Quegli europeisti che si compiacciono all'idea dell'uscita di Londra

David Carretta

Bruxelles. C’è sempre quella fastidiosa tendenza tutta britannica a fare “cherry-picking” con l’Unione europea, come l’ha definito il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, a prendere il meglio che c’è e ignorare il resto, ma l’establishment europeo ed europeista ha reagito con sollievo al discorso di ieri di David Cameron sulle relazioni tra il Regno Unito e l’Europa. La Commissione “saluta il fatto che David Cameron desideri restare nell’Ue”, ha detto la portavoce del presidente dell’esecutivo comunitario, José Manuel Barroso.

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    Bruxelles. C’è sempre quella fastidiosa tendenza tutta britannica a fare “cherry-picking” con l’Unione europea, come l’ha definito il ministro degli Esteri tedesco Guido Westerwelle, a prendere il meglio che c’è e ignorare il resto, ma l’establishment europeo ed europeista ha reagito con sollievo al discorso di ieri di David Cameron sulle relazioni tra il Regno Unito e l’Europa. La Commissione “saluta il fatto che David Cameron desideri restare nell’Ue”, ha detto la portavoce del presidente dell’esecutivo comunitario, José Manuel Barroso: “E’ nell’interesse dell’Ue e nell’interesse del Regno Unito” che Londra resti “membro attivo”. Il presidente francese, François Hollande, si augura che il Regno Unito “resti nell’Ue”. La cancelliera tedesca, Angela Merkel, è perfino pronta a “discutere le richieste britanniche”, ma “c’è ancora tempo”, le priorità sono altre, come l’accordo a inizio febbraio sul bilancio pluriennale dell’Ue, sul quale Cameron minaccia il veto. La Brexit – l’uscita del Regno Unito – non sarà sull’agenda europea dei prossimi mesi. Visto da Bruxelles, a parte qualche punzecchiatura sulla mancanza di democrazia e i troppi soldi degli eurocrati, “The Speech” non costituisce più una minaccia immediata. Il referendum “in or out” non ci sarà prima di quattro anni e “Cameron non sarà più al potere”, dice al Foglio il leader dei socialisti all’Europarlamento, Hannes Swoboda. Cameron è stato furbo a legare il voto sull’Europa alla sua rielezione, costringendo gli euroscettici fra i Tory a sostenerlo nel 2015 per avere il referendum. Il discorso è stato “più sulla politica interna che sulla realtà europea”, spiega il presidente dell’Europarlamento Martin Schulz.

    Eppure, chi ha ascoltato con attenzione “The Speech” si è accorto che, se il progetto delineato da Cameron andrà in porto, ci sono almeno due pericoli che l’Ue dovrà fronteggiare. “Il cherry-picking non è un’opzione”, ha avvertito il tedesco Westerwelle. “L’Europa à la carte non passerà”, ribadisce Swoboda. Il problema non è tanto il Regno Unito, che beneficia già di numerosi opt-out: dall’euro alla carta sociale europea, dalla regolamentazione finanziaria alla nuova supervisione bancaria, Londra ha un piede fuori dall’Ue. Quando nel 2014 si avvierà il grande cantiere della riforma del trattato per rafforzare la zona euro, il primo “rischio è di aprire un vaso di pandora”, spiega al Foglio un diplomatico europeo: “Altri paesi potrebbero chiedere di rinegoziare il loro contratto con l’Ue”. Per il leader dei liberali all’Europarlamento, Guy Verhofstadt, “un rinegoziato di convenienza” da parte di Cameron porterebbe “al disfacimento del mercato unico”, perché “altri paesi chiederebbero concessioni”. A novembre, il premier olandese, Mark Rutte, aveva invocato “un dibattito per vedere se l’Europa non è coinvolta in troppe aree che potrebbero essere trattate a livello nazionale”. La Repubblica ceca è pronta a seguire Cameron. L’Ungheria intravvede la possibilità di non dover sottostare ai diktat sul sistema giudiziario o la legislazione sui media. “La flessibilità suona bene – ha detto il ministro degli Esteri svedese, Carl Bildt – Ma se si apre a un’Europa a 28 velocità, alla fine non c’è più Europa. Solo caos”.

    Il secondo pericolo è il compiacimento con cui alcuni a Bruxelles – e tra gli europeisti – vedono la prospettiva di una Brexit. “Senza Londra tutto sarebbe più semplice”, dice un diplomatico francese. Parigi e Berlino non troverebbero più resistenza ai loro progetti di smontare il mercato interno, minare la politica di concorrenza, uniformare verso l’alto la tassazione e – alla fine – legare le mani della Commissione con più metodo intergovernativo. Senza il Regno Unito, l’Ue sarebbe ancor più franco-tedesca, e molto meno comunitaria.

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