascella faceva notare che il presidente della Repubblica in passato si era detto favorevole all’abolizione dell’articolo 278 del codice penale e Grillo ieri sul suo blog prendeva (sarcasticamente) atto: “… Forte di questo viatico presidenziale… il MoVimento 5 Stelle depositerà oggi in Senato, e lunedì alla Camera, la proposta di abrogazione dell’articolo 278. Una legge del Codice Rocco che tutelava Mussolini e il re. Sono certo dell’adesione plebiscitaria in Aula alla nostra iniziativa. Napolitano è con noi, chi voterà contro l’abrogazione, voterà anche contro il presidente della Repubblica e potrebbe macchiarsi di vilipendio”).
    Ma è come se la polverina magica del dopo-elezioni, l’incantesimo che teneva uniti ortodossi e non ortodossi, fosse finita. Non siamo automi, dicono i parlamentari, anche plasticamente contrapposti, nel loro confabulare in Parlamento, alla solitudine del grande capo nella piazza non più così traboccante. Non vogliono “gogna mediatica”, come ha detto la deputata pugliese Vincenza Labriola. Lui, il capo, non sempre ce la fa a non calare dall’alto la verità. La mattina è autocritico (doveva “esserci di più” con i suoi invece di darli in pasto senza preparazione alla “lezioncina” di Enrico Letta trasmessa in streaming, ha detto in una lunga intervista alla Stampa), ma il pomeriggio torna a essere l’uno che vale non uno, come da slogan, ma mille volte più degli altri.

    Non si sa bene dove porti il disagio degli eletti che, varcata la soglia del Palazzo, si sentono giocoforza parte delle istituzioni, e dunque legittimati a “fare”, sempre meno compattamente silenziabili. Vogliono far dimenticare il tragicomico processo a Marino Mastrangeli, senatore giudicato dai suoi pari e poi espulso dal Web, ma poi, sempre tampinati dai seguaci puristi su Twitter, si sentono in dovere di nobilitare la rete a suon di proclami sulla battaglia per la libertà del Web da “combattere in Parlamento”, e pazienza se sembravano prese di peso dalla rete più ottusa alcune uscite infelici all’indomani dell’attentato di Luigi Preiti ai carabinieri (il deputato a Cinque stelle Andrea Cecconi, in un’intervista al Secolo XIX, ha detto: “Se avesse sparato a un’auto blu, avrei capito il senso”, ma a leggere i commenti su blog e forum si trovavano molte frasi simili).
    Vorrebbero accreditarsi come rivoluzionari e al tempo stesso come figure istituzionali alla testa del Copasir o della Vigilanza Rai, gli eletti a Cinque stelle, ma è il capo che deve decidere che cosa fare della sua propensione al “no, no e no” (il titolo dell’ultimo tour è sempre tarato sul vecchio tormentone del “tutti a casa”) – intanto, sempre nell’intervista di giovedì scorso alla Stampa, ostenta un inedito e mezzo ironico garantismo (non è che i magistrati che arrestano il presidente della provincia di Taranto stanno esagerando?). Più passa il tempo, più l’unisono nel corpaccione grillino diventa impossibile, e nel fermento sotterraneo del gruppo parlamentare la “sinistra grillina”, scontenta, non esclude la possibilità di un gruppo autonomo (per ora ancora lontano da venire). Ma i sottintesi pesano, e fanno pensare che dal “votiamo solo quello che ci piace” si possa, in un futuro non remotissimo, perdere le squame da organismo autarchico che ripete all’infinito la lezione del guru Grillo, per seguire la scia del gruppo “Beni Comuni” capitanato dal viceguru Rodotà.
    (Poi a un certo punto, nel libro di Latronico, mentre il groviglio di scomuniche della rete si fa inestricabile, c’è persino uno che, orrore, se ne va con il Pd).

    • Marianna Rizzini
    • Marianna Rizzini è nata e cresciuta a Roma, tra il liceo Visconti e l'Università La Sapienza, assorbendo forse i tic di entrambi gli ambienti, ma più del Visconti che della Sapienza. Per fortuna l'hanno spedita per tempo a Milano, anche se poi è tornata indietro. Lavora al Foglio dai primi anni del Millennio e scrive per lo più ritratti di personaggi politici o articoli su sinistre sinistrate, Cinque Stelle e populisti del web, ma può capitare la paginata che non ti aspetti (strani individui, perfetti sconosciuti, storie improbabili, robot, film, cartoni animati). E' nata in una famiglia pazza, ma con il senno di poi neanche tanto. Vive a Trastevere, è mamma di Tea, esce volentieri, non è un asso dei fornelli.