Il matto Oscar “Gianninov” e il vecchio tema liberale della pazzia

Guido Vitiello

Chissà se Emmanuel Carrère getta un occhio alle cronache italiane. Dopo aver dato consacrazione romanzesca all’ergastolano Jean-Claude Romand, che si finse medico per decenni e una volta scoperto sterminò tutta la famiglia, l’autore dell’“Avversario” potrebbe incapricciarsi del nostro genio minore (e innocuo) dell’affabulazione e della millanteria, e offrire ad Adelphi il bestseller della prossima stagione: “Gianninov”.

    Chissà se Emmanuel Carrère getta un occhio alle cronache italiane. Dopo aver dato consacrazione romanzesca all’ergastolano Jean-Claude Romand, che si finse medico per decenni e una volta scoperto sterminò tutta la famiglia, l’autore dell’“Avversario” potrebbe incapricciarsi del nostro genio minore (e innocuo) dell’affabulazione e della millanteria, e offrire ad Adelphi il bestseller della prossima stagione: “Gianninov”. Sarebbe un buon risarcimento per la cattiva prosa che abbiamo dovuto scontare in questi giorni, per la spietata bonarietà di qualche collega maramaldo, la Schadenfreude piccina degli invidiosi, l’improvviso rigore di certi gesuiti che si sono scoperti, da un giorno all’altro, calvinisti. Forse solo Carrère saprebbe rendere giustizia – e giustizia poetica – alla malinconica follia di Oscar Giannino. A noi non resta che trarre dal suo caso qualche timida lezione, e cogliere l’occasione per mettere all’ordine del giorno un vecchio tema liberale: la pazzia.

    Perché, vedete, nel piccolo mondo dei liberali italiani il caso Giannino è meno isolato di quanto si possa credere, e i lunatici sono gente di casa. Chiunque abbia frequentato circoli e circoletti liberali, riunioni di riviste benintenzionate morte prima del numero zero, assemblee fondative di comitati ambiziosissimi sciolti dopo un quarto d’ora per dissensi inconciliabili, conferenze semideserte su temi frizzanti come “Attualità di Nicola Chiaromonte” o “Il concetto di catallassi dopo F. von Hayek”, sa fin troppo bene di cosa parlo. L’austerità delle discussioni e la solennità delle sedi non basta a cancellare una sinistra atmosfera da freak show: c’è sempre, in queste occasioni, il diciottenne allampanato con la riga in mezzo e con la pipa; il tipo vestito da capo a piedi di velluto; quello che sul più bello, con naturalezza, tira fuori un orologio da tasca; quello con i basettoni rossicci e un bel basco messo di sghimbescio che mastica nervosamente un toscano mentre si accalora parlando di Malagodi. Tu li guardi e tremi al pensiero che da un momento all’altro, come nel film di Tod Browning, questi freak liberali si voltino sorridenti verso di te e ti accolgano cantilenando “One of us, one of us”.

    Compagni liberali, è ora di ripensare al nostro pluridecennale flirt con la follia. Accantonare, sia pure a malincuore, l’idea della “mezza dozzina di pazzi melanconici” di Gaetano Salvemini. Farla finita una buona volta con l’attesa messianica del “matto” invocato da Mario Ferrara nel 1951 dalle colonne del Mondo: “I liberali hanno bisogno di un matto. Uno di quei bei matti che non sono mai stati al manicomio e non ci andranno, che sono simpatici a tutti, non fanno ridere né piangere, ma cominciano con il farsi ridere dietro dai savii e farsi ascoltare da altri pazzi come loro e, alla fine, si tirano dietro il grande esercito dei savii e ben pensanti”. La voce nel deserto di quel Giovanni Battista torna ciclicamente a risuonare, e noi ogni volta a chiederci se il nuovo matto sia quello buono, il matto che attendevamo, il matto profetizzato dalle Scritture. L’oracolo di Ferrara è stato evocato più volte per Marco Pannella, il decano dei matti liberali, che senz’altro qualche esercito, nelle occasioni decisive, ha saputo tirarselo dietro. Lo si è rispolverato per Berlusconi, che però si è rivelato di gran lunga più matto che liberale. Stefano Folli l’ha appena richiamato in causa per Giannino, concludendone che neppure lui era il nostro messia pazzo.

    Che fare? Non si tratta, a questo punto, di aspettare il prossimo “matto senza occhiali da sole”: ne abbiamo avuti fin troppi. Si tratta di chiedersi, piuttosto, se la pazzia melanconica non sia la malattia infantile del liberalismo italiano. E se è vero, come insegnano i Vangeli, che un cieco non può guidare un altro cieco a costo di finire entrambi nel fosso, un piccolo esercito di matti deve cercarsi – e di corsa – un generale savio. Meglio ancora, vorrei suggerire, una generalessa.
    Date un’istitutrice a quei matti dei liberali.