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Biografia politica di Giorgio Napolitano / 3

Realismo contro moralismo

Sergio Soave

Le tensioni istituzionali cominciano a diventare un fattore decisivo della situazione politica con la richiesta avanzata da Enrico Berlinguer delle dimissioni del presidente Giovanni Leone, a causa del suo supposto coinvolgimento (in seguito dimostratosi inesistente) nell’affare Lockheed. Giorgio Napolitano attribuì a quell’episodio solo il senso di uno degli elementi di tensione emergenti tra Pci e Dc nella fase ormai critica dell’alleanza di solidarietà nazionale.

Le tensioni istituzionali cominciano a diventare un fattore decisivo della situazione politica con la richiesta avanzata da Enrico Berlinguer delle dimissioni del presidente Giovanni Leone, a causa del suo supposto coinvolgimento (in seguito dimostratosi inesistente) nell’affare Lockheed. Giorgio Napolitano attribuì a quell’episodio solo il senso di uno degli elementi di tensione emergenti tra Pci e Dc nella fase ormai critica dell’alleanza di solidarietà nazionale, con una evidente sottovalutazione dell’impatto istituzionale di quell’iniziativa, che in sostanza rivendicava la priorità della volontà dei partiti (in quel caso, come poi in seguito, accodata a una campagna di stampa spregiudicata) nei confronti di cariche istituzionali, compresa la più elevata. Ha pesato su questa sottovalutazione la particolare concezione dei partiti (e del “partito”) che è forse il tema su cui la revisione critica e autocritica di Napolitano è stata più tardiva e per certi aspetti incompiuta.

L’idea centrale, che è stata ripresa nel recente appello al rinnovamento dei partiti in chiave europeista, è quella di perseguire un’assimilazione del sistema politico italiano a quello delle altre grandi democrazie europee. Si tratta di un’idea forte, un ingrediente della capacità che Napolitano ha esercitato dal Quirinale, particolarmente evidente nella costruzione dell’operazione che ha portato alla nascita del governo tecnico di Mario Monti, di imporre una sospensione della dialettica bipolare in una situazione eccezionale, per poi ricostituirla in forma più matura e, appunto, “europea”. Questa sua visione continentale è stata una costante dei suoi ragionamenti sui partiti fin da quando, conclusa la fase della solidarietà nazionale, si impegnò per la costruzione, poi fallita, di un polo di sinistra in competizione con quello moderato. Il punto critico della sua iniziativa, però, fu la sottovalutazione dei problemi che riguardavano la struttura interna dei partiti. In sostanza, allo scopo di ottenere una riapertura del dialogo tra Pci e Psi, cui la maggioranza dei due partiti era ostile, accettò e anzi valorizzò il regime interno del “centralismo democratico” seppure dandone un’interpretazione più morbida.

E’ interessante a questo proposito ricordare un passaggio politico, fondamentale nella vicenda del Pci e dello stesso Napolitano, che è stato sottovalutato o addirittura dimenticato perché considerato come un episodio minore nella vicenda del Partito comunista italiano. Ai primi di gennaio del 1981 si riunì il comitato centrale per una riunione dedicata a problemi organizzativi, introdotta da una relazione di Napolitano, responsabile dell’organizzazione nella segreteria del partito. Da pochi mesi si era verificato il terremoto in Irpinia, che era stato l’occasione per Enrico Berlinguer, sulla scia di un’esternazione particolarmente polemica di Sandro Pertini sui ritardi nei soccorsi, per lanciare la nuova parola d’ordine della prevalenza assoluta della “questione morale”, che fu poi formalizzata da un appello della Direzione per un governo a guida comunista. Napolitano colse immediatamente il pericolo di questo arroccamento, di questa dichiarazione di “diversità” quasi antropologica dei comunisti per ogni prospettiva di evoluzione reale del quadro politico e cercò, nella sua relazione, di fornire un’interpretazione della peculiarità del Pci nell’ambito di una visione meno liquidatoria della funzione delle altre forze politiche.

