Gli idioti di Twitter

Redazione

Non c'è posto migliore di quella specie di mensa scolastica che sono i nuovi media per capire la twidiozia. Il Washington Post ha recentemente pubblicato un pezzo sulla morte del metronomo, che i musicisti stanno rimpiazzando con applicazioni per iPhone che svolgono la stessa funzione. L'intera storia era nata da una serie di 17 tweet, che il giornale aveva pubblicato parola per parola (e poi ci si chiede perché la stampa sta morendo). C'è poi Nick Bilton, lo scrittore del Bits Blog sul New York Times, che vive sul filo del rasoio della connessione.

di Matt Labash

Merlo Chicco, l'elefante e la mafia

    Non c’è posto migliore di quella specie di mensa scolastica che sono i nuovi media per capire la twidiozia. Il Washington Post ha recentemente pubblicato un pezzo sulla morte del metronomo, che i musicisti stanno rimpiazzando con applicazioni per iPhone che svolgono la stessa funzione. L’intera storia era nata da una serie di 17 tweet, che il giornale aveva pubblicato parola per parola (e poi ci si chiede perché la stampa sta morendo). C’è poi Nick Bilton, lo scrittore del Bits Blog sul New York Times, che vive sul filo del rasoio della connessione. O meglio, della disconnessione,  dato che ha recentemente proclamato quanto sia maleducato lasciare messaggi nella segreteria telefonica, che obbligano il destinatario a prendere in mano un telefono ed avere – preparatevi – una conversazione reale. Egli ignora i messaggi in segreteria del padre, e comunica con la madre, lo ammette senza vergogna, principalmente attraverso Twitter. Quanto sono disperati i giornalisti che provano a essere al passo coi tempi? Basta guardare il giornalista esperto di media di Mediaite, Tommy Christopher. Nel 2010, ha fatto un live-tweeting del suo infarto, mentre i paramedici lo stavano salvando. “Dovevo essere io. Sto facendo il live-tweeting del mio attacco cardiaco. Provate a battermi!”. Sfortunatamente un sacco di persone ci stanno provando, a batterlo.

    Ecco una breve lista di quanto sia divenuta patologica la Twitterificazione del mondo: un ospedale di Houston ha ritenuto necessario fare il live-tweeting di un’operazione chirurgica al cervello. Una classe di seconda elementare di Buffalo ha corretto i tweet dei giocatori di Nfl che presentavano errori come esercizio di grammatica. Un hotel di Washington D.C., ha promesso un “maggiordomo dedicato ai social media” come parte del pacchetto da 47.000 dollari per l’inaugurazione del mandato di Obama, per fare la cronaca dell’esperienza in modo che “i vostri parenti ed amici possano seguire le vostre avventure su Twitter”. E protettori e prostitute del mondo reale adescano regolarmente su Twitter, forse pensando di potersi nascondere meglio fra tutte le attention whore (quelle che hanno costantemente bisogno di attenzione per dimostrare al mondo di esistere, ndr) che lo popolano. I media britannici hanno annunciato la nomina da parte di David Cameron di uno “zar di Twitter”, che riceverà uno stipendio quasi pari a quello dello stesso primo ministro. (Cameron una volta considerò l’opzione di un temporaneo shutdown di Twitter, dopo che orde di vandali lo avevano utilizzato per organizzarsi durante le rivolte del 2011). Le forze della Difesa israeliane sono divenute le prime forze militari a dichiarare guerra via Twitter (contro Hamas). Il loro tweet di dichiarazione di guerra guadagnò 430 retweet, non tanti quanti il loro messaggio “Happy #passover!” (Pasqua ebraica, Ndt): 434 retweet. Quando Papa Benedetto, per Dio solo sa quale ragione, sentì la necessità di aprire un account, fu accolto da un tipico caldo benvenuto del tipo “vediamo di accogliere questo stronzo con un po’ di tweet di insulti”. Un pilastro di Twitter sono anche le bufale sulla morte delle celebrità. Adam Sandler è morto circa quattro volte in quattro mesi nello stesso incidente di snowboard. Da non confondere con le minacce di morte su Twitter, un altro evergreen. Squadre della morte di Twitter hanno minacciato la vita di quasi chiunque, dal governatore del Wisconsin Scott Walker al commissario Nfl Roger Goodell. Lo stato dell’Ohio si dilettava ad annunciare le esecuzioni su Twitter. Mentre il “social media director” della città di Chicago (sì, ne hanno uno) decideva di occuparsi del tasso di omicidi fuori controllo chiedendo ai suoi follower di twittare le loro segnalazioni con l’hashtag #esechicago. (Ecco un’idea: #esechicago assumesse più poliziotti invece di social media director?)

