Nero Pakistan

Luigi De Biase

Si arriva a Karachi con troppe ore di ritardo e lo stomaco in rivolta per i pasti in alta quota, si arriva con la testa nei libri di Peter Hopkirk, nei racconti dei predoni afghani e nei diari degli agenti britannici che attraversavano l’oriente col passo lirico e marziale del grande Ottocento, ma la soldatessa al controllo passaporti ha l’aria di annoiarsi molto e da molto tempo, e le cose fuori non vanno meglio. Perché Karachi è una sciagura, è un ingorgo permanente di auto vecchie e motociclette, di venditori sudati in cerca di clienti, di uomini armati fermi di fronte alle vetrine dei negozi.

    Pubblichiamo brani tratti dal libro di Luigi De Biase “Il cuore nero di Islamabad” appena pubblicato da Silvy edizioni (14 euro, 119 pp.)

    Si arriva a Karachi con troppe ore di ritardo e lo stomaco in rivolta per i pasti in alta quota, si arriva con la testa nei libri di Peter Hopkirk, nei racconti dei predoni afghani e nei diari degli agenti britannici che attraversavano l’oriente col passo lirico e marziale del grande Ottocento, ma la soldatessa al controllo passaporti ha l’aria di annoiarsi molto e da molto tempo, e le cose fuori non vanno meglio. Perché Karachi è una sciagura, è un ingorgo permanente di auto vecchie e motociclette, di venditori sudati in cerca di clienti, di uomini armati fermi di fronte alle vetrine dei negozi. I britannici hanno lasciato questa terra nel 1947 e da allora la popolazione è esplosa, è raddoppiata di anno in anno sino a raggiungere i venti milioni: qualche disgraziata legge di gravitazione ha fatto di Karachi quel che Karachi è oggi, un enorme slum poggiato sulle coste dell’oceano Indiano che spera soltanto nella stagione delle piogge. Il centro della città si chiama Saddar Town e si trova a quaranta minuti dall’aeroporto. Gli ingegneri del Raj hanno squadrato il distretto con piglio militare: palazzine di tre piani, una strada dritta che collega la chiesa di Sant’Andrea al Mercato dell’imperatrice e quartieri separati per ogni commercio. Il traffico di banchi, di gambe e di ruote sgonfie ha sepolto da tempo quel disegno. Il bazaar è una macchina in eterno movimento che strilla e odora di polvere e nafta, è una fila di donne coperte che aspettano il pane sedute composte sul marciapiede, negozi di barbiere, maschi senza braccia, banchi di frutta matura e vecchi barbuti che parlano all’ombra. Non esistono vere pareti fra le botteghe di Saddar: un uomo siede al chiosco del tè e chiede di avere una fetta di melone, il garzone scompare per qualche minuto nel bazaar e torna con il frutto fra le mani. Un cliente conosciuto potrebbe mettere insieme il corredo di una sposa senza muovere un passo. A prima vista si direbbe che il quartiere non produce rifiuti perché ognuno è impegnato a riparare qualcosa, ma le discariche si trovano ovunque: al tramonto i calzolai lavorano all’aperto seduti sui loro sgabelli, nei chioschi si frullano patate, bacche viola e canna da zucchero, un macellaio sistema i polli dentro una gabbia mentre capre e falchetti sorvegliano gli scarti lasciati a marcire per strada. Chi cerca un letto nel mercato si può rivolgere all’Hotel Reliance, ma l’uomo inchiodato al banco della reception rifiuta gli ospiti stranieri senza troppe smancerie.