Concluse il suo intervento con una frase che era di fatto un attacco alla linea di Berlinguer: “Non ci sono ‘diversità’ nostre che possano essere invocate come motivo di insuperabile contrapposizione e come ostacolo a un rinnovamento della direzione politica del paese, ma esperienze e qualità peculiari che vogliamo far confluire in un processo di ricomposizione unitaria della sinistra in Italia e in Europa”. Mentre enunciava una prospettiva politica diversa da quella di Berlinguer, però Napolitano ammoniva che il Pci doveva impegnarsi a “combattere e superare fenomeni negativi, di separazione e di frantumazione, innanzitutto nel suo stesso seno”. Aveva già stigmatizzato i rischi di “degenerazione frazionistica” e confermato il principio del centralismo democratico, pur richiamando le “diverse incarnazioni” che quel principio aveva prodotto, cercando di dare più peso all’aggettivo democratico che al sostantivo centralismo.

Si dovrà arrivare al 1987 perché Napolitano esprimesse un dissenso pubblico sull’elezione di Achille Occhetto a vicesegretario di Alessandro Natta, ma neppure allora si decise ad assumere la guida di un raggruppamento permanente di “opposizione” interna, nonostante le sollecitazioni che gli venivano da tanti suoi sostenitori. L’anno dopo, quando Natta si dimise (o meglio fu dimissionato da Occhetto) Napolitano, ossessionato dal “culto dell’unità del partito” (come scrisse egli stesso più tardi), finì col votare a favore del nuovo segretario, che aveva bocciato come vice.

D’altra parte questa fermezza nella difesa dell’unità del partito era stata una delle caratteristiche storiche della “destra” comunista. Quando, dopo l’invasione sovietica dell’Ungheria, nel Pci si aprì un dibattito acuto, Napolitano si schierò nettamente a sostegno delle tesi giustificazioniste di Palmiro Togliatti e fu tra i primi, nel successivo congresso del Pci, a replicare con inusuale durezza ad Antonio Giolitti, l’unico delegato che aveva preso la parola per difendere le ragioni dell’insurrezione di Budapest. Anche in quell’occasione, Napolitano si preoccupò soltanto di salvaguardare l’unità del partito, di difenderlo da attacchi esterni, prima e invece di prendere in considerazione la lezione tremenda dei fatti reali. In seguito, naturalmente, cambiò radicalmente il suo giudizio, si legò con un’amicizia particolarmente intensa proprio con Giolitti, ma ha continuato a negare che quella sia stata un’occasione perduta per un’evoluzione occidentale del Pci.

Anche quando Pietro Ingrao, a sostegno della sua tesi minoritaria del “nuovo modello di sviluppo” contrapposto alla strategia delle riforme di struttura sostenuta dal gruppo dirigente del Pci, chiese il diritto a esprimere il dissenso in modo pubblico e permanente, Napolitano lo combatté aspramente, non solo per le posizioni di merito, ma anche per la richiesta di apertura del confronto interno in forme nuove e meno ingessate. Lo stesso accadde, a maggior ragione, nella vicenda del manifesto, in cui la lotta contro il “frazionismo” prevalse sulla considerazione per il merito della critica avanzata da quel gruppo nei confronti del sistema di potere burocratizzato dell’Urss (accompagnata, però, da un’esaltazione dell’estremismo maoista).