    Pensate di non avere abbastanza follower su Twitter? Sembra che lo pensino anche Barack Obama, Mitt Romney e Newt Gingrich, tutti accusati di aver gonfiato il numero dei loro follower con legioni di fake. Un web tool chiamato “Fake Follower Check”  ha determinato che circa il 70 per cento dei follower di Obama in realtà non esistevano. Ma se non vi scoraggia essere seguiti da persone che non sono, parlando tecnicamente, persone, potete comprarli. Per poterne scrivere una storia, Seth Stevenson di Slate ha comprato 27.000 falsi follower zombie per soli 202 dollari da un non ben definito intermediario su Internet, che li ha procurati da un fornitore in India. Persino le persone false, tristemente, sono ormai in outsourcing.
    Mentre i twitteristi amano descrivere Twitter come traino della libertà, si fa poca menzione del fatto che anche i cattivi ragazzi amano Twitter in quanto mezzo di propaganda, sorveglianza, e intimidazione. Al Qaida e i talebani sono su Twitter. La Cina ha lanciato un servizio simile, “Red Twitter”, per promuovere lo spirito rivoluzionario, anche se continua a utilizzare il buon vecchio Twitter per spiare e punire i suoi cittadini, condannando una donna a un anno di lavori forzati per aver retwittato un post che derideva i cinesi che protestavano distruggendo prodotti giapponesi. Ovviamente, la maggior parte dei tweet non ti fa finire in prigione. La maggior parte, diciamolo, sono cazzate inconcludenti. E non fidatevi delle mie parole per questo. Fidatevi della scienza. Un paper dei Proceedings of the National Academy of Sciences dichiara che oltre l’80 per cento “dei post sui siti di social media (come Twitter) consistono semplicemente in comunicazioni delle proprie esperienze immediate”. I ricercatori di Rutgers hanno trovato che il 51 per cento dei messaggi su Twitter postati da mobile erano messaggi “io, adesso”, e che l’80 per cento dei tweet analizzati poteva essere classificato come “meformers” (informazioni riguardanti voi stessi). Dopo che Pear Analytics ha raccolto centinaia di tweet per due settimane, e li ha raggruppati in sei categorie, il gruppo leader arrivava al 40,5 per cento e corrispondeva a “chiacchiere inutili”. Persino gli utenti Twitter, in uno studio condotto da ricercatori del Mit, Carnegie Mellon e Georgia Tech, hanno dichiarato che forse poco più di un terzo dei tweet che ricevono hanno davvero un valore. Anche se Twitter ha guadagnato circa 140 milioni di dollari in introiti pubblicitari nel 2011, la loro più recente valutazione è stata fissata a un’allucinante cifra di 10 miliardi a causa delle aspettative sull’Ipo 2014. Datemi dello scettico (guardate il fallimento dell’Ipo di Facebook, nel 2012 circa), ma il vero valore di Twitter potrebbe essere stato colto al meglio dalla Annenberg School for Communication. Hanno intervistato 1.900 soggetti, chiedendo se volessero pagare per Twitter. Il risultato? Un bel 0,00 per cento di sì. Cioè NESSUNO.
    Non che questo freni i trionfalisti di Twitter per un solo secondo. In realtà, dopo tutta questa critica a Twitter nella quale mi sono invischiato, inizio a sentirmi poco gentile. Cercare Twidioti a lungo tempo può far venire in mente Thoreau, che disse, “Ma guarda! Gli uomini sono diventati gli strumenti dei loro strumenti!”. Eppure, colpire la Twitidiozia da lontano sembra quasi assumere il tipo di comportamento che io stesso condanno su Twitter. Sono quindi andato in un posto dove sapevo avrei trovato la più grande concentrazione di trionfalisti di Twitter. Il posto che si fregia di essere stato il primo ad avere reso virale Twitter. Il posto dove uomini e strumenti sono praticamente indistinguibili gli uni dagli altri: il South by Southwest Interactive Festival (SXSW) ad Austin.

    Negli anni Novanta, il SXSW era conosciuto per il tipo di atmosfera rilassata dove gli esteti hipster in camicie da buzzurri con bottoni in madreperla potevano andare in giro a ingrassare mangiando punta di petto alla griglia e bevendo birra Lone Star, guardando il film indipendente sconosciuto o ascoltando la band senza contratto che stava per essere lanciata come nuove star mondiali. Chi ci andava all’inizio mi dice che era carino, finché è durato. Il SXSW è ora stracolmo di persone e ultra aziendale. In questi giorni, una “scoperta” musicale è imbattersi in LL Cool J che canta sul Jacked Stage, sponsorizzato da Doritos – un edificio costruito a forma di macchinetta distributrice di Doritos. Ma è cambiato anche qualcos’altro. Nel tempo nel quale il mondo intero si è chiesto “perché pagare registi e musicisti per il loro lavoro, quando possiamo guardarcelo su Youtube?”, la sezione Interactive del SXSW ha messo la quinta. Certo, i festival musicali e di film hanno il loro ampio seguito. Ma l’industria tecnologica ha praticamente conquistato tutto questo mondo, così come ha fatto con quasi tutti gli altri. Persino le rock star preistoriche vengono istruite dalle nuove rock star dell’industria tech, in edizioni speciali del Social Media Monthly, sul come dovrebbero “curare e condividere contenuti ogni giorno”.
    Quest’anno, il SXSW Interactive, con 25.000 partecipanti, ha avuto luogo durante cinque degli undici giorni del più ampio festival. […] Come qualsiasi altro culto religioso, ha il suo linguaggio imperscrutabile (parole come “ottimizzazione” e “curation” sono fra le prominenti). Quindi per stare al passo, ho consultato un po’ di “generatori di cazzate Web 2.0” online. Immagino che se qualcuno a un party chieda cosa faccio, io possa guadagnare un ragguardevole aumento di status se dichiaro che digitalizzo tag-cloud per abilitare infomediari online e creo folksonomy data-drive con long-tail che controllano piattaforme rss con funzionalità intra-media installate. Non che qualcuno lo chieda, sono tutti troppo occupati a smerciare le loro cazzate Web 2.0. Che è anche una buona cosa, dato che il mio gergo è probabilmente già superato. Le cose vanno veloci, qui. Su una scala mobile di un centro congressi in centro, ho sentito (davvero!) una signora che diceva, in una conversazione normale, “L’innovazione dello scorso anno è la old news di quest’anno”.