    Anche il Gulf e lo United hanno le camere piene – Siete pachistani Sir? No? Da dove venite allora? Mi spiace, siamo al completo – mentre il personale dello Shalimar è molto più disponibile, ma la pensione è pervasa da un vago e onnipresente odore di pipì, direbbe Brodskij, e una rapida ispezione alle stanze suggerisce che è il caso di allontanarsi il più presto possibile. Quindi salamelecchi al vecchio con la barba tinta che guarda telenovele e al suo giovane aiutante. All’albergo Sarawi devono passarsela male perché accolgono i visitatori con strette di mano e bicchieri di succo d’arancia. Sono disposti a trattare sul prezzo delle camere business (telefono, doccia calda e wc), che passa in pochi secondi da cinquemila a tremila rupie. Un ragazzone del Punjab con un copricapo originale si carica i bagagli sulle spalle e fa strada lungo le scale. La sera, lo stesso uomo mette il cappello in un armadio, infila una calibro 38 alla cintura e si mette comodo di fronte alla porta d’ingresso. Saddar è uno dei quartieri più prestigiosi di questo enorme centro – un tassista dice che l’affitto di un negozio costa venti milioni di rupie all’anno, circa ventimila euro – ma pochi europei riuscirebbero a camparci per una settimana. Karachi è il Pakistan con i sobborghi gonfi di rifugiati afghani e pashtu, i palazzi del governo sigillati dai paramilitari, i container della Nato fermi al porto commerciale in attesa di passare il confine, i fedeli in fila di fronte alle moschee per la preghiera della sera. Ed è questo che si trova in città nel mese di luglio, niente montagne magiche, niente campagne di mango: più si cammina per le strade della città, più si pensa che l’oriente sia una grande fregatura. Ma Hopkirk non era il solo motivo che ha spinto me e un collega del Foglio, Daniele Raineri, nella pancia di Karachi. In effetti c’era anche Bin Laden. Storicamente il terrorismo è l’arma dei deboli, è lo strumento con cui una nazione povera sopperisce alla mancanza di armamenti convenzionali nella lotta contro una grande potenza.

    Il Pakistan, con le sue numerose propaggini, ha rovesciato questo paradigma: negli anni Novanta, quando aveva già un arsenale atomico a disposizione, rappresentava un rifugio abbastanza sicuro per i fanatici che intendevano colpire in Kashmir, in India, in Europa o negli Stati Uniti. Anche l’Italia è entrata nella mappa del jihad pachistano, e si può dire che il mio primo incontro con questa terra sia avvenuto in un phone center nella strada più centrale di Brescia: quello era il 2009 e un giudice aveva appena ordinato l’arresto di quattro uomini accusati di essere coinvolti in un grande attacco terroristico avvenuto un anno prima a Mumbai. Il commando, un gruppo di fuoco ben addestrato e pronto al martirio, aveva colpito dieci obiettivi diversi nel cuore della città. Per una notte stazioni ferroviarie, ospedali, hotel e locali notturni frequentati da turisti e cittadini stranieri erano diventati zona di guerra, e anche il bilancio delle vittime sembrava quello di uno scontro tra due eserciti: duecento e due morti in poche ore, compresi dieci terroristi. La Cia aveva impiegato poco tempo a stabilire i punti di contatto fra il gruppo di fuoco e l’Isi, la principale agenzia di intelligence pachistana. Ma i terroristi di Mumbai avevano ricevuto sostegno anche dall’Italia, da alcuni connazionali che vivevano da tempo a Brescia: si erano sentiti al telefono anche nel corso dell’attacco, si erano scambiati informazioni e auguri, e per questo il call center era stato chiuso dalla polizia. Il mio collega, Daniele Raineri, aveva seguito i movimenti di al Qaida con viaggi in Iraq, in Yemen e in Afghanistan. Ci è capitato di raccontare insieme l’operazione con la quale i Navy Seal, nel maggio del 2011, hanno attraversato il confine del Pakistan a bordo di due elicotteri speciali, sono scesi su una casa nelle campagne di Abbottabad e hanno ucciso Bin Laden con un colpo alla fronte. Il Pakistan, la grande centrale del terrorismo, con le sue piaghe e i paesaggi verdeggianti, ci sembrava una specie di vacanza dopo un lungo apprendistato.