Anche questa concezione monolitica del partito, che Napolitano conservò fino allo scioglimento del Pci, e che rappresenta un limite e una contraddizione della sua formazione ed esperienza, paradossalmente è diventata uno degli ingredienti dell’autorità politica che gli ha consentito di dominare e orientare la situazione nazionale nella fase più recente.
Nella sua concezione, infatti, l’unità è un valore da rispettare in tutti i partiti, non solo nel suo. Quando la sinistra filosovietica del Psi organizzò la scissione del Psiup, Napolitano non gioì affatto. Più in generale, non puntò mai alla rottura interna di altri partiti come strada utile per l’affermazione di un’alternativa di sinistra. Considerò sempre le formazioni politiche, anche le più lontane dalla sua sensibilità, come espressione della volontà popolare, da rispettare in quanto tali.
Nei confronti del movimento politico più distante dalla sua sensibilità, la Lega nord, l’atteggiamento di Napolitano ha seguito un percorso accidentato. Durante la sua presidenza della Camera, quando dai banchi della Lega si mostrava il capestro, Napolitano si limitò a usare gli strumenti regolamentari; ma quando divenne ministro dell’Interno, mentre manteneva alta la guardia contro gli eccessi e le illegalità potenzialmente connesse alla campagna separatista, cercò di rispondere, con la prima legge organica di regolamentazione dell’immigrazione e di repressione di quella clandestina, a esigenze fortemente sentite da quel movimento. In seguito, dal Quirinale, anche per effetto dell’evoluzione federalista del programma leghista, mantenne eccellenti rapporti con Roberto Maroni e, nei suoi discorsi sull’unità nazionale in occasione del centocinquantesimo anniversario, ha citato il federalismo tra gli obiettivi da conseguire per correggere le insufficienze e le contraddizioni del processo unitario.
Nei rapporti con Silvio Berlusconi, considerato fin dall’inizio dalla sinistra politica e mediatica un fenomeno effimero, Napolitano si è ispirato a una concezione dell’alternanza come prassi fisiologica della democrazia, puntando a rendere “mite” il bipolarismo. Il suo discorso di opposizione in occasione dell’insediamento del primo governo di centrodestra, ispirato a questo principio, fu accolto dal neo premier con soddisfazione e un’irrituale stretta di mano, mentre provoca malcelato risentimento tra i suoi compagni di partito. L’analisi differenziata degli “avversari” era una lezione che veniva da lontano, addirittura dalle lezioni sul fascismo di Palmiro Togliatti, ma interpretarla in modo moderno ha conferito a Napolitano la forza politica che gli ha consentito di collaborare lealmente con l’ultimo governo di Berlusconi e poi di indurlo ad accettare la soluzione di grande coalizione con Monti che l’asprezza e le tensioni politiche facevano apparire impossibile.

Una delle chiavi di questo successo sta nella fermezza con cui, dal Quirinale, ha resistito, combattendola anche esplicitamente, alla campagna di stampa che gli chiedeva insistentemente di agire come leader dell’opposizione “costituzionale” nei confronti di un esecutivo di cui si contestava, al di fuori e contro la Costituzione, la legittimità. Quanto sia stata insidiosa e metodica questa campagna, arrivata fino all’invocazione di un vero e proprio colpo di stato da parte di Alberto Asor Rosa, quanto abbia ispirato anche comportamenti dei settori della magistratura più politicizzati è reso evidente dalla stessa vicenda delle intercettazioni indebite delle sue conversazioni, che esprime nei fatti l’insoddisfazione di quegli ambienti per l’imparzialità del Quirinale.
Il rispetto per i partiti come espressione della volontà popolare è una costante nella vicenda politica di Napolitano, costruita all’origine anche su una concezione totalizzante del “suo” partito, da una accettazione fino all’estremo del principio dell’unità, nonché di aspetti aberranti della compressione del dibattito interno attraverso i vincoli del centralismo democratico. Lo stesso principio di totalità e onnipotenza dei partiti si ritrova nella polemica che Napolitano ingaggiò con Giorgio Benvenuto, allora segretario della Uil, che contestava il carattere totalizzante (e paralizzante della dialettica politica e delle possibilità di alternanza) della prospettiva di compromesso storico.
Da questo percorso accidentato, intessuto di insuccessi e di errori, ma anche da una capacità di autentica revisione autocritica, è scaturita l’autorità politica che ha consentito a Napolitano di padroneggiare una crisi politica, economica e istituzionale dai contorni confusi e minacciosi. Si può dire che nel corso di una lunga vicenda politica Napolitano abbia imparato a rispettare davvero gli avversari, prima interni e poi esterni al partito, e che per questo abbia alla fine ottenuto un simmetrico rispetto da loro. A differenza di tanti suoi compagni, che anche quando hanno riconosciuto di aver avuto torto non hanno perdonato chi aveva avuto ragione prima e contro di loro, Napolitano ha saputo trarre lealmente le conseguenze degli errori commessi. Il suo rapporto con Antonio Giolitti, che pure aveva attaccato in modo sprezzante nella disputa sull’invasione dell’Ungheria, è forse la dimostrazione più chiara e umanamente rilevante di questo assunto. E’ proprio dal riconoscimento e dal superamento convinto e critico degli errori che Napolitano ha tratto l’autorevolezza e l’equilibrio su cui è costruita la sua forza di indirizzo politico, altrimenti inspiegabile.   
(3. continua)

Le precedenti puntate sono state pubblicate il 2 e il 4 gennaio e sono disponibili su www.ilfoglio.it