    La mia missione è limitata. Non sono qui per ficcare il naso nelle stampanti 3D o nelle lenti a contatto intelligenti o in qualsiasi cosa sia la maledetta avanguardia del domani. Sono qui per partecipare a ogni stupido evento su Twitter e i social media che riesco a trovare. Dato che i social media sono arrivati molti cicli di innovazione fa, secondo il tempo del SXSW, è chiaro che, come un tumore inoperabile, sono destinati a rimanere. Potete vedere qualsiasi tipo di app promossa qui, dall’app per iPhone “Hater” (condividi tutte le cose che odi con le persone che ami) all’app “Bang with Friends”, che dà al termine “social” un nuovo significato, dato che promette di “trovare anonimamente frequentatori di SXSW che sono qui per la notte”. Il problema con la selezione dei panel sui social media è che sono dannatamente tanti. Nei quattro giorni nei quali li frequenterò da mattina a notte inoltrata, riuscirò a sentirne circa un quinto di quelli offerti. Quasi tutti hanno titoli pretenziosi quali “L’attivismo nero su Twitter, più grande dell’Hip Hop” o “One million strong: i social media e l’esercito americano”. Alla fine ho scoperto un uso meraviglioso di Twitter quando ho trovato le sparate di un gruppo di nerd che non erano venuti al SXSW per puro disgusto, ma che twittavano, con l’hashtag #betterSXSWpanels, titoli di incontri fittizi quali “Come essere pretenzioso senza essere intelligente” o “La mia agenzia ha appena fatto un video Harlem Shake, e voi?”.
    Ovviamente, mi tocca stare al passo con i titoli finti di notte, sul mio laptop. Dopo tutto, non oserei portare il mio Pc nella terra di iGadgetLandia come un filisteo, e non posso seguirli sul mio stupidophone – o, come uno sconvolto David Carr del New York Times lo ha chiamato dopo averlo visto ad un party che aveva dato al suo hotel (il migliore della settimana, dato che aveva servito la punta di petto del Franklin Barbecue), “Guarda il tuo mammaphone!”. Nulla contro le mamme. Ma Carr ha ragione – il mio telefono non è sexy. E’ un vecchio cellulare a conchiglia che mi porto appresso da un decennio, un’eternità nel mondo dei cellulari. Ho rifiutato le suppliche del nostro capoufficio di prendermi uno smartphone. Non solo perché spero di evitare il braccialetto di monitoraggio elettronico che vedo che tutti gli altri invece portano. Ma anche come meccanismo di auto-regolazione, in modo da ricordare che c’è ancora vita di persone in carne e ossa fuori da Internet. Almeno per il momento. Mentre cammino nel centro convegni per partecipare al mio primo panel, vedo che nessuno condivide la mia reticenza verso gli smartphone. Ognuno usa il suo praticamente tutto il tempo. Hall e lounge intere sono silenziose dato che i loro abitanti si ignorano l’un l’altro, persi nel loro iMondo. Le teste piegate e lievemente oscillanti come quelle degli studenti indotti in trance in una madrassa, i loro pollici che digitano alla velocità del pensiero, su Twitter, Foursquare e iHate e su qualsiasi altra delle loro app che va da l’Innovazione più Grande al Mondo a MySpace (il termine di derisione universale per tutto ciò che è obsoleto) prima ancora che tu le abbia solo sentite nominare.

    Arrivo a una lezione con cinque minuti di anticipo, ma è già troppo tardi. La cavernosa sala conferenze, che sembra contenere circa 500 persone, è piena. Diverse centinaia di altre persone si affollano fuori dalla porta. Di fronte allo speaker che spunta dal corridoio, si siedono in terra senza dire una parola e all’unisono, apparentemente un’unica coscienza collettiva. Iniziano a picchiettare coi pollici sui lori iPhone e iPad, facendo la cronaca diretta di ciò che dice lo speaker, o forse cercando nerd porn, o anche cercando se stessi su Google, chi lo sa? Per conquistare una folla di quest’entità e intensità, verrebbe da pensare che il panel sia intitolato “Una cura per il cancro, finalmente” o “Vedete questo sacco di soldi? – Prendetelo!”. No. Il titolo è “Come Twitter ha cambiato il nostro modo di vedere la Tv”. Prendo posto in terra in corridoio, con il resto del formicaio, per ascoltare Jenn Deering Davis, cofondatrice di Union Metrics. Se siete appassionati Twidioti, potreste anche voler andare a vedervi tutti i live-tweet della sessione, quindi tenete presente che questo è uno spoiler alert. Ne viene fuori che un sacco di persone twittano mentre guardano la TV. Quello che i professionisti chiamano “esperienza di secondo schermo”. Davis è una di quelle persone che dicono “questo è interessante”, ogni volta che non ha nulla di interessante da dire. Quindi trova “interessante” che il teen drama “Pretty Little Liars” sia lo show televisivo sul quale si twitta di più. E’ “interessante” anche che sia più difficile fare live-tweeting di “House of Cards”, dato che Netflix ha fatto uscire tutti e 13 gli episodi della serie originale simultaneamente. Allo stesso modo è “interessante” che i doppiatori di serie animate come “Archer” abbiano un account Twitter del loro personaggio, in modo da farvi sentire di “essere parte della conversazione” attraverso una “relazione para-sociale” con un personaggio televisivo, anche se quel personaggio in realtà non esiste. E quando a “Hawaii Five O” hanno chiesto ai fan di votare un finale via Twitter, mostrandone uno per la costa est, e uno differente per la costa ovest? Beh, questo è troppo anche per la Davis, in linea con la tv che si rivoluziona: “E’ affascinante”, dice, mescolando un po’ le carte. Dopo un’ora così, mi sento esaurito, come se le cellule cerebrali fossero morte e avessi un quoziente intellettivo pari a 30. Chiedo a un australiano patito di tecnologia, seduto a gambe incrociate di fronte a me, se tutti i panel sono così sovraffollati. “Certo – dice – tutto quello che ha un buon titolo, tipo ‘I 10 modi migliori per diventare virali’, quel tipo di cose, beh devi essere lì davvero in anticipo”. “Hmm – rispondo, applicando le mie nuove conoscenze – Interessante”. Evan Fitzmaurice, un avvocato che vive ad Austin e mio amico di vecchia data, che recentemente è stato il Texas Film Commissioner, ha partecipato a molti SXSW. Una sera a cena mi racconta che pur essendo iperconnesso (“Devo connettermi a Matrix”) vede anche il rovescio della medaglia di questa connessione perpetua. “Interrompi il pensiero naturale. Le cose non subiscono più un processo di gestazione. E’ tutto istantaneo, senza i benefici della riflessione. E tutto è detto a volume massimo, niente è più graduale. Tutto è uno strepitio”. Pur non essendo religioso, mi ha detto che quello che avrei visto al SXSW può essere riconosciuto da qualsiasi persona religiosa. “Cercano di sostituire la redenzione e la salvezza attraverso la religione con una religione civile e una redenzione tecnologica – la promessa di una vita sublime a un livello più alto”.