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    Abbottabad sonnecchia nel Pakistan del nord, lungo la strada che porta alle cime dell’Hindu Kush. E’ una città di soldati e montagne, e due scritte enormi sulle colline orientali ricordano ai visitatori che questa è la terra di “Balochi” e “Pifferai”, fra i reparti militari più conosciuti del paese. Le caserme, i magazzini e i campi da tiro sono ovunque, ma Abbottabad non ha l’aspetto marziale delle fortezze: la gente del posto preferisce parlare di scuole e campi da golf e consiglia agli stranieri di vedere la casa del colonnello Abbot, l’ufficiale che, alla fine dell’Ottocento, portò la legge britannica in questa provincia bellicosa. La dimora di Abbot è diventata una specie di mania dopo che i militari americani hanno ucciso Osama bin Laden. Appena si pronuncia la parola magica, “Abh-tah-bad”, qualcuno attacca con la storia del museo. “Volete andare a vedere i reperti?”, domanda il proprietario di un albergo a Islamabad quando gli viene chiesto di organizzare un viaggio in città. “Scommetto che siete venuti sin qui per quello”, dice un garzone mentre cerca due bottiglie d’acqua nel fondo di un freezer. Ma il museo chiude verso mezzogiorno, i vecchi che prendono fresco seduti sotto il suo portico azzurrino non sembrano avvezzi alle visite e gli stranieri che s’avventurano ad Abbottabad sono attratti da una casa diversa, quella in cui si nascondeva l’uomo più ricercato del pianeta. Questa non è la città in cui ti aspetti di finire quando parti per il Pakistan, ma è qui che porta la storia del Pakistan. Noi abbiamo visitato Abbottabad nel mese di luglio del 2012, poche settimane dopo l’operazione dei reparti scelti americani. Allora la città era guardata a vista da migliaia di soldati e la presenza di militari ovunque rendeva nervoso anche il nostro autista pachistano, Gulam Hussein, un uomo robusto con i baffetti e la camicia bianca che preferiva essere chiamato all’americana, soltanto con le iniziali. G. H. non era del posto e ci aveva accompagnati da Islamabad con la raccomandazione di farci visitare il famoso museo. In città si orientava a malapena, ma una cosa si capiva benissimo poche settimane dopo la fine di Bin Laden: i circuiti erano sovraccarichi, meglio non fare scemenze, quindi ci seppelliva di preghiere ogni volta che l’auto era ferma a un incrocio: “Meglio se non chiediamo più indicazioni alla gente, sir”; “Mettere via la fotocamera, sir”. Così, all’ennesimo posto di blocco 92 dei militari, quando gli abbiamo chiesto di fare un’elegante inversione con l’automobile e di tornare con nonchalance nel traffico cittadino, G. H. si è piantato rumorosamente contro il marciapiede, ha stretto il volante tra le nocche sotto gli sguardi di due o tre militari con il fucile in spalla e ha disincagliato l’auto senza scendere nemmeno per controllare i danni. A sinistra, oltre a un prato e a una fila di alberi che ne nasconde la vista, biancheggiava la macchia di cemento della casa in cui viveva la mente di al Qaida. Bin Laden ha passato i suoi ultimi giorni in un quartiere di contadini alla periferia della città. Per arrivare sono servite pazienza e fortuna: le strade di Abbottabad sono strette e coperte di ghiaia e la gente aveva l’aria di non volere seccature, specie con tutti quei militari intorno. Nei giorni immediatamente successivi all’operazione Neptune Spear, diversi giornalisti hanno raggiunto questo villaggio con il permesso di effettuare riprese e interviste. Poi l’esercito ha chiuso l’area e deve avere anche istruito i cittadini della zona, perché non c’è modo di avere informazioni sul compound. Non bisogna essere sorpresi: il raid ha messo in evidenza tutti i limiti dell’esercito pachistano, una macchina dotata di armi nucleari che non riesce a impedire un attacco sul proprio territorio, e forse è anche per questo che le autorità hanno deciso di abbattere la villetta nel mese di febbraio del 2012. Se si chiede a un passante di indicare il luogo in cui viveva Bin Laden, non si ottiene altro che un cenno del capo, oppure uno sguardo che significa più o meno: “Me lo state chiedendo davvero o è una candid camera?”. Il compound era in una zona tranquilla della città, le sole voci che si sentivano lì intorno erano quelle dei bambini in uniforme azzurra che escono di corsa dalla scuola Montessori (“Metodo di apprendimento intelligente”, diceva una bella scritta colorata all’ingresso dell’edificio). Nei campi c’erano decine di persone, soprattutto donne, chine a raccogliere insalata. Altre in piedi osservavano il lavoro, e tre ragazzi fermi accanto a un carretto cercavano clienti per la frutta dei loro orti. Le case della zona hanno al massimo due piani, sono bianche e protette da recinzioni basse. Per l’autista non c’erano 93 ricchi da quelle parti, ma sembrava di essere nel quartiere più sicuro di tutto l’oriente: pareva che lì non accadesse nulla da almeno cent’anni. Mettere un piede fuori dal taxi, tuttavia, sarebbe stato un errore senza rimedio. A pochi metri dalla scuola Montessori, nascosto dietro un albero, un soldato teneva gli occhi sui passanti e le mani sul fucile automatico. Più avanti altri militari stavano all’ombra sotto una tenda con l’aria di quelli abituati a chiedere i documenti solo dopo avere aperto il fuoco. Dal loro accampamento partiva un sentiero lungo meno di cento metri: si trovava lì, guardato a vista da decine di uomini armati, l’ultimo rifugio di Osama. Lungo la strada principale che taglia in due la città si capisce che quel “oh che spiacevole sorpresa, non avremmo mai immaginato che Osama fosse nostro ospite”, ovvero il ritornello che ha accompagnato le dichiarazioni ufficiali del Pakistan dopo la scoperta del nascondiglio, è una balla immensa. La casa non era soltanto a cinquecento metri dall’Accademia militare di Kakul, da dove i soldati avrebbero potuto prendere Bin Laden con un grosso magnete, “come nei cartoni”, direbbe Jon Stewart del “Daily Show”, ma è incastrata fra terreni militari, anzi, è stata costruita su terreni dell’esercito venduti a privati. Dalla grande insegna dell’Accademia, con un carro armato verniciato in verdenero mimetico e i fiori al bivio con il viottolo che conduce a casa Bin Laden non c’era più di un minuto d’auto. Da quel punto, già è visibile il posto di blocco con le barriere di cemento e il casotto in vetro antiproiettile che protegge l’ingresso all’Accademia. Il controllo in città è asfissiante. Se si prova a fare una foto all’insegna dell’Abbottabad Golf Club, poco dietro e riservato ovviamente ai militari, escono i soldati dal cancello e dicono di no. Se si prova, un chilometro più indietro, a scattare una foto alla chiesa cristiana di San Luca, protetta da un muro di cinta in pietra, un uomo con kalashnikov seduto su una sedia di plastica accanto al cancello chiuso fa di nuovo segno di no. La città respinge i curiosi. A meno che, naturalmente, non arrivino con gli elicotteri.

