Il grande oriente d'Israele

Giulio Meotti

Naftali Bennett, il milionario figlio di ebrei liberal di San Francisco, è il nuovo asso piglia tutto della politica israeliana. L’ultimo sondaggio di ieri dà il suo partito di destra Focolare ebraico al secondo posto, incalzando persino il Labour (un tempo i partitini nazionalisti erano confinati a due-tre seggi). Il premier, Benjamin Netanyahu, è in grande agitazione. E per tamponare la perdita di voti, “Bibi” ha appena compiuto una visita senza precedenti in una delle colonie più isolate nel cuore della Cisgiordania, Rechalim, che prende il nome da una donna israeliana uccisa dai terroristi nel 1991. Netanyahu non si era mai spinto tanto a est.

    Naftali Bennett, il milionario figlio di ebrei liberal di San Francisco, è il nuovo asso piglia tutto della politica israeliana. L’ultimo sondaggio di ieri dà il suo partito di destra Focolare ebraico al secondo posto, incalzando persino il Labour (un tempo i partitini nazionalisti erano confinati a due-tre seggi). Il premier, Benjamin Netanyahu, è in grande agitazione. E per tamponare la perdita di voti, “Bibi” ha appena compiuto una visita senza precedenti in una delle colonie più isolate nel cuore della Cisgiordania, Rechalim, che prende il nome da una donna israeliana uccisa dai terroristi nel 1991. Netanyahu non si era mai spinto tanto a est.

    Visita non annunciata, per ragioni di sicurezza. Ci vuole oltre mezz’ora da Tel Aviv per arrivarci e dietro ogni albero d’ulivo potrebbe appostarsi un cecchino palestinese. A Rechalim Netanyahu non si è fermato più di dieci minuti. L’insediamento è infatti circondato da villaggi palestinesi in cui l’esercito israeliano non entra salvo eventi eccezionali. “Questo è il vero cuore della Samaria”, ha esclamato con trasporto Netanyahu ai coloni, che misurano il coraggio nella quantità di chilometri fatti a oriente. Quindi Netanyahu ha ricordato che il padre – lo storico Ben-Zion Netanyahu, scomparso di recente – era un “acceso sostenitore della Grande Terra d’Israele”. Un tentativo per riagguantare i tanti voti persi a vantaggio di Bennett, che porterà in Parlamento il “nuovo Israele” che si oppone alla creazione di uno stato palestinese. Una “strana destra”, come è stata definita, che unisce i caffè di Tel Aviv, le comuni agricole del Golan, i kibbutz del Negev e il ghetto ebraico di Hebron.

    La femme fatale di questo nuovo movimento si chiama Ayelet Shaked, bellissima, senza fazzoletti pii, a proprio agio nei bar di Tel Aviv, inviata da Bennett in ogni studio televisivo per conquistare il voto dei giovani laici. Poi c’è l’altro volto femminile, Orit Struck, vestita da religiosa con la gonna lunga e il cappello che le ombreggia l’occhio sinistro. Miriam ha undici figli (sì, undici) e alle finestre di casa ha sacchetti di sabbia per proteggersi dai tiri dei cecchini. Segue l’unico kibbutzim che entrerà alla prossima Knesset, Zvulun Kalfa. Un tempo le comuni agricole che hanno fatto il paese votavano a sinistra, da Meretz al Labour. Oggi, orfane di una sinistra urbana e radical, si sono spostati a destra. Kalfa vive a Dvir, un kibbutz laico del Negev fondato da pionieri socialisti e che ha donato al mondo alcune delle tecniche di cui tutti si giovano, come l’irrigazione a goccia e tecnologie avanzatissime per la coltivazione persino nel deserto.

    Nella nuova destra di Bennett ci sono le vedove degli eroi di guerra, come Shuli Mualem, una sorta di Medea che perse il marito nel 1997 e che oggi dirige l’organizzazione degli orfani dell’esercito, un altro baluardo della sinistra laburista espugnato dai nazionalisti. Ma c’è anche Alon Davidi, il capo della sicurezza di Sderot, la città del sud bombardata dai missili di Hamas.
    Il movimento di Bennett può contare sul sostegno editoriale del nuovo magnate della stampa israeliana, Shlomo Ben Zvi, un miliardario inglese proprietario dei quotidiani Makor Rishon e di Maariv, che ha fatto la storia d’Israele. L’editore vive a Efrat, una colonia della Cisgiordania. Poi c’è il mondo dell’attivismo sociale, fra cui figure come il medico Eli Schussheim. Dirige da vent’anni la più grande organizzazione pro life d’Israele. Si chiama “Efrat”. Quando il faraone ordinò l’uccisione di tutti i nuovi nati ebrei, disse alle levatrici: “Quando assistete al parto delle donne ebree, osservate quando il neonato è ancora tra le due sponde del sedile per il parto: se è un maschio, lo farete morire; se è una femmina, potrà vivere”. Le levatrici disubbidirono: “Non fecero come aveva loro ordinato il re d’Egitto e lasciarono vivere i bambini”. Una di loro, Miriam, che era anche sorella di Mosè, acquisì così il nome di “Efrat”, che risale all’espressione ebraica “pru u’revu”, il precetto “siate fecondi e moltiplicatevi”.