    In un caso però, la twidiozia cerca di portarle avanti entrambe. Partecipo ad una sessione della domenica mattina chiamata “Tecnologia trascendentale: Dio sta riavviando il mondo?”. E’ una discussione guidata da un barbuto Mordechai Lightstone, con paramenti chassidici, in quanto direttore dei social media per il Lubavitch News Service, e Seth Cohen, direttore delle iniziative network alla Charles and Lynn Schusterman Family Foundation. “Dio – dice Cohen – era un programmatore. Era un hacker. Ha ideato un piano per il mondo”. Un elemento di questo piano, dice, erano i Dieci Comandamenti. Anche se ora “siamo in una fase 2.0” . Il nostro gruppo procede nell’analizzare l’essenza 2.0 di tutto. Cohen, anche se ebreo, si chiede come sarebbe se la chiesa cattolica “avesse un chief technology officer” che dicesse “stiamo per riavviare la chiesa cattolica. E abbiamo deciso di avere qualcuno che progetti app ed abbia un approccio tecnologico per cambiare il paradigma”. Un uomo seduto vicino a me vorrebbe vedere “un Amazon della chiesa cattolica” dato che c’è un “problema di distribuzione di servizi specializzati” e vuol sapere come sarebbe la chiesa “portata a casa mia”. Un uomo con occhiali spessi da geek dice che vede la Bibbia come il “primo grande esempio di opensourcing”. Cohen aggiunge che pensa ci siano ancora profeti, dato che vede una “voce profetica” quando legge i commenti dei suoi amici alla sua pagina Facebook. Un altro gentiluomo dice che il suo problema con la Bibbia è che non c’è “correzione degli errori”. Paul, ad esempio, era un omofobo, quindi gli piacerebbe vedere più gruppi di editing wiki-style. Una donna, che ha 33.000 follower su Twitter, dice che  scrive tweet in ebraico. Pensa che sia il modello del futuro, dato che “le persone non andranno più nei luoghi di culto”. Questo tipo di conversazione potrebbe portare un credente come me a correre fra le braccia di Richard Dawkins. Se Dio sta davvero riavviando il mondo, spero che il suo hard drive vada in crash. Non tutti al SXSW pensano che 140 caratteri siano la risposta a tutto. Per alcuni, questo tipo di pensiero è troppo lungo e scivoloso: i lessicografi della Oxford University Press hanno calcolato che il tweet medio è composto da 14,98 parole. E se una foto vale 1.000 parole, questo vuol dire che una foto vale anche 66,7 tweet. Perché, ovviamente, si possono condividere foto su Twitter. Questa potrebbe essere la direzione lungo la quale dovremmo dirigerci, dato che lo span di attenzione va restringendosi e le parole sono così… verbose. Ecco spiegato il motivo di panel come “Sorridi: alle persone piacciono più le tue foto delle parole”. Chas Edwards, il chief revenue officer di Luminate, ci dà numeri da far girare la testa: con così tante fotocamera da cellulare, il 10 per cento di tutte le foto mai scattate sono state fatte negli scorsi dodici mesi; il 70 per cento di tutta l’attività sui social media include una foto; le persone che leggono le notizie sui giornali passano circa 25 minuti a leggere, mentre le persone che leggono le notizie online ci passano in media 70 secondi.

    Lezione: dobbiamo lavorare velocemente. Le parole sono lente. Le foto sono veloci. Mentre parla Chas, gran parte delle persone guardano nei loro iAbissi, digitando freneticamente. Osserva che “solo il 10 per cento di voi è davvero tutto preso da me. Ciò che spero è che il restante 90 per cento sia online, godendosi in modo più pieno questa esperienza, twittandola”. Non c’è modo per me di dire se lo stiano facendo, dato che sono bloccato nel disgustoso mondo reale con il mio dumbphone. Ma mi dispiace per Chas. Forse dovrebbe pensare di parlare più velocemente. O di mandare in streaming la sua presentazione, divisa in piccoli pezzi che i tweeps possano postare su Vine (l’app di Twitter per condividere video di sei secondi in un tweet).
    Alcuni Twidioti sono facilitati nel prestare attenzione, soprattutto se riguarda loro stessi. Guardate Cory Booker, un politico così incredibilmente auto-celebrativo, così intento a “raccontare la mia verità al mondo”, così emblematico della nostra età di social media, che quasi sicuramente diventerà Presidente degli Stati Uniti un giorno. Se non starà twittando. Booker è il sindaco di Newark (mentre sto scrivendo questo pezzo, ha twittato 27.319 volte e ha 1.382.151 follower). Booker, che è diventato un beniamino dei media (finirà per essere votato come miglior speaker del SXSW), è un ruffiano sveglio, caloroso e incredibilmente efficace (mostratemi un altro politico su Twitter in America che segua 71.529 persone). Già una decina di anni fa, quando Booker era un umile consigliere cittadino, ricevevo comunicati stampa sulla sua festa di compleanno. Ma ora non è più confinato in stretti comunicati. Può dire la verità – la sua verità – anche 40 o 50 volte al giorno su Twitter. E quella verità è fra Cory Booker e i suoi follower, e chiunque lo retwitti. Parliamo di moltiplicatori di verità, qui. Ora, quando Booker ha bisogno di promuovere un’apparizione a un talk show o di citare Oprah Winfrey (“Il vero perdono è quando puoi dire, ‘Grazie di questa esperienza’”) o di aggiustare una buca della cui esistenza ha sentito da un elettore su Twitter (potrebbe anche averlo sentito dal suo staff, se riuscissero a parlare quando non twitta), gli basta armare il suo cannone della verità a 140 caratteri. Booker ci racconta che noi “siamo tutti fonti di informazione. Siamo media outlet”. Alcuni più degli altri. Fa trapelare che “ottiene più impressioni dai consumatori da un tweet al giorno di quanto non accada dal giornale nazionale”. Il che spiega perché, annuncia a una deliziata platea SXSW, è cofondatore di #waywire, un servizio di condivisione di social-video che fornisce le notizie importanti per te, così come parecchi dei video di Cory Booker. “Se vuoi vedere la mia identità di microblog, ti basta sfogliare i miei tweet – ma ora puoi vedere anche la mia identità video,” dice Booker, prima di tornare a parlare di sé in terza persona. “Che video musicali piacciono a Cory? Vai ai video che davvero lo stimolano. Questa mattina, ho twittato un video #waywire di Nina Simone”. (Non essendo un follower di Booker, me lo sono perso. Ma quanto sarebbe bello se fosse la canzone della Simone del 1974 “Funkier than a Mosquito’s Tweeter”. Che meravigliosa sinergia!).

    In tutto il SXSW, c’è una folla di Twidioti. A un panel sullo sport, “Integrare il digitale nell’esperienza di gioco dal vivo,” rappresentanti della Nba e della Nascar parlano di tutto, da fan che postano messaggi interattivi all’arena Jumbotron alla concessione di app per twittare dalla macchina durante una corsa (un pilota Nascar che ha twittato dall’abitacolo dopo un incidente Daytona500 ha guadagnato oltre 100.000 follower in due ore). Parlano di tutto tranne che di quello per il quale presumibilmente si va lì a fare – guardare una partita o una gara. O, piuttosto, “un’esperienza”, come questi amanti dell’IT chiamano le partite e le gare. Come dice Jayne Bussman-Wise, il robotico direttore digitale del Brooklyn Nets/Barclays Center: “Monitoriamo l’analitica. Lavoriamo a stretto contatto con il nostro team di ricerca analitica. Tutto quello che val la pena di mettere nel nostro sistema CRM… ascoltiamo le conversazioni sui social e in qualche modo reagiamo”. L’espressione “Non tutto è gioco e divertimento” non è mai stata più vera.
    A una sessione intitolata “Il Web ingarbugliato che lasciamo: la vita digitale dopo la morte,” ci avvisano di lasciare in ordine in nostri affari online. (Date quelle password ai vostri amati, dato che se resterete fulminati facendo cadere il vostro iPad nella vasca domani, come farà la vostra famiglia ad accedere al vostro account Instagram?). Ma ci raccontano anche di una nuova app chiamata LivesOn, il logico finale della Twidiozia. E’ un servizio che studia il vostro feed Twitter pre-mortem, per gusti e sintassi, e continua poi a twittare in quella che si suppone sia la vostra voce dopo la morte. (Slogan aziendale: “Quando il tuo cuore smette di battere, continuerai a twittare”). Ma persino questo sembra non essere l’apice dell’assurdità. In una sessione di 90 minuti al Pete’s Dueling Piano Bar, ascolto un parterre pieno di grandi capi di agenzie pubblicitarie che blaterano sul “Potere del microcontenuto e del marketing istantaneo”. Scherzano e si adulano chiassosamente, si interrompono l’un l’altro, si danno grandi pacche sulla schiena, sputano volgarità, e in generale si gonfiano come tacchini. E tutto questo per cosa? Un singolo tweet di Oreo durante il black-out di 34 minuti del SuperBowl al Superdome di New Orleans. Comprendendo molte delle persone del team che vi hanno partecipato (“media emergenti” che scrivono da posti come Mondelez International e 360i), il panel fornisce tutti i tipi di spacconate su “autenticità” e “identificazione di tutti gli stream rilevanti” e “una conversazione veloce” e “marketing in tempo reale” e “trasformazione” e “momenti di preveggenza” e “occhi e orecchie… intercambiabili”. Il contenuto del tweet, si dovrebbe notare, non è mai stato neppure nominato. Non c’era bisogno di spiegarlo a questa folla di addetti ai lavori. Il tweet è semplicemente “the Dunk in the Dark”. Spiegarlo ad una stanza piena di “addetti al marketing in tempo reale” è come spiegare chi sia L. Ron Hubbard in una stanza piena di adepti di Scientology, dato che pare sia, con molta probabilità, il tweet che ha salvato e/o rilanciato un’intera industria. Un tweet che ha portato il Washington Post a chiedersi “Twitter può rimpiazzare le pubblicità del SuperBowl?”. Se non lo conosceste (e io non lo conoscevo: come molti degli Americani guardavo il SuperBowl, non il feed Twitter della Oreo, eccolo nella sua interezza: “Power out? No problem”. [“Senza luce? Nessun Problema”.] e un link portava a una foto di un Oreo illuminato in una stanza buia con la tagline “You can still dunk in the dark”. [“puoi sempre inzuppare (il biscotto) al buio”]. Un uso intelligente di pubblicità improvvisata in un momento difficile? Certamente. Anche se dalla reazione di questa stanza e dei media (questi ultimi sempre pronti a osannare qualsiasi cosa con il prefisso “social”) potreste pensare che sia stata scoperta l’elettricità, o che sia stata inventata l’automobile. Ok, tutti tranne un solitario editorialista. Mark Ritson, associate professor di marketing alla Melbourne Business School, ha scritto un editoriale per BRW, una rivista d’affari australiana, nei quali ha fatto una sorta di calcoli a spanne. Quanto peso ha avuto in realtà il tweet Oreo, universalmente acclamato? Ebbene, Ritson immagina, Oreo aveva 65.000 follower al momento del tweet. Il tasso di click da parte dei follower ottenuti da un qualsiasi tweet è un mero 2 per cento. Analizzando i tassi di click indotti e aggiungendo i retweet con la loro portata potenziale, ha stimato generosamente che “the Dunk in the Dark” ha raggiunto circa 150.000 persone, in una nazione dove quest’anno già 80 milioni di persone mangiano gli Oreo, e dove le pubblicità tradizionali del SuperBowl (che fa anche Oreo) raggiungono un numero di visioni 250 volte superiore a quello del tweet Oreo. Consideriamo che il pubblico di Twitter, aggiungerei, è grande circa quanto la circolazione del Fort Worth Star-Telegram. Ovvio, il tweet si è guadagnato spazio su tutti i tipi di media free, ed era gratis in se stesso. Ma il problema di Ritson non era con Oreo. Era con tutti quei “pigri giornalisti” che non sono riusciti a “vedere oltre il battage dei social media, per arrivare ai numeri che raccontano la vera storia”. Ovviamente il pezzo di Ritson si è guadagnato solo 125 retweet. Nel paese dei ciechi, il più retwittato è il re. Con tutto il chiacchierare della creazione di una cultura aziendale alla Oreo che ha permesso questo colpo di genio, non ero ancora sicuro di chi lo avesse scritto. Alla fine, ho messo all’angolo Steve Doan, senior associate brand manager di Oreo. “Lo hai scritto tu?” gli ho chiesto. “Su, non fare il timido”. No, ha risposto Doan. Ma era nella “war room”. E quante persone ci sono volute nella war room per realizzare l’evento culturale e letterario della nostra era, composto da 11 parole? “Una buona quindicina”, mi dice.

    Ecco, vi ho parlato dei twidioti per ampi tratti come seguaci di una setta – perché gran parte lo sono – ci sono addirittura note di dissenso fra i discepoli. Frequento il panel “Twitter per uomini duri” con la partecipazione di molti dei marinai di “Deadliest Catch”, il reality show di lunga data del Discovery Channel, sui pescatori di granchi che lavorano nel Mare di Bering. Nonostante tutti i tweet dei capitani, approvati dal social media team della rete che gli svolazza attorno come babysitter digitali durante il SXSW, si può percepire il sentore di eresia. Questi sono uomini che fanno uno fra i lavori più pericolosi del mondo, e che fanno qualcosa di concreto per vivere – tirar fuori cibo dall’oceano per dar da mangiare alle persone (anche se sotto lo sguardo attento delle telecamere di un reality show) – che sono stati trascinati qui in compagnia di social media guru, persone appiccicose alla ricerca di attenzione, e  patiti dell’Information Economy. Come dice un rauco Johnathan Hillstrand, capitano del Time Bandit, gli mancano i giorni nei quali nessuno della crew aveva uno smartphone. Ora, dice, “vanno in giro senza guardare dove sono. Preferirei vederli drogati. Almeno guarderebbero fuori dalla fottuta finestra”. Quando ho ritrovato Hillstrand e gli altri capitani più tardi quella sera alla festa per Deadliest Catch, lui mi ha confessato i suoi sentimenti per Twitter in modo piuttosto diretto: “Lo odio fottutamente. Ti porta via tutto il tempo, e le persone si aspettano che tu lo faccia. Mi faccio il culo a lavoro, mi manca solo un’altra attività multimediale da fare… vedo persone che vanno a pranzo, e almeno quattro di loro scriveranno tutto il tempo. E probabilmente andando via scriveranno ‘un pranzo fantastico, facciamolo ancora’. E non hanno nemmeno parlato!”. Una sera, mi sono imbattuto in un amico, uno stratega di campagne di patrocinio di ritorno a D.C. al bar dell’hotel. Nell’occhio di questo ciclone hipster, è difficile trovare una Budweiser fra le altre birre artigianali da nome altisonante (“Saint Arnold’s Fancy Lawnmower”). Di conseguenza, il whiskey scorre a fiumi mentre ci raccontiamo i nostri punti di vista divergenti sulla Twitidiozia. Jake Brewer è membro del club degli appassionati di IT, chief strategy officer di Fisson Strategy a Washington. Non prende troppo sul serio i social media. Eppure li prende abbastanza sul serio da suggerire che potrei essere un po’ più spassionato nel considerarli. I social media, dice, sono semplicemente uno strumento come un altro, una possibilità “di avere un’esperienza condivisa a un livello finora impossibile”. C’è un lato oscuro in questo, ammette. “E sono gli esseri umani. Punto. Posso usare un coltello per tagliare il pane e servire un pasto grandioso. Posso anche pugnalarti però”.

    Jake, comunque, ammette che le persone sono assuefatte alla flebo di dopamina data dal Che Sta Succedendo Ora. I professionisti, dice, lo chiamano FOMO – fear of missing out, paura di perdersi qualcosa. Di conseguenza, dice, le persone controllano sempre “cos’altro succede in comparazione all’essere solo se stessi”. O, come dice Douglas Rushkoff nel suo libro “Present Shock”: “La nostra cultura diventa un brusio entropico, statico, di chiunque cerca di catturare il momento che sfugge. La narratività e gli obiettivi sono annullati dalla nozione distorta del reale e dell’immediato; il tweet, l’aggiornamento dello status”. Mentre io e Jake parliamo, un uomo che erroneamente prendo per un hipster appassionato di tecnologia si fa strada fino a noi, non invitato. Il suo nome è Todd Butler, e sono spiazzato dalla sua schiettezza quando inizia con “Le persone giudicano il successo sui social media non necessariamente dalla quantità del lavoro, ma da quanti lo seguono. Questo altera e diminuisce l’abilità delle persone che vogliono davvero mettere della qualità in quel che fanno perché pensano ‘A nessuno interessa se è di qualità.’ Gli interessa se ottengono 5.000 like”. Jake si scusa ma ha un altro appuntamento. Ma ora Todd ha la mia attenzione. Continua la conversazione, scusandosi per quello che sa potrebbe sembrare un abbigliamento da hipster, il cappello a tesa larga, la felpa con cappuccio sotto la giacca sportiva: “Onestamente, questo non è il modo in cui mi vesto di solito,” dice, “sembro un maledetto Don Draper quando vado a lavoro ogni giorno. Dovevo essere un hipster per questo”. Digital strategist, Todd ha anche appena lanciato un’app per iPhone chiamata “GONO”, che lui stesso descrive come “un’app per prendere decisioni in modo social”. Permette agli utenti di mettere ai voti tutto quello che riguarda la loro vita, nella loro rete sociale. “Cinque anni fa – spiega Todd – non mi sarebbe importato nulla di quello che gli altri pensavano della mia decisione di comprare una borsa o una macchina o di chiamare una bionda o una brunetta. Ma ora più che mai, le persone sono propense a metterli su Twitter. Quindi questa app permette alle persone di avere una certa rassicurazione sul fatto che il mondo approvi la loro decisione”. Gli dico che la sua app sembra un po’ cinica, come se facesse affidamento sull’insicurezza di quelli che cercano costantemente l’approvazione degli altri. Sono colpevole, ammette in modo trasparente. Ma è la realtà, anche se è una realtà di cui ride lui stesso. Todd mi sembra diverso da un trionfalista tech, e lo è. Nove anni fa, è stato l’unico sopravvissuto ad un disastro aereo che ha ucciso la sua fidanzata e suo padre, il pilota. Quando cerco di esprimergli empatia, scrolla le spalle rassegnato e mi parla dei suoi denti finti e delle barre nel bacino. Anche se sembra felice e in salute, mi dice: “Ho fatto più plastiche io di qualsiasi altra ragazza che puoi conoscere”. Mi chiede se voglio vedere le foto dei rottami, e prima che io possa rispondere prende il suo tablet, e con nonchalance sfoglia foto di detriti dalla scena dell’incidente. “Succede,” dice, controllando le emozioni. L’incidente sembra avergli dato una specie di direzione, un’urgenza che ha accelerato il suo metabolismo. Egli stesso un pilota, ha deciso di volare di nuovo. Ha viaggiato zaino in spalla per tutta l’Australia. Scalerà il Kilimangiaro quest’estate. E’ andato in Nepal, dove lavorano gli sviluppatori della sua app. Erano felici di vederlo, dato che “Kathmandu non è un grande hub per gli affari. E’ stato divertente. Mi hanno benedetto, mi hanno fatto sedere alla ruota della preghiera e tutte quelle cose lì”. Todd stesso si lancia entusiasta ovunque il suo impulso lo porti. “Non mi faccio molte domande sulle mie decisioni,” dice. Ma la sua social app mira a quella generazione dalla coscienza collettiva che spesso non sa nemmeno come vivere lontano dal costante, onnipresente eco del suo social network. “Puoi ripulire la cosa e dire quello che vuoi,” ammette. “Ma onestamente, questa app si concentra sul fatto che oggi, letteralmente, le persone non vogliono prendere decisioni da sole. Piuttosto vanno su Twitter. Il termine migliore è ‘paralizzato’: ‘non voglio prendere questa decisione finché non saprò che cosa ne pensano 5000 persone anonime’”. Chi ha bisogno di essere sicuro del proprio punto di vista? Ecco perché gli dei del tech hanno inventato i like e i retweet. Non è che Todd non abbia idea di cosa sia l’insicurezza. Compirà 30 anni durante il SXSW e dice candidamente che, pur essendo bravo nel suo lavoro e sapendo ciò che fa, nelle parole dei veri tech-addicted, “Sono out! Ho solo 30 anni e mi sembra già di avere una crisi di mezz’età!”. Il suo mondo, il mondo tech e quello della Twidiozia, sta cambiando per sempre. I suoi intern diciannovenni hanno delle idee sulla sua social app che a lui non sono venute. “Tutto si muove così in fretta”, dice. A volte, Todd preme il tasto pausa durante le sue maratone televisive di “Law & Order”. Sì, fa molto anni Novanta. “Ma è statico – dice – l’unica cosa che guardo che non cambia”. Mentre passano le ore, e si diventa stucchevoli, parliamo di quegli uomini esagerati che hanno vissuto pienamente il loro presente. Gary Cooper. Frank Sinatra. “Non gliene fregherebbe un cazzo di quello che pensi. Non sarebbero mai andati su questa app!” dice Todd. “Ed è questa la differenza. Adesso abbiamo Kim Kardashian”, che vive e muore attraverso il suo social network. La quindicesima donna più seguita di Twitter ha persino chiesto ai suoi follower di scegliere la canzone per il primo ballo al suo matrimonio, e la canzone è durata all’incirca quanto il matrimonio stesso. E’ tutto abbastanza stupido, dice Todd. Ma basta aspettare – diventerà ancora più stupido. I suoi intern lo hanno informato recentemente che Facebook e Twitter ormai sono passati – probabilmente perché ci sono troppe mamme cool e giornalisti di mezza età. Si preferisce Instagram, basato sulle foto. 140 caratteri? “Oh, sono fin troppi,” ride Todd. “Abbiamo trovato un modo di rendere le cose ancora più facili. Prima, avresti twittato ‘Non mi piace come si fa i capelli Justin Bieber.’ Ora, puoi postare una foto dei capelli di Justin Bieber e creare l’hashtag ‘Justin Bieber fa schifo’, ed ecco fatto”. “Semplifica davvero le cose – aggiunge, sardonico – Metti Robert Frost su Twitter e Forrest Gump su Instagram”. Dopo diversi giorni, finalmente ho trovato un panel che pone una domanda intrigante: “I social media ci fanno diventare pazzi?”. Il verdetto, emanato da un paio di tizi social media della ditta Abelson Taylor, apparentemente è: no. I social media amplificano qualsiasi tipo di umore noi abbiamo, dicono. Le persone felice tendono a restare felici, le persone depresse, depresse. C’è una lunga serie di slide di un sondaggio che hanno condotto per sostenere questa tesi. Ha un po’ il sapore degli “scienziati” delle compagnie del tabacco che dicono che fumare aumenta la capacità polmonare. Non importa il fatto che dopo aver chiesto chi pensasse che i social media ci fanno impazzire, tre quarti dei tech-addicted, iper-connessi componenti della folla al panel SXSW abbia alzato la mano dando risposta affermativa. E non importa che uno studio della Michigan State abbia rilevato che l’uso eccessivo di media, o del media multitasking, possa portare a sintomi associati a depressione e ansietà.