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    Il ristorante al Zar gode di fama indiscussa ad Abbottabad. La cucina si trova all’ingresso, cosicché i clienti, passando per strada, possano vedere il lavoro dello chef e decidere se è il caso di fermarsi o di tirare dritto sino alla prossima mensa. Nessun uomo cresciuto in Europa rimane indifferente di fronte a questo spettacolo, e non è soltanto per il numero di mosche che s’aggirano fra scodelle unte di grasso e piatti ammucchiati in terra – gli stessi che, presumibilmente, finiranno sui tavoli dei clienti. Due forzuti prendono polli spennati dai ganci alla loro sinistra e li immergono in un liquido giallo. Poi separano la polpa dalle ossa, la tagliano a pezzi e la friggono nella tikka, una tazza di terracotta colorata. Avviene più o meno lo stesso con il montone, ma questa volta il cuciniere arrotola palle di carne nelle spezie piccanti, le infilza nello spiedo e le lascia sulla brace per qualche minuto. C’è anche una variante agli spinaci che si chiama palak. Prima di sedere a tavola i clienti si puliscono in un lavandino posto accanto alla cassa. Il cameriere fa gli onori di casa con un piatto di verdura fresca e una scodella di yogurt, mentre un ragazzo sale le scale con una pila di pane caldo. Fra i tavoli di al Zar ci sono mercanti, studenti e poliziotti in divisa. Quando una donna entra con i tre figli e chiede un tavolo per sé e per i pargoli, un cameriere la guida lontano dalla finestra e tira una tenda fra la famigliola e il resto dei clienti. Il ristorante si trova all’ingresso del gran bazaar, sul lato della moschea Jamia, le cui cupole spuntano all’improvviso fra le case basse del quartiere. Al momento della preghiera il mercato è quasi deserto e i pochi garzoni rimasti fra i banchi di carne e di frutta hanno sguardi per nulla ospitali contro i passanti: gli stranieri, da queste parti, hanno portato soltanto problemi. La letteratura sui servizi segreti dell’esercito pachistano e sul loro doppio gioco con l’America da una parte e i terroristi di al Qaida e i talebani dall’altra è ormai alta parecchi volumi. Uno dei primi capitoli riguarda proprio il nascondiglio di Osama. L’ex capo dell’intelligence afghana, Amrullah Saleh, già nel 2004 parlava chiaro. Il capo di al Qaida non si nasconde nelle aree tribali di confine, ma è sceso più in profondità dentro il Pakistan. Grazie a centinaia di contatti e interrogatori, Saleh sosteneva con cinque anni di anticipo che il nascondiglio di Osama fosse nella città di Mansehra: ventisette chilometri a nord Abbottabad, dove poi effettivamente è stato trovato (ed eliminato) il 2 maggio del 2011.