    Al fianco di Bennett ci sono molti militari con le mostrine, giovani religiosi che hanno scalato la carriera nell’esercito, come il colonnello della riserva Moti Yogev e Yoni Shatbon. Scrive Yagil Levy su Haaretz che “Bennett rappresenta un nuovo tipo che negli anni Ottanta e Novanta è entrato nelle unità combattenti e ha conquistato un posto importante nella gerarchia di comando”. Il grande bacino elettorale di Bennett è negli insediamenti dove vivono molti ufficiali dell’esercito e dei servizi segreti con moglie e figli. Haaretz parla di “decine di ufficiali dell’esercito che vivono negli avamposti”. Per loro le montagne che vanno da Jenin a Hebron, sessanta chilometri di lunghezza per venti di larghezza, fino a una altezza di mille metri, sono la “protezione naturale” di Israele.

    Si va dal semplice container appoggiato in cima a una collina, per conquistare una posizione, ai prefabbricati su un fianco tipo “post terremoto” e col tempo diventati casette dal tetto rosso. La terra su cui sorgono è “statale”, passata di mano in mano agli imperi che si sono succeduti, oppure è “abbandonata”, senza che se ne possa dimostrare la proprietà, oppure è acquistata dagli israeliani, come Havat Gilad. Quando c’è tensione, sulle colline le comunicazioni si fanno difficili, la compagnia degli autobus sospende i movimenti, nessuno si avventura sulle strade se non ha un fucile e se ci vai diventi spesso un bersaglio per i cecchini. Sono giovani nervosi che vivono a fianco degli arabi, a cui spesso capita che debbano seppellire i propri cari uccisi in agguati. Chi li abita è una nuova generazione di coloni, convinta d’interpretare la continuità del sionismo dopo che i loro padri coloni hanno costruito per loro comode villette a schiera. Costruiscono esistenze minimaliste, in stile kolchoz sovietico, vite ardite e fedelissime, popolate di bambini.

    Imparano a sparare e a difendersi nel caso in cui l’esercito israeliano si ritiri da queste gole sante. Qui o si vince o si scompare. La capitale di questo nuovo mondo si chiama Esh Kodesh. E’ un avamposto isolato presso Shilo, indifeso e al centro di continui scontri fra i palestinesi e i coloni. Oltre quella collina c’è la Giordania, l’Iraq, l’Iran. Esh Kodesh, ovvero “fuoco sacro”, dal titolo di un libro di un rabbino ucciso nel ghetto di Varsavia, Kalonymus Shapira. Mentre altri religiosi chiamavano alla pazienza e alla preghiera, Shapira invitò all’autodifesa e alla resistenza.

    Poi c’è il Golan, che sorge altissimo e immenso sopra la Galilea. Netanyahu è stato indebolito dai recenti leak su un presunto sostegno alla cessione del Golan in cambio della pace con la Siria. Questo prima della crisi del regime di Assad, ma quanto basta per fare di Bennett il nuovo capopopolo dei kibbutzim del Golan. Ci vivono in ventimila in oltre trenta comunità. Ufficialmente fanno parte di Israele, ma sono da sempre considerati merce di scambio con Damasco. Non per Bennett, che è popolarissimo in luoghi come Ein Gev, outpost che più isolato non si può. Nel 1948 i tank siriani cannoneggiavano il kibbutz dall’alto e per lungo tempo si poteva raggiungere il villaggio tramite il lago di Galilea.
    Più ci si avvicina ai lembi, alle periferie, alle trincee e alle frontiere d’Israele, più il voto si sposta a destra. Un tempo si chiamavano “halutzim”, pionieri socialisti, oggi è la “noar gvaot”, giovani delle colline.

    • Giulio Meotti
    • Giulio Meotti è giornalista de «Il Foglio» dal 2003. È autore di numerosi libri, fra cui Non smetteremo di danzare. Le storie mai raccontate dei martiri di Israele (Premio Capalbio); Hanno ucciso Charlie Hebdo; La fine dell’Europa (Premio Capri); Israele. L’ultimo Stato europeo; Il suicidio della cultura occidentale; La tomba di Dio; Notre Dame brucia; L’Ultimo Papa d’Occidente? e L’Europa senza ebrei.