I riti sacrificali della Repubblica, ovvero la giustizia del “si vuole”

Guido Vitiello

Raffrontare un antico testo babilonese sul sacrificio di un toro e un rapporto di polizia giudiziaria redatto dai carabinieri di Napoli nei primi anni Ottanta è un esercizio da lunatici o da sfaccendati, ma aiuta a riscuotersi dal cattivo sogno dell’attualità. Condotto in un antro segreto, l’animale era asperso d’acqua e purificato col fuoco; al culmine di un intricato cerimoniale veniva ucciso, il suo cuore bruciato. Il sacerdote si inchinava allora davanti al cranio ed esclamava: “Questo atto l’hanno compiuto tutti gli dèi, non l’ho compiuto io”.

Raffrontare un antico testo babilonese sul sacrificio di un toro e un rapporto di polizia giudiziaria redatto dai carabinieri di Napoli nei primi anni Ottanta è un esercizio da lunatici o da sfaccendati, ma aiuta a riscuotersi dal cattivo sogno dell’attualità. Condotto in un antro segreto, l’animale era asperso d’acqua e purificato col fuoco; al culmine di un intricato cerimoniale veniva ucciso, il suo cuore bruciato. Il sacerdote si inchinava allora davanti al cranio ed esclamava: “Questo atto l’hanno compiuto tutti gli dèi, non l’ho compiuto io”. Leggiamo ora quel vecchio verbale dei carabinieri: “Si vuole che sia dedito allo spaccio delle sostanze stupefacenti nell’ambiente artistico da lui frequentato”. La persona in questione è Enzo Tortora. Il veleno non è in cauda ma in capite, in quel sibillino “si vuole”, e tra le mille coincidenze che rendono perturbante il caso Tortora c’è anche il ritorno di quel leitmotiv. Fu il 20 aprile 1988, nel programma “Il testimone” di Giuliano Ferrara. Tra gli ospiti c’era Armando Olivares, il pm che aveva sostenuto l’accusa nel processo d’appello. Incalzato dal conduttore perché illustrasse gli elementi in base ai quali un innocente era stato condotto al macello come un toro babilonese, Olivares dapprima ebbe premura di ricordare che nessun atto giudiziario è mosso mai da ragioni personali; poi, nel suo italiano piccolo-burocratico innestato su un fondo dialettale, inaugurò così la sua ricostruzione delle indagini: “Si vuole questo”.

Quella costruzione sintattica faticosa e involuta sarà apparsa su mille altri verbali. Una formula di rito, senza meno; ma tutto sta a capire quale sia il rito. Da qualunque lembo la si prenda, è una formula che fa paura. Fa paura il “vuole”, l’idea cioè che possa esservi un’oscura deliberazione, e non una raccolta meticolosa di prove, all’origine di una iniziativa giudiziaria; ma più spaventoso ancora è quel pronome impersonale, “si”, che lega l’atto di volontà a un agente senza volto, e come tale sovranamente irresponsabile. Il dramma della giustizia italiana, l’agonia della Prima e della Seconda Repubblica, il conflitto tra politica e magistratura, tutto è ricapitolato in quelle due parolette: si vuole. Il pubblico ministero italiano gode di poteri così ampi da sconfinare nell’arbitrio: può promuovere indagini su chiunque e ovunque, anche in assenza di notizie di reato, per il mero sospetto che un reato possa esserci. Ma ogni sua decisione, perfino ogni suo capriccio, trova uno scudo costituzionale dietro cui acquattarsi: l’obbligatorietà dell’azione penale. Dietro quello scudo, anche l’iniziativa più persecutoria diventa un “atto dovuto”. Che il toro sia innocente o colpevole, poco conta; quel che conta è che il suo sacrificatore, posato il pugnale, possa esclamare: “Questo atto l’hanno compiuto tutti gli dèi, non l’ho compiuto io”.

Giuseppe Di Federico, che non è tipo da citare testi rituali babilonesi ma che, da liberale pragmatico, bada ai rapporti di forza e agli squilibri tra i poteri, è lo studioso che più di ogni altro ha insistito sul paradosso che si genera quando l’indipendenza del pm si sposa all’obbligatorietà dell’azione penale. Il pubblico ministero esercita un potere discrezionale così ampio da essere sempre, lo voglia o meno, politico. Ma a chi gli chieda conto delle sue scelte ha buon gioco a rispondere che vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole, cioè nella Costituzione, art. 112. E’ da pensare che alcuni magistrati vivano questo statuto paradossale come un peso, altri senza darsene piena contezza, e che altri ancora ne usino con scaltrezza e malizia. Ma il paradosso è nelle cose prima che nelle persone, e li riguarda tutti.
Gli studiosi del sacrificio antico hanno dato un nome a questi espedienti grazie ai quali la responsabilità dell’immolazione è fatta ricadere su potenze sovrapersonali: commedia dell’innocenza. La giustizia del “si vuole” è forse meno cruenta, ma è interesse di tutti – e dei magistrati per primi – che la commedia abbia fine.

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