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    L’India è un’ossessione per il Pakistan. La tv trasmette continuamente i film di Bollywood, ma una striscia in sovraimpressione avverte che l’emittente non è responsabile per eventuali “messaggi fuorvianti”. L’ossessione dipende dalla disparità di forze fra i due paesi e dall’enorme pressione che i pachistani avvertono sulle loro città: Lahore si trova a una cinquantina di chilometri dal confine, finirebbe sotto assedio in un paio d’ore se gli indiani decidessero di prendere il Kashmir e di spingere la loro offensiva sino in fondo. Il fatto è che gli indiani non hanno mai mostrato grande interesse per questa eventualità. Il Pakistan non ha combattuto soltanto sul fronte convenzionale della guerra aperta. Negli ultimi trent’anni, gruppi islamici ben addestrati hanno portato a termine attacchi sanguinosi contro le grandi città indiane, e ogni volta la Cia e i servizi di Nuova Delhi sono riusciti a trovare collegamenti fra gli attentatori e l’intelligence del Pakistan. In molti casi i gruppi di fuoco hanno colpito mentre i diplomatici dei due paesi erano impegnati nelle trattative di pace, oppure mentre firmavano accordi di cooperazione sull’Afghanistan. Nel settembre del 2012, la Corte suprema dell’India ha confermato la pena capitale per Mohammed Ajmal Kasab, l’unico terrorista sopravvissuto alla strage di Mumbai del 2008, quella che aveva lasciato tracce persino nel centro di Brescia. Kasab è nato in un villaggio del Punjab, si è avvicinato al movimento estremista Lashkar e Taiba dopo anni di teppismo nelle strade di Rawalpindi e si è addestrato all’attacco in un campo al confine con il Kashmir. Per compiere la strage avrebbe ricevuto quattromila dollari. Dopo il suo arresto, le autorità di Islamabad hanno negato in ogni modo che Ajmal Kasab fosse un cittadino pachistano, anche quando i familiari del terrorista hanno confermato la sua identità. Alla Cia sono certi che l’attacco sia stato organizzato con l’aiuto dell’Isi, l’agenzia di intelligence pachistana che si è costruita una reputazione di terribile efficienza negli anni della guerra in Afghanistan, ed è coinvolta in alcuni dei peggiori attentati terroristici degli ultimi anni. E’ su questa linea pericolosa, sull’incrocio fra ossessioni nazionaliste e sostegno ai gruppi islamici, che si muove l’anima nera del Pakistan.