    Uno scienziato della Oxford University ha detto che Facebook e Twitter stanno portando al narcisismo estremo e a una “crisi d’identità” dei suoi utenti, mentre uno studio del Nominet Trust ha trovato che quattro quinti dei genitori britannici hanno paura che i figli diventino dipendenti dai siti di social networking. Uno studio della Western Illinois University, riportato dall’Atlantic, “ha trovato un’alta correlazione fra i risultati nell’Inventario della Personalità Narcisistica e l’attività di Facebook”. Uno studio Retrevo ha mostrato che il 28 per cento degli utilizzatori di un iPhone controlla/aggiorna Twitter prima di andare a dormire, mentre il 48 per cento lo fa dopo essersi messo a letto. Uno studio della Chicago University ha rilevato che twittare può dare più assuefazione delle sigarette e dell’alcol, e che anche se il sonno e il sesso possono essere delle urgenze più forti, le persone più facilmente cedono all’urgenza di andare sui social media. Ricercatori di un’università tedesca hanno trovato che una persona su tre fra chi ha visitato Facebook si è sentita più insoddisfatta della sua vita dopo, provando sentimenti quali invidia e insicurezza. Ed uno studio su 120.000 persone compiuto dall’azienda Vuclip ha rilevato che il 61 per cento degli uomini ha detto che il loro telefono era la prima cosa che le persone avevano notato di loro (brutte notizie per me e il mio mammaphone). In effetti, un meetup SXSW al quale ho partecipato nel patio sul retro di un bar di Austin – intitolato “Io sono il mio social network” – ha dimostrato quanto è acuto questo problema. Dave Hepp, direttore creativo al CreativeFeed di New York, ha deciso di condurre quello che in questi giorni passa per un esperimento coraggioso e socialmente radicale: ha obbligato i partecipanti a mettere giù i telefoni per 45 minuti, parlando fra loro. C’erano cartelloni in tutto il patio, con suggerimenti su come iniziare una conversazione per gli svantaggiati dal punto di vista delle relazioni umane, come “Qual è la prima cosa che ti ricordi?”, o “Cosa volevi diventare una volta adulto?”. Sono stati consegnati dei questionari, in modo che le persone catalogassero le loro conversazioni, obbligandoli ad ascoltare. Le persone si riuniscono in modo vario, i loro iPollici si contraggono, desiderosi di toccare le loro appendici digitali recentemente amputate. Ma per la maggior parte, la vecchia memoria muscolare della vita analogica torna gradualmente. Le persone si presentano, si azzardano a intavolare qualche goffa conversazione, sentendosi pian piano a loro agio a contatto con gli altri, come vittime di incidente che imparavano di nuovo a camminare. Dopo 15 minuti, erano in grado di sostenere quelle che sembravano connessioni umane reale. Nessuno guardava oltre la sua spalla in cerca di qualcuno di più importante, dato che parlare del proprio lavoro era proibito. Molti parlavano delle loro esperienze al SXSW. Di come fosse impossibile avere conversazioni con gli iDistratti. Del come si sono seduti ai panel, ammirando i tweet live di persone che sapevano essere sedute lì vicino, e di come non abbiano nemmeno pensato di presentarsi alla fine dei panel stessi. Keith Kurson, che lavora per Agoge Inc. a San Francisco, mi racconta di come non sia mai, assolutamente mai disconnesso. L’altro giorno, ha usato un’app che gli ha permesso di ordinare McDonald’s e una bottiglia di Jack Daniels, con consegna dallo stesso ragazzo in bici. “Non ho mai dovuto lasciare il mio salotto!”, dice con strabiliato orrore. Il suo cellulare è sempre acceso. “Sono molto orgoglioso del mio personal brand”, ammette. Ma un gruppo di suoi amici lascerà un club stasera, resterà sul marciapiede e inizierà a chiedersi se andare al iHop attraverso hashtag, con gli amici a pochi passi. Ha risposto a messaggi durante il sesso, ammette, imbarazzato. Si strugge per gli anni Ottanta, che vede come un’epoca dorata, “un mondo diverso … quando lasciavi il lavoro al lavoro”. Keith ha 22 anni. Il suo amico, che lavora per GaymerConnect (un’azienda che organizza convention per i giocatori gay), è ancor più nichilista. Indossa un cappello di paglia e ha una scritta fissata con un nastro “SONO UN COGLIONE - @MATTCONN” Chiedo a Matt il perché. “Beh,” dice “ho promosso la mia roba tutta la settimana e mi sentivo proprio un coglione, quindi ho deciso di essere onesto sulla cosa. Di tutti quelli che incontro al SXSW, nessuno in realtà ascolta quello che dici. Anche loro stanno promuovendo la loro merda. E io promuovo la mia merda con loro. Ho twittato qualcosa oggi, ma penso di non farcela più. Tutto quello che voglio è un lavoro in una caffetteria, o cose simili”.

    In un angolo del patio, ho origliato una effervescente donna di colore da Brooklyn chiamata Kerry Coddett, che fa una serie di sketch comici sul Web, mentre conosceva un uomo di campagna dalle maniere un po’ rudi della Pennsylvania chiamato Andrew. Gli ha chiesto la sua storia, e se fosse vero quello che aveva sentito – che tutti lì avevano un sacco di figli e prendevano metanfetamine. “Non è una vera e propria regola” ha risposto Andrew ridendo.  Gli ha poi raccontato una storia, che potrebbe essere la storia di quasi tutti qui. “Lo sai, è divertente – dice – Sono andata in Costa Rica per il mio compleanno. E ho guardato in alto e mi sono detta ‘Che cazzo sono quelle? Oh merda! Sono stelle!’ Non vedevo le stelle da così tanto tempo. Sai com’è… è triste”.

    di Matt Labash

    (Questo articolo è apparso sul Weekly Standard del 6 maggio ed è ripubblicato per gentile concessione dell’editore. Traduzione di Marion Sarah Tuggey